Intro
Il Panopticon dei giorni nostri

“Quando l’uomo non è capace di rimproverare se stesso, non insista ad incolpare neppure Dio in persona”

Doroteo di Gaza

di Christian Elia

La Striscia di Gaza ha una superficie di 360 km², per una popolazione di quasi due milioni di abitanti. Una delle densità abitative più affollate del pianeta per chilometro quadrato. Il 56 % sono bambini;  quasi l’80% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà e il 74% sono rifugiati, che vivono con gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi.

La Striscia di Gaza, dal 2007, vive ogni giorno il più lungo assedio della storia dell’umanità. Non esiste un metro di paragone: la condizione di reclusione della popolazione civile non ha un precedente storico.

Questo speciale è dedicato a loro, alla popolazione civile di Gaza, oltre che a Vittorio Arrigoni, civile tra i civili, che al racconto di queste vite condannate all’ergastolo senza colpa ha dedicato la sua vita.

Questo speciale nasce perché, ormai cinque anni fa, alcuni studi delle Nazioni Unite lanciarono un allarme: entro il 2020 la Striscia di Gaza potrebbe non avere più la soglia minima di accesso alle risorse per essere considerata abitabile dagli esseri umani. Mancano pochi mesi al 2020, nulla è cambiato, anzi la situazione è peggiorata.

Questo speciale nasce in un contesto di ‘normalizzazione’ sempre più evidente della questione israelo-palestinese. Da tempo non è più un conflitto, da tempo l’occupazione della Cisgiordania è diventata un regime di apartehid, dove gli occupati lavorano per gli occupanti per guadagnarsi il pane. A Gaza non c’è neanche questo, a Gaza c’è solo prigione.

La Striscia è praticamente blindata, dal cielo (con le flotte di droni), dal mare (con la zone di esclusione che è fissata a pochi metri dalla riva), dalla terra, con i passaggi in Israele ed Egitto blindati di comune accordo dai governi israeliano ed egiziano.

Questo speciale nasce con l’intenzione di fissare quei parametri di vita che rendono l’esistenza sostenibile. Ci occuperemo di acqua, sanità, istruzione, lavoro, economia, energia. Ci occuperemo della vita di tutti i giorni. Perché la politica perde qualsiasi senso di fronte a tutto questo.

Il Panopticon è un carcere ideale immaginato e progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Al momento, sulla Terra, l’unico esempio praticato di Panopticon è la Striscia di Gaza, dove non esiste un angolo nel quale il detenuto non è a disposizione dello sguardo (e della punizione) del carceriere.

La punizione, sempre feroce, sempre collettiva, si è fatta barbarie in alcune delle più sanguinose operazioni militari degli ultimi anni. Nomi biblici, altisonanti, per massacri indiscriminati. Quasi sempre la giustificazione dell’esercito israeliano è quella del lancio dei razzi dalla Striscia, ma perché solo per il popolo di Gaza accettiamo che per fermare i responsabili si colpisca una comunità intera? Chi di noi avrebbe accettato che si radesse al suolo Palermo dopo gli attentati a Falcone e Borsellino? Ma così è a Gaza, un luogo del mondo dove il diritto non vale, un esperimento sociale e di controllo di massa che riguarda tutti i nostri spazi dell’agire democratico.

Racconteremo la vita di tutti i giorni a Gaza, dove ogni minuto che passa la stessa idea dei diritti umani perde senso. Racconteremo le forme di resistenza, racconteremo le tensioni politiche interne, ma tenendo sempre al centro le persone. Perché non esiste politica che non debba tener conto della vita degli esseri umani, prima di qualsiasi altra considerazione.

La citazione iniziale è di Doroteo da Gaza, nato ad Antiochia, in Turchia, nel 500 D.C. Si unì al monastero di Abba Serid (o Abba Sveridus) vicino a Gaza e poi  fondò il suo monastero e divenne abate. Ha scritto le istruzioni per i monaci, di cui un numero considerevole sono sopravvissuti e sono stati compilati nelle Indicazioni per la formazione spirituale. La foto di copertina ritrare Mohamed Shuman, che suona davanti alle macerie della sua casa a Gaza City, nel giugno 2015. Il titolo, invece, è quello di una poesia di Michel Cassir, poeta egiziano, formatosi in Libano. Qui il testo integrale tradotto dal francese da Giancarlo Cavallo.

