Nato fuori legge

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8 Maggio 2019

L’istruttivo (ed esilarante) memoir dello stand-up comedian sudafricano Trevor Noah

In Italia non è famoso come in Sud Africa – il suo Paese – o negli Usa, dove dal 2015 conduce il Daily Show, ma basta vedere un paio dei suoi sketch per innamorarsene: acuto, esilarante e, soprattutto, dissacrante. Trevor Noah ha 35 anni e la sua stand-up comedy non fa sconti a nessuno. Prende in giro, con la stessa intelligente malizia, africani, europei, americani, bianchi, neri. Smaschera razzismo e intolleranza. E irride i potenti di tutto il mondo, con una particolare predilezione – oggi che è la star di uno dei programmi di satira politica più influenti degli Stati Uniti – per Donald Trump.

Il suo memoir Nato fuori legge è da poco uscito in Italia con la traduzione di Andrea Carlo Cappi (Ponte alle Grazie, euro 18) e diventerà un film la cui protagonista sarà l’attrice premio Oscar Lupita Nyong’o.
Una donna, sì. Perché nel momento in cui Trevor ha iniziato a scrivere la propria incredibile esperienza di vita, si è reso conto che la storia aveva un’eroina: sua madre Patricia.

 

Il nucleo dell’intera esistenza di Trevor Noah è nel titolo: perché quando è nato, nel 1985 in Sud Africa, da una donna nera di etnia xhosa e un uomo bianco di nazionalità svizzera, le unioni miste erano vietate per legge.

Secondo le regole dell’apartheid il piccolo Trevor non sarebbe mai dovuto venire al mondo.

Eppure la sua nascita non è stata un errore, ma una decisione presa consapevolmente facendo coincidere cuore e testa: «Ho deciso di averti perché volevo qualcuno cui voler bene e che in cambio mi volesse bene in modo incondizionato», ripete spesso Patricia al figlio. Lo svizzero Robert, compagno di vita per un breve periodo, un erede non lo vuole. Lei insiste. Gli assicura che non avrà alcun obbligo nei confronti del bambino. Alla fine Robert cede (e senza sottrarsi alla paternità). La testarda Patricia ottiene quello che vuole. Andando contro le regole, come sempre.

Cresciuta in un’epoca in cui le donne nere potevano impiegarsi solo come operaie o domestiche, Patricia si era iscritta a un corso per diventare segretaria e aveva perfezionato il suo inglese. Così quando, negli anni Ottanta, spinto dalle pressioni internazionali, il governo aveva iniziato a fare qualche concessione ai neri, come la possibilità di lavorare negli uffici in mansioni di scarso rilievo, lei aveva trovato lavoro. A 22 anni aveva abbandonato Soweto e si era trasferita a Hillbrow, quartiere centrale di Johannesburg dove – piccolo dettaglio – ai neri non era permesso vivere, ma dove abitavano molti espatriati europei che non approvavano l’apartheid. Un signore tedesco le aveva fatto da prestanome per l’affitto. E lei, per girare nel quartiere senza destare sospetti, indossava un grembiule da domestica. Lì a Hillbrow, una zona cosmopolita dove si facevano prove clandestine d’integrazione, aveva conosciuto Robert.

Quello che rende Nato fuori legge un libro da leggere è che il talento comico di Trevor Noah riesce a mettere in evidenza gli aspetti più surreali e demenziali di un sistema disumano come l’apartheid.

Per esempio: poiché il colore della sua pelle non corrisponde né a quello della madre né a quello del padre, non può farsi vedere in giro con loro. Quando Patricia gli tiene la mano per strada, al comparire della polizia dev’essere rapida a mollare la presa e «fingere di non avermi mai visto prima, neanche fossi una bustina di marijuana». Per portarlo al parco si mette d’accordo con una vicina di casa colored, la cui pelle ha una tonalità simile a quella del bambino. Così la donna e Trevor camminano vicini e Patricia li segue, come una domestica.

