Kashmir, il silenzio e la paura

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23 Settembre 2019

Le voci di alcuni attivisti nella regione che da 50 giorni vive uno stato d’assedio

Qualche giorno fa, K. (un attivista kashmiri che preferisce restare anonimo per motivi di sicurezza) è riuscito a eludere il blocco delle comunicazioni approfittando di un temporaneo alleviamento delle restrizioni sul movimento delle persone, guidando fino al vicino Jammu. A inizio agosto in un messaggio aveva scritto, “Qualcosa di brutto sta per succedere in Kashmir ma nessuno sa di cosa si tratti, neanche la polizia”. Poi, per oltre un mese, il silenzio.

La mattina del 5 agosto scorso, gli abitanti del Kashmir si sono svegliati sotto un coprifuoco preventivo a tempo indeterminato senza neanche sapere il perché.

Reti telefoniche e internet erano fuori servizio dalla sera prima. Intanto, i leader politici locali (separatisti e non) erano stati messi agli arresti domiciliari e migliaia di militari indiani erano stati inviati nella valle nelle settimane immediatamente precedenti. I civili – che negli anni hanno imparato a carpire i segni di un’azione militare imminente e a misurarne i livelli di tensione – si erano precipitati a fare scorte di cibo e benzina. Quando la notizia è trapelata, passando di bocca in bocca nei vicoli dei mohalla, il filo spinato era srotolato in ogni strada, con militari, camionette e bunker a ogni angolo. Ancora una volta, il futuro della regione era stato deciso senza interpellare i suoi abitanti.

Il Kashmir è entrato oggi nel 50esimo giorno di coprifuoco e blocco totale delle comunicazioni dopo la controversa decisione del governo guidato da Narendra Modi di revocare le provvisioni costituzionali che garantivano un certo grado di autonomia al Kashmir sotto il suo controllo.

La decisione, supportata dalla destra hinduista di cui il Bharatiya Janata Party è espressione, è la più incisiva mossa politica nella regione negli ultimi settanta anni. Approfittando dello stallo politico in cui versava l’assemblea legislativa dello stato di Jammu & Kashmir – commissariata da giugno 2018 – il governo indiano, con un colpo di spugna, ha cancellato l’autonomia e declassato lo stato a due union territories amministrati direttamente da New Delhi.

La regione storica del Kashmir, divisa in due parti controllare da Delhi e Islamabad (e una terza da Pechino), era un principato che ha lottato per mantenere la sua autonomia. Durante la Partizione dell’India Britannica lungo linee confessionali – che portò alla nascita di un’India a maggioranza hindu e un Pakistan musulmano – furono gettati anche i semi della futura disputa territoriale.

Il Kashmir, con una popolazione a maggioranza musulmana e un regnante hindu, aderì infine all’Unione Indiana con la promessa di mantenere la sua autonomia nell’ambito del federalismo indiano e di sottoporre la decisione a un referendum per attestare la volontà popolare. Referendum raccomandato anche da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 1948 che pose fine alla prima delle tre guerre indo-pakistane. Ma, in settanta anni, i kashmiri non hanno mai potuto esprimersi sul loro destino.

La parte indiana del Kashmir è divisa da quella pakistana dalla Line of Control (LoC), la linea del cessate il fuoco tracciata per delimitare le posizioni dei due belligeranti  e diventata un confine di fatto su quel fazzoletto di terra nelle montagne dell’Himalaya che molti poeti hanno definito il “paradiso in terra”.

Dalla fine degli anni ’80, la porzione sotto il controllo indiano è stata teatro di una guerra a bassa intensità e di una militanza di matrice jihadista (foraggiata dal vicino Pakistan e sostenuta dalla popolazione) che si è scontrata con la brutale repressione delle forze di sicurezza indiane che negli anni si sono macchiate di pesanti violazioni dei diritti umani, protette da una legge che ne garantisce l’impunità.

Per i primi tempi trapelavano poche notizie e si scontravano con la narrativa ufficiale sostenuta dal governo, che sta veicolando l’immagine di un Kashmir tranquillo, che sta lentamente tornando alla normalità.

“Nessuno sa cosa stia davvero succedendo in Kashmir: per via del blocco delle comunicazioni e del coprifuoco in vigore da un mese e mezzo la gente non che succede in altre parti della regione, in altri villaggi”, racconta K. a Q Code Mag, “Ci sono state proteste e manifestazioni pacifiche, la rabbia ribolle sotto l’assedio e questo silenzio sembra tanto la calma che precede la tempesta. L’abrogazione dell’autonomia ha il potenziale di trasformare ogni abitante in un terrorista. Io, ad esempio: ero orgoglioso di essere indiano ma adesso mi sento tradito”.

Rabbia, tradimento, sfiducia, sono i sentimenti che prevalgono nella popolazione. Un popolo che in nome della lotta per l’autodeterminazione, per l’azadi (la libertà), ha subito 30 anni di torture, abusi, sparizioni forzate, stupri, omicidi extragiudiziali e, più di recente, l’accecamento di massa con l’uso di armi cosiddette “non-letali”, pellet guns. Per settimane i kashmiri che vivono fuori dallo stato non sono riusciti a mettersi in contatto con le proprie famiglie, mentre iniziavano a trapelare la prime notizie di torture e arresti di massa che hanno coinvolto anche bambini e adolescenti: circa 4000 persone sono state arrestate in virtù di una legge sulla sicurezza pubblica che consente di detenere un cittadino fino a due anni sulla base di semplici sospetti. Negli ospedali scarseggiano le medicine, le aule restano vuote anche se le scuole hanno ufficialmente riaperto. La vita è paralizzata e i civili sono stretti sotto il peggior assedio mai messo in atto nella regione.

foto di Andrea de Franciscis

Omair è uno studente e poeta kashmiri che vive a Delhi. Appartiene a quella generazione di kashmiri nati negli anni ’90 che ha conosciuto solo coprifuoco, repressione e violenza, molti dei quali sono stati spinti a unirsi alla militanza.

