Passeggiando in bicicletta sul vuoto – 28

di

9 Aprile 2020

Il contagio delle storie – 28

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 28

Passeggiando in bicicletta sul vuoto – Elisa Gianni

 

Ci sono stati giorni a loro modo semplici. Giorni in cui rallentare, riconoscere che forse prima era tutto “troppo”, tornare ad accarezzarsi i capelli a vicenda e regalarsi un “Andrà tutto bene” addolcito da un sorriso.

Giorni in cui sfruttare l’abbonamento a Netflix che da mesi pagavi senza nemmeno guardare una puntata di una serie; battere palmo a palmo tutta RaiPlay, iscriverti a Amazon Prime, Mubi, Now tv; ascoltare podcast, rivedere Sanremo, ascoltare la lounge, la lirica, la classica.

Giorni in cui finire i libri lasciati a metà, divorare quelli comprati e mai aperti; giorni in cui scriverli, i libri.

Giorni in cui stirare le camicie ammucchiate da settimane, le lenzuola, le tovaglie, gli asciugamani e perfino le mutande. Giorni in cui lavare il pavimento, ginocchia a terra e strofinare con lo straccio stretto tra i guanti gialli; giorni in cui pulire il forno e il ripiano sotto il lavello. Giorni in cui cucinare, fare le torte, i biscotti e il pane in casa. Giorni del bricolage e del giardinaggio – ché nel frattempo è arrivata pure la primavera.

Quanto ci servivano dei giorni così. Ce lo siamo detti all’inizio, quando la zona rossa avanzava come un esercito silenzioso facendoci ritirare progressivamente nelle nostre case sempre più piccole e affollate di gente, di call, di dirette sui social; la meditazione su Facebook, il teatro su Youtube, l’estetista su WhatsApp, il pilates su Teams, la posturale su Zoom, la psicologa su Skype.

Poi la voce che il signore del terzo piano è positivo al virus ha iniziato a rimbalzare di balcone in balcone, sostituendo l’inno e le cantate collettive di mezzogiorno. Qualcuno si è fatto venire i sudori freddi ripensando a quando ha incrociato la moglie del positivo sul portone, finché qualcun altro ha giurato, qualche giorno dopo, di aver visto proprio lui, il positivo in persona, sulla strada che va al supermercato e l’ha fermato e gli ha detto: “Ma come, sei positivo, dovresti stare a casa, isolato in quarantena. Ci vuoi appestare tutti?”, al che un altro allora gli ha mandato un messaggio nella chat condominiale con scritto: “Ma come, sei positivo, dovresti stare a casa, isolato in quarantena. Ci vuoi appestare tutti?”.

E un altro ancora l’ha chiamato al cellulare e gli ha detto: “Ma come, sei positivo, dovresti stare a casa, isolato in quarantena. Ci vuoi appestare tutti?”. Al che il positivo ha risposto che la guardia medica gli aveva fatto la diagnosi al telefono e gli aveva dato delle indicazioni ma non aveva un certificato, e quindi lui faceva quello che voleva.

E allora tutti a bestemmiare i tamponi che li fanno solo ai ricchi mentre noi poveri stronzi moriamo dall’oggi al domani, senza avere il tempo di farsi un’idea o capire il perché.

Per sentirsi meno fragile qualcuno ha mandato una poesia, qualcun altro ha fatto rimbalzare preghiere e benedizioni, qualcun altro si è fatto forte dei “Boia chi molla” e dei saluti romani di una memoria falsa e infida da usare solo per convenienza.

Intanto passano le settimane appese alla conta dei contagiati, alla curva dei morti, ai divieti sempre più stringenti e alle ormai proverbiali modifiche dei modelli di autocertificazione.

Qualcuno si ricostruisce una normalità e qualcun altro la rifugge. I primi, spesso, sono quelli che un lavoro ce l’hanno e in famiglia hanno una stanza e un pc/tablet a testa. I secondi sono quelli che i giorni dei “Quanto ci servivano dei giorni così” si son potuti contare sulle dita di una mano chiusa in un pugno di paura, rabbia, dolore.

Nella stessa sera, il Papa prega in una piazza San Pietro bagnata di pioggia e sgombra di gente come la piazza del paesello alle tre di notte e dalla comunicazione del Quirinale sfugge un fuorionda che scalda i cuori di tanti. Piazze vuote, parchi chiusi, la tenerezza di un anziano che cammina incerto e solo in una strada deserta o che ti parla da un salotto caldo e vellutato. Eccola l’umanità ai tempi del Coronavirus: è cambiato tanto e non è cambiato granché per chi era invisibile prima e invisibile resta. Alle prese con la pandemia non c’è spazio per il protagonismo dell’assenza: c’è il primo o c’è la seconda – e, come di consueto, sarà molto più facile dopo ricordarsi del primo che non della seconda.

Ci son volute delle settimane per abituarsi a vivere l’ora, il presente rinchiuso in quattro mura. Sono state le settimane dei progetti andati in frantumi e della ritrovata percezione del tempo. Quelle in cui abbiamo ridimensionato; in cui ci siamo sentiti piccoli, insignificanti e forse pure un po’ sciocchi ad aver creduto di poter costruire il futuro. Ma sono anche le settimane in cui le ricchezze e le miserie delle nostre vite emergono come terre nuove dalle acque, a ridisegnare il paesaggio.

E se è vera la lezione che il futuro è un cancello socchiuso e che attraversiamo il presente come una passeggiata in bicicletta sul vuoto, senza potersi fermare e mettere un piede a terra, puntiamo dritti a queste terre nuove. Senza dimenticare nulla di quello che abbiamo vissuto ma senza sentirne il peso. Senza pretendere troppo dalla terra né da noi stessi. Puntiamole per le cose semplici e bellissime, per i fiori, l’erba, per ciò che sentiamo profondamente giusto e per ciò che ci rende umani. Solo puntiamole uniti.