Gaza l’été (Gaza d’Estate)

Mare sopracciglio aggrottato d’ammiraglio
terra filo spinato che srotola i suoi arabeschi
cielo assemblaggio di droni di tutti i colori
cielo piovra elettronica a cui il sole scava la fronte
terra che genera torri carcerarie
terra sempre più ridotta
mare illusione ottica i cui pesci
appartengono all’alta strategia di stato
cielo pioggia di lance che inchiodano al suolo ogni sussulto
di umanità
cielo capsula telecomandata dalla giustizia
divina che ha delegato il suo potere a delle
maschere democratiche
mare prosciugato nelle bocche dei bambini
che giocano tra i rottami del domani
scortica l’eco della conchiglia
il bambino bracca l’adulto con la sua paura cieca
come il tamburo sanguigno
panico e resistenza vecchio specchio
d’adolescente
terra enclave che respira attraverso i suoi tunnel
sotterranei scavati perfino con le unghie
queste arterie diaboliche dovranno essere sradicate
dalla memoria
saranno annegati in un lago di
compiacenza sotto l’occhio del padrone
presunto
cielo pentola di ventri vuoti che la terra
riempie di polvere mista a
frammenti di metallo
mare che sta annegando negli sguardi neri d’asfissia
contrariamente a quella vecchia poesia araba che
diceva che il mare è davanti e il nemico
alle spalle
qui ogni idea è costretta all’annientamento
né davanti né dietro solo il groviglio di
incubi ruggenti come
belve
fuori mare non è il mare né terra la terra e
cielo ne è appena una parvenza con i suoi
mormorii di spie supersoniche
dentro gran circo fatale in cui a volte ci
si diverte di tutto si corre disperatamente o
ci si rintana
nessun luogo è risparmiato quando i fulmini si impadroniscono
del povero cielo saturo unicorno senza più
fiato
Quanto tempo reggerà questo cielo
non solo teatro sperimentale di fuoco e
silenzio tattico ma cuore della
seduzione o dell’invettiva pioggia di
messaggi per suscitare il turbamento indigeno
dentro il cuore a contare teste e
corpi che si staccano come si
sfogliano margherite
sembra che questa terra sia nostra e con essa
parodia di cielo e almeno vista sul mare
con furtiva pesca ravvicinata
non tentare troppo la pazienza degli dei di
guerra
questi dèi zelanti giocatori di scacchi hanno diversi
ruoli punire assediare, ma anche educare
democrazia superdotata e surrettizia

noi siamo niente qui a Gaza alcuni
ostinati tutti qualificati terroristi donne
bambini adulti di pari ignominia
spennati e trasformati in entità astratte
per purificare lo spirito del colono e liberarlo
dalla nostra ossessione
ogni operazione contro di noi nuovo episodio
biblico delirio verboso di generali
il nostro labirinto immaginario in un fazzoletto
da tasca
i nostri piedi vagano ballerini impazziti in una gabbia
che nessuna scimmia ci invidierebbe
ma abbiamo abbondanza di oppressi
facciamo vibrare la vita quotidiana per farne
musica segreta

senza mare senza terra senza cielo il nostro grido
ricade sulle nostre teste con proiettili
per imparare a piegare la schiena

gas a Gaza
Gaza prigione con il gas al largo
Gaza gas gasato
gassiamo il futuro
Gaza striscia di terra da cui si attinge la riverenza
Gaza poema intrappolato nelle viscere
Gaza finzione modernità sul filo del rasoio

Cronologia
Dell'assedio e della violenza

di Christian Elia

Per avere anche solo un’idea di come si sia arrivati alla situazione attuale, per punti, sommariamente, questo è quanto è accaduto alla Striscia di Gaza e alla sua popolazione civile.

1517 – L’Impero Ottomano conquista la Striscia di Gaza.

1919 – La Striscia di Gaza, dopo la Prima Guerra Mondiale, è parte del Mandato britannico deciso dalla Società delle Nazioni.

1948 – L’Egitto controlla la Striscia di Gaza, dopo il rifiuto del piano di partizione che portò alla nascita dello Stato d’Israele.

1956 – Nel corso della Crisi di Suez, le truppe israeliane occupano e controllano la Striscia di Gaza per quattro mesi.

1967 – Le truppe israeliane, nell’ambito della Guerra dei Sei Giorni, occupano la Striscia di Gaza.

1994 – In seguito agli accordi di Oslo, la Striscia di Gaza torna nella responsabilità dell’Autorità Nazionale Palestinese.

2005 – Il governo israeliano guidato da Ariel Sharon ordina lo sgombero unilaterale dei circa 10mila coloni israeliani che avevano occupato illegalmente territori della Striscia di Gaza, ma ha mantenuto il controllo dell’accesso al mare, all’acqua e dei valichi.