Per 23 giorni Omair non ha avuto notizie della sua famiglia, finché non è volato in Kashmir a vedere con i suoi occhi. In quei lunghi giorni ha tenuto un diario pubblicato sulle pagine del principale quotidiano pakistano, Dawn. Nel terzo giorno di blackout scrive:

Non ho ancora sentito nessuno da casa. È terribile, quasi spaventoso. Siamo in un “programma di morte”: ci attende l’epurazione. Ricordo il poeta Rorbeto Bolaño. In una delle sue poesie scrive di Godzilla in Messico. Probabilmente un riferimento al colpo di stato negli anni 70. ‘Cadevano le bombe’… ‘L’aria trasportava veleno nelle strade e attraverso le finestre’. Nel XXI secolo, in un posto del mondo dimenticato, attendiamo (nel terrore) che una (simile) guerra contro gli indifesi abbia inizio. Un simulacro di quel golpe è successo a Srinagar il 5 agosto e avrà ripercussioni letali. Stiamo contando i giorni. Speriamo ancora, pur se nella disperazione. Paghiamo il prezzo dell’assedio. Anche se a chilometri di distanza, percepiamo il terrore che si libra sulle nostre case in Kashmir. La domanda più significativa: come combatteremo questa guerra? Abbiamo ereditato la pietra come arma di guerra dai nostri antenati [in riferimento alle sassaiole dei civili kashmiri sempre più spesso associate all’intifada palestinese ndr]. In ogni caso, abbiamo anche ereditato un immenso coraggio. Il nostro retaggio: combattere oppressioni e occupazioni straniere.

A Q Code Mag ha raccontato come ha vissuto l’inferno di quei giorni e cosa ha trovato al suo ritorno a casa.

“E’ stato orribile – dice con tono flebile – quando tutto ha avuto inizio [il 5 agosto] ero nel panico assoluto. Viviamo in un’epoca in cui la comunicazione è immediata, capillare. Senza internet e telefono non potevo sapere come stava la mia famiglia, se avevano abbastanza cibo durante il coprifuoco. È stato terribile. Non sapevo cosa credere di quello che scrivevano i giornali: qualcuno [i media mainstream indiani] diceva che il Kashmir era tranquillo, normale, mentre altri [BBC, al -Jazeera] hanno girato video di proteste in cui la polizia spara sui manifestanti. Non sapevo cosa stava davvero succedendo in Kashmir e questo non ha fatto che aumentare l’ansia, la paura. Era orribile essere lontani e sapere di non poter fare nulla”.

foto di Andrea de Franciscis

Così ha deciso di tornare a casa. “Sono arrivato in Kashmir il 27 agosto: sull’aereo eravamo in 4-5 kashmiri, gli altri erano tutti poliziotti e militari in borghese. Atterrato a Srinagar [principale città del Kashmir], mi sono diretto verso il centro della città, Lal Chowk: la città era deserta, c’era un militare ogni tre metri. Hanno eretto ulteriori postazioni militari, tipo bunker, ai lati della strada, ci sono mezzi dell’esercito a ogni angolo. Sembrava di essere in territorio di guerra. Non so come sia la Palestina ma, dalle foto, immagino sia qualcosa di molto simile a quello che ho visto in Kashmir questa volta. L’autonomia era la maschera che nascondeva il dominio militare della regione: ora che la maschera è caduta, l’occupazione militare è diventata ovvia, evidente”. La massiccia presenza militare che dall’inizio della militancy presidia il territorio conteso, fa della regione una delle zone più militarizzate al mondo. Dal primo agosto 80mila truppe si sono unite a quelle già di stanza nel Kashmir indiano, stimate tra le 500 e le 700 mila unità.

“Ho sentito spesso la parola assedio per definire la situazione attuale: non sono d’accordo, l’assedio c’era anche prima del 5 agosto, si è solo intensificato. Abbiamo subito massacri, violenze, stupri, sparizioni forzate. Non era un assedio quello?”, chiede, poi il suo tono cambia.  “Il conto alla rovescia per l’India è iniziato, la tempesta è già in moto. Solo quando il blocco delle comunicazioni sarà sollevato scopriremo cosa è successo nell’ultimo mese: è una calma imposta quella che vediamo in questi giorni. Il Kashmir non si piegherà mai all’India: ogni volta che ci hanno colpito con forza, noi abbiamo risposto con ancora più coraggio. Sì, certo, la lotta avrà un prezzo in sangue, ma è un qualcosa che abbiamo accettato negli anni 90. Ogni lotta per la libertà, in tutto il mondo, ha avuto un costo in termini di vite umane. Sappiamo che dovremo sacrificare il nostro sangue per l’azadi”.

foto di Andrea de Franciscis