«In qualsiasi società costruita sul razzismo istituzionalizzato, la mescolanza razziale non si limita a sfidare l’ingiustizia del sistema, ma ne mette in luce l’insostenibilità e l’incoerenza. Dimostra che le razze si possono mescolare… e che in molti casi è quello che vogliono. Il frutto di una relazione mista è un grido contro la logica del sistema», scrive Noah.

 

Infatti i bambini nella sua situazione non sono pochi. Ma lui non lo sa. Perché nella maggior parte dei casi le famiglie li portano all’estero. È solo dopo l’elezione di Mandela, quando gli esuli iniziano a tornare, che l’adolescente Trevor viene a conoscenza dell’opportunità di cui è stato privato. «Perché? Perché non ce ne siamo andati? Perché non siamo andati in Svizzera?», chiede alla madre. La risposta è secca: «Perché io non sono svizzera. Il mio paese è questo. Perché avrei dovuto andarmene?».

Nonostante la fine dell’apartheid non sia affatto prevedibile quando Trevor è un ragazzino, Patricia si ostina a insegnare al figlio a essere mentalmente libero. «Mi rendo conto che mi ha allevato come fossi un bianco, non culturalmente ma in modo da farmi credere che tutto fosse alla mia portata, che le mie idee, i miei pensieri, avessero un peso», racconta. «Si dice alla gente di seguire i propri sogni, ma si possono sognare solo quelli che si riescono a immaginare, il che dipende molto dalla tua origine. In certi casi, la tua immaginazione può essere molto limitata. Crescendo a Soweto, tra i sogni poteva esserci quello di aggiungere un’altra stanza alla casa».

Trevor nasce fuori legge e cresce outsider. Troppo bianco per i neri, troppo nero per i bianchi. Persino in famiglia.

Quando ne combina una delle sue, la nonna picchia gli altri nipoti, non lui. Patricia – che non lesina al figlio le punizioni corporali – se ne lamenta con la madre. La quale risponde, confusa: «Non so come picchiare un bambino bianco. Con un nero so come si fa, un bambino nero lo picchi e resta nero. Trevor, quando lo prendi a botte, diventa blu, verde, giallo e rosso. Non ho mai visto prima tutti questi colori. Ho paura di romperlo, non voglio uccidere un bianco. Ho tanta paura». Ed è anche così che il giovane impara, letteralmente sulla propria pelle, che basta avere una scarsa dotazione di melanina per essere un privilegiato.

Nella sua costante ricerca di un contesto di appartenenza, Trevor scopre l’importanza della lingua. A guidarlo c’è una frase di Mandela e – ancora una volta – l’esempio materno. «Se a un uomo parli in una lingua che capisce, gli arrivi alla testa. Ma se gli parli nella sua lingua, gli vai dritto al cuore», aveva dichiarato il padre del Sud Africa.

Non a caso durante l’apartheid il sistema scolastico prevedeva l’insegnamento nelle sole lingue tribali: i bantu studiavano in bantu, gli zulu in zulu, gli tswana in tswana. Il risultato era straordinariamente divisivo: non solo i diversi gruppi etnici si capivano con difficoltà, ma finivano per considerarsi antagonisti. Patricia aveva compreso il meccanismo. E lo aveva disinnescato: aveva imparato più lingue e parlava xhosa, zulu, inglese o afrikaans a seconda dell’interlocutore.

«La lingua porta con sé un’identità e una cultura, o almeno la loro percezione. Un idioma comune dice: “Siamo uguali”. Una barriera linguistica dice: “Siamo diversi”», afferma Trevor.

«Tuttavia, se la persona che non ti somiglia parla come te, il tuo cervello va in cortocircuito, perché il tuo programma di razzismo non ha istruzioni in proposito». È per questo che le lingue sono ponti: ed è così che Trevor inizia a usarle.

Ma ciò che finisce per salvarlo davvero dalla continua sensazione di essere fuori luogo è il suo talento comico. «Un outsider può restare nel suo guscio, diventare anonimo, essere invisibile. Oppure andare nella direzione opposta. Ci si può proteggere aprendosi. Non chiedi di essere accettato per quello che sei, ma per la parte di te che sei disposto a condividere. Per me era l’umorismo. Imparai che, pur senza appartenere a un gruppo, potevo essere accettato da quelli che ridevano», ricorda.
Da un talento naturale potenziato da un disperato bisogno esistenziale, inizia dunque una strepitosa carriera.

