Vivere una settimana avanti – 22

di

2 Aprile 2020

Il contagio delle storie – 22

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 22

Vivere una settimana avanti – Alessandro Ruta

A fine gennaio ero a San Sebastian per lavoro, la città risplendeva sotto il sole, nessuno si immaginava che nel giro di 40 giorni sarebbe arrivato il cataclisma che sta colpendo tutto il pianeta.

C’era qualche notizia qua e là, dalla Cina, dall’Italia la storia dei due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani dopo aver girato mezzo Stivale, niente di più. Ricordo come se fosse ieri, tuttavia, che nel ristorante dove stavo pranzando a un certo punto era entrata una famiglia asiatica, non sembrava nemmeno cinese ma più giapponese, e che l’atmosfera della tipica taverna di San Sebastian, caciarona e godereccia, per un attimo si era spenta.

Erano entrati tre “cinesi”, forse da Wuhan, forse venivano a festeggiare il capodanno cinese, vai tu a chiedere. E ricordo ancora che uscito dal ristorante, andando verso la macchina, un altro asiatico mi aveva chiesto di scattargli una foto con la Spiaggia della Concha sullo sfondo, a lui e alla moglie probabilmente, e io avevo detto di sì, di default, senza pensarci. Dettagli.

Sta di fatto che il primo vero focolaio del Covid-19 in Spagna non è stato Madrid, bensì Vitoria, la capitale dei Paesi Baschi. E più precisamente l’ospedale di Txagorritxu, dove è nata mia figlia, per fortuna due anni fa circa (23 maggio 2018).
Medici e infermieri, donne e uomini, sono finite in quarantena ormai un paio di settimane fa, quando ancora Pedro Sanchez non aveva ancora pronunciato il suo discorso drammatico in cui chiudeva tutto, sembrava di vedere Giuseppe Conte, ma “El guapo” era molto, ma molto più teso, meno rilassato del premier italiano.

Però sì, gli mancava solo l’accento foggiano e, chissà, una bella immaginetta di Padre Pio in qualche taschino o nel portafoglio (sappiamo che “Giuseppi” è molto credente); per il resto, una copia identica al primo ministro nostrano. C’è da capirlo, però, Sanchez: ha un governo che balla su un solo voto di differenza, basta che a qualcuno venga un malanno, magari non proprio il coronavirus, e va a casa, e non in quarantena.

Eppure avrebbe dovuto saperlo, il bel Pedro, che prima o poi il virus sarebbe arrivato in Spagna, e che non poteva rimanere circoscritto a Codogno, Vo Euganeo, Bergamo o la Val Seriana. E che era inutile per i cittadini dare la colpa o qualche responsabilità agli italiani untori. Caspita, lo vedevo io, lo sentivo quasi arrivare, scavalcando le Alpi e i Pirenei, e piombare con violenza non solo a Vitoria, ma in tutta la Spagna, persino a Murcia, dove all’inizio, tipo a Isernia, non c’erano stati casi perché, come scherzava la governatrice della regione, “non ci sono i treni di alta velocità”.
Con lo “Stato di allarme” dichiarato dal Governo, tuttavia, una situazione ai limiti dello Stato di polizia a dire il vero, con autonomie scavalcate dalle autorità centrali, non si è più scherzato.
E qualcuno, giustamente, ha stigmatizzato la partecipazione di folle oceaniche alle manifestazioni di piazza (legittime per carità, ma quanto sicure?) dell’8 marzo. Una domenica in cui per fortuna la mia compagna è rimasta a casa, a differenza di tantissime altre basche e spagnole.
Il bello di tutto questo? E’ che da italiano vedevi tutto con una settimana di anticipo e riuscivi ad anticipare non dico il governo, ma la vita normale di ogni giorno. E quindi uscire solo per le cose essenziali, evitare gli assembramenti, i bar, e andare al lavoro senza dare le mani a nessuno e rimanendo a un paio di metri di distanza. Ho paccato un amico che voleva invitarmi a una serata a Bilbao, giovedì scorso: “Guarda che arriva il virus, arriva la onda, io non rischio”. E lui “Dai, esagerato”.
E invece… E pensare che mi sarebbe piaciuto partecipare a quell’evento, ci ero già andato a gennaio e c’era un mucchio di gente in una specie di Circolo Arci bilbaino; proprio ripensando a quell’assembramento ho preferito rimanere a casa con la mia compagna e la mia bimba. E dovevo anche andare a fare delle interviste in giro, a Barcellona per esempio, tutto rinviato a data da destinarsi, sempre con largo anticipo rispetto allo scoppio della pandemia: “Ma dai, ma è un raffreddore!”, mi aveva risposto, quasi irridendomi, il ragazzo che dovevo intervistare. Vorrei sentirlo adesso, ma non lo farò, non mi sembra il caso.
E mi mette rabbia in realtà vedere che anche qua hanno cominciato ad applaudire gli infermieri e i medici dai balconi, a cantare come noi italiani. Ma non eravamo noi la causa di tutto? Non eravamo noi gli allarmisti? Non si sono visti, almeno dove vivo io, assalti ai treni notturni (del resto non ci sono) per andare al sud della Spagna.
Mi rimane una sensazione di straniamento, mi ricordo una scena del film Tre uomini e una gamba, quando Giacomo è ricoverato in ospedale con forti dolori al fianco dopo aver mangiato delle cozze avariate e Aldo avvisa il medico: “Guardi, secondo me è una colica renale”, e il dottore infastidito lo allontana, perché Aldo non è un medico, però tocca Giovanni su un fianco, quello caccia un grido e allora dice “Non è che può essere una tracheite”. Il “professorone” poi dirà che sì, è “una bella colica renale”, confermando la diagnosi fatta da Aldo, che nel frattempo fa una faccia come a dire “Visto? Visto?”. Ecco, l’Italia è Aldo: la Spagna, ma anche la Francia, la Germania, l’Europa direi, è il “professorone”.
Ripenso, così, a un mese fa quando, e ripensandoci mi viene quasi da sorridere, ero andato in Italia due giorni per “prendere” i miei, con cui saremmo venuti nei Paesi Baschi in macchina.

Giovedì 18 febbraio, volo Bilbao-Milano, splendida giornata, atterro a Malpensa e mi accoglie una specie di astronauta con scafandro e termometro: mi prova la febbre e quando chiedo la temperatura corporea mi dice “40.2”, sghignazzando.

Dopo aver replicato salace “Beh, pensavo di più” ero andato a casa, la sera con gli amici. Il giorno dopo, ecco il primo caso di Covid, quello del ragazzo di Codogno: e io a ripensare che poche ore prima avevo preso un tram pieno di gente, ma avevo toccato i pali per mantenermi in piedi o no? E se qualcuno ammalato l’aveva toccato?

Nella notte tra venerdì 19 e sabato 20, molto presto come al solito, via in macchina verso la Francia e poi Irun, San Sebastian, Durango, Urkiola, giù giù fino a Otxandio, borgo di 1.300 abitanti dove quasi nessuno sapeva che, per dire, c’era già stato un morto in Italia, il signore anziano di Vo.

Sarebbe diventato come Milano? Sarebbe finito in quarantena? Sì, adesso tutti in casa per altre due settimane circa. Ma io l’avevo già visto. E i miei genitori, fossero venuti tipo una settimana fa, oggi sarebbero bloccati qua.