2006 – Si tengono quelle che, a parere degli osservatori internazionali, si possono ritenere le elezioni più libere del Medio Oriente. Le vince Hamas. La comunità internazionale non riconosce il voto, Fatah non vuole cedere il potere, Hamas non accetta che non venga riconosciuta la sua vittoria.

2007 – La tensione sfocia in una serie di violenze (oltre 100 vittime) tra movimenti politici che portano a una spaccatura. Ancora oggi si parla – impropriamente – di ‘golpe’ di Hamas, che prende il controllo della Striscia.
La comunità internazionale vara una serie di sanzioni molto dure verso la Striscia di Gaza che colpiscono la popolazione civile. Israele dichiara Gaza ‘entità ostile’.
Tra i beni controllati finiscono cibo, medicinali e attrezzature mediche, materiale per costruzioni, oltre alle risorse idriche ed energetiche. Inizia la campagna di ‘omicidi mirati’ di leader palestinesi da parte dell’esercito israeliano.

2008 – L’esercito israeliano, con l’operazione Inverno caldo, invase direttamente l’area con forze blindate ed aeree. Oltre cento le vittime.

2008-2009 – L’esercito israeliano lancia l’operazione Piombo Fuso: oltre 1500 morti.

2012 – Israele lancia l’operazione militare Pilastro di Difesa: oltre 150 vittime.

2014 – Israele lancia l’offensiva Margine di Protezione: oltre 2500 vittime.

2018 – 2019 – La popolazione civile di Gaza inizia le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. L’esercito israeliano attacca sistematicamente i cortei.

La Grande Marcia del Ritorno
I corpi come ultima forma di resistenza

di Christian Elia

La Grande Marcia del Ritorno è partita 69 venerdì fa. Da allora, il 30 marzo 2018, ogni venerdì, migliaia di persone si muovono disarmate verso i confini della Striscia di Gaza. Sono bersagli umani, che le forze israeliane bersagliano dai confini.

Q Code Mag ha intervistato l’avvocato Salah Abdel Ati, 
coordinatore del comitato di advocacy della Grande Marcia del Ritorno e direttore del centro Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies.

Quando avete deciso che la “marcia del ritorno”, in un contesto di grave indifferenza, era l’unico modo per denunciare al mondo la situazione di Gaza?

Da diversi anni il mondo intero sta chiudendo gli occhi su quello che sta accadendo al popolo palestinese, soprattutto sulla miserabile situazione dei campi profughi a Gaza, in Cisgiordania, Siria e Libano. Il presidente Trump ha deciso di concedere Gerusalemme agli israeliani e di dichiararla capitale di Israele in contraddizione con le risoluzioni riconosciute a livello internazionale e anche contro il diritto internazionale in quanto Gerusalemme ha una situazione particolare e la parte orientale è riconosciuta come città occupata: questo ha creato un’enorme ondata di rabbia nei nostri sentimenti insieme alla rabbia che si stava costruendo anno dopo anno a causa della situazione a Gaza dove la gente soffre di assedio, disoccupazione, crollo dell’economia e mancanza di assistenza sanitaria. Tutti questi fattori hanno portato alla creazione dell’idea della “Grande Marcia del Ritorno” come una mossa per difendere i nostri diritti e permettere al mondo intero di ridisegnare il modo in cui stanno reagendo alla sofferenza del popolo palestinese e fermare la ripetuta aggressione israeliana su di noi.

Dopo aver coperto le prime manifestazioni, con un linguaggio che le faceva apparire come uno scontro tra pari, la stampa internazionale ha cominciato a ignorarvi.
Può fare un bilancio, politicamente e militarmente, delle manifestazioni?

Quando 2 milioni di persone sono rinchiuse in un piccolo appezzamento di terra di 365 Kmq, con disperate necessità di sostentamento e un futuro vago senza speranza, la stampa internazionale potrebbe fare da sola un bilancio, politicamente e militarmente, delle manifestazioni.

Milioni di rifugiati che subiscono ogni tipo di tortura mentale e psicologica, a cui è impedito di tornare nella loro terra da cui sono stati espulsi e cacciati dall’atto di guerra che fu loro inflitto dagli israeliani nel 1948: nessuno poteva prevedere come sarebbero andate le cose, ma non è colpa del popolo pacifico che è andato a dimostrare e chiedere l’attuazione della risoluzione 194 dell’ONU e chiedere al mondo intero di obbligare Israele a rispettare il diritto internazionale, ma del continuo massacro morale da parte dei media internazionali che incitano a mostrare la questione palestinese nel modo sbagliato e a disattendere i diritti inalienabili del popolo palestinese che il comitato costituito a tal fine dalla risoluzione 3376 dell’ONU riconosce.

Esortiamo quindi tutte le organizzazioni della stampa internazionale ad essere equilibrate e a considerare la situazione di un popolo che è stato espulso dalla sua terra dove un’altro popolo ha occupato le loro case e li ha scacciati.

Può darci, al momento (giugno 2019), un bilancio tra morti e feriti per la marcia?

Il numero di morti causate dalle violazioni israeliane nella Striscia di Gaza dall’inizio delle marce di ritorno del 30/03/2018 e fino al rilascio della dichiarazione del 28/6/2019 è 310 morti.

Dodici di questi sono ancora nelle mani delle forze israeliane. Di queste vittime, 207 sono stati uccisi durante la loro partecipazione alle marce di ritorno, di cui 44 bambini, 2 donne, 9 disabili, 4 paramedici e due giornalisti.

Il numero di feriti è 17106, tra cui 4015 bambini, 764 donne, 203 medici e 171 giornalisti. Dei feriti, 8598 son stati colpiti da proiettili, tra loro 1717 bambini e 168 donne.

Quanto sono i partiti politici palestinesi la forza trainante di questa iniziativa e quanto hanno invece inseguito la rabbia popolare?

Le persone che vivono in situazioni disperate come a Gaza non richiedono ai partiti politici di perseguire la rabbia popolare sull’occupante, Israele ha già commesso i suoi massacri su Gaza nel 2008, nel 2012 e nel 2014 e continua ad agire al di fuori del diritto internazionale non permettendo ai rifugiati di tornare alle loro case e alle terre da cui sono stati cacciati nel 1948.

Tuttavia i partiti politici palestinesi sono l’organo che facilita la grande marcia del ritorno, forniscono supporto logistico e finanziario, ma la marcia è amministrata dal comitato superiore della grande marcia del ritorno e Rompendo l’assedio che è un comitato che comprende tutti i partiti politici palestinesi e le organizzazioni non governative e alcune personalità pubbliche.

Può aiutarci, anche dopo le denunce dell’UNRWA e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a tracciare un quadro della situazione dei civili a Gaza per quanto riguarda i servizi essenziali?

Gaza è molto piccola, con la più alta densità di popolazione sulla Terra, con 5479 persone/km2 che soffrono del crollo totale dell’economia, poiché il tasso di disoccupazione è superiore al 54% e il tasso di povertà è dell’80%.

L’elettricità viene fornita 8 ore sì e 8 ore no. L’acqua non è adatta ad essere bevuta, quindi l’acqua potabile è venduta e i tassi di cui sopra rendono difficile per le persone ottenere acqua pura e questo è il motivo per cui i tassi di insufficienza renale stanno diventando sempre più alti. Gli ospedali ricevono 120-160 nuovi casi di cancro ogni mese e un ospedale oncologico adeguato non è disponibile a Gaza, i pazienti sono indirizzati a ospedali fuori Gaza e questa è una storia a sé e vi chiedo di venire a fare un rapporto su questo per vedere con i vostri occhi la sofferenza dei pazienti, il costo che hanno sostenuto, il tempo necessario per spostarsi da Gaza al Cairo o altrove e vedere quanti di loro non riescono ad ottenere il permesso e quindi le cure mediche diventano irregolari e anche per vedere quanti non hanno un permesso e poi devono affrontare la morte.

I casi di disagio mentale e psicologico a Gaza sono enormi a causa della depressione, della pressione e della povertà. I tassi di divorzio stanno salendo e anche i tassi di matrimonio diminuiscono a causa della mancanza di risorse, mentre non ci sono programmi di sicurezza sociale per i disoccupati.

Quali delle richieste del comitato della marcia sono più urgenti?

Porre fine all’assedio di Gaza e permettere ai rifugiati palestinesi che vivono in una situazione disumana di ritornare alle loro terre secondo la risoluzione 194, non è comprensibile come paesi rispettati aprano le loro terre ai rifugiati, mentre le stesse cancellerie permettono a Israele di non far tornare a casa i rifugiati dopo la fine delle ostilità nel 1948.

Quali obiettivi raggiunti le farebbero dire che è soddisfatto della dura battaglia che è stata condotta?

La nostra battaglia contro l’occupazione è lunga, e c’è ancora molto da fare se Israele insiste a non rispettare il diritto internazionale e a continuare la sua aggressione al popolo palestinese, come nel corso dell’ultimo anno.

Quanto teme, con l’esperienza del passato, che le prossime elezioni in Israele possano comportare una nuova massiccia operazione militare a Gaza a fini elettorali?

Le forze di aggressione israeliane sono state nel cuore di Gaza dal 1967 al 2005 e stanno ancora occupando la sponda occidentale, quando nel 2005 hanno deciso di ritirare le