C’è un episodio, nel libro, che forse più di tutti riassume la cifra dell’umorismo caustico di Trevor, che non teme il politicamente scorretto.

Durante l’adolescenza mette insieme un gruppo: lui fa il dj, gli altri danzano. Tra di loro c’è una star del ballo: si chiama Hitler. Prevedendo l’inevitabile incredulità del lettore, Noah spiega: «Le potenze coloniali hanno plasmato l’Africa, hanno messo i neri a lavorare ma non li hanno istruiti in modo opportuno. I bianchi non parlavano con i neri. Quindi i neri cosa potevano sapere di quanto avveniva nel mondo dei bianchi? Per questo molti neri in Sudafrica non sapevano neanche chi fosse Hitler». Insomma: era il nome di un europeo. Famoso. Per che cosa, non era importante.

Aggiunge Noah: «C’è anche un altro aspetto da considerare: il nome Hitler non offende un sudafricano nero perché non è la cosa peggiore che un sudafricano nero possa immaginare.

Ogni paese ritiene che la propria storia sia la più importante e questo è particolarmente vero in Occidente. Ma se un sudafricano nero potesse tornare indietro nel tempo per uccidere una singola persona, Cecil Rhodes verrebbe prima di Adolf Hitler.

Se la gente del Congo potesse fare la stessa cosa, re Leopoldo del Belgio verrebbe molto prima di Hitler. Incontro spesso occidentali che insistono nel dire che l’Olocausto è stato senza dubbio la peggiore atrocità della storia umana. Sì, è stato orribile. Ma spesso mi domando quanto siano state orribili le atrocità africane, come quelle del Congo. In questo continente manca una cosa che gli ebrei hanno avuto, loro malgrado: la documentazione. (…) Le vittime dell’Olocausto contano perché le contava Hitler. Sei milioni di persone uccise. Possiamo pensare alla cifra e trovarla, giustamente, orrenda. Ma quando si legge delle atrocità compiute contro gli africani, non ci sono numeri, solo ipotesi».

Viene in mente, qui, la famosa Ted Conference della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, intitolata: The danger of the single story.

Quando è pericoloso mantenere un solo punto di vista – il proprio – sul mondo?

 

Ma torniamo al nostro ballerino Hitler. Succede che il gruppo venga invitato a esibirsi in una scuola. Il copione standard prevedeva che, una volta che il pubblico fosse stato “scaldato” dal dj, entrasse in scena la star e che gli altri lo circondassero incitandolo a gran voce: «Vai Hit-ler! Vai Hit-ler». Di solito, funzionava alla grande. Nel caso specifico, l’istituto scolastico si chiama King David School: si tratta di una scuola ebraica. Inutile dire che nessuno la prende bene. Il gioco degli equivoci, però, non finisce con la cacciata dei ballerini “antisemiti”. Perché i ragazzi, non avendo idea della ragione di tanta indignazione, la interpretano con l’unico codice che conoscono: il razzismo verso i neri. E dunque rispondono, furibondi a loro volta: «Ormai siamo liberi. Faremo quello che dobbiamo fare. Non potete fermarci. Non ci fermerete perché adesso abbiamo Nelson Mandela dalla nostra parte! Ce l’ha detto lui che possiamo farlo!».

Per chi è intrappolato nel ruolo di vittima – sembra suggerire questo episodio – comprendere l’altro rischia di essere impossibile, perché l’istinto prevalente sarà sempre quello di una chiusura autodifensiva.

A meno, forse, di imparare a guardare da una certa distanza la storia: la propria e quella degli altri. Con l’umorismo, per esempio. Scrive Trevor della madre: «Lei trovava divertente qualsiasi cosa. Non c’era niente che fosse troppo triste o doloroso perché non lo prendesse sul ridere».
La lezione di vita, per lui, più preziosa di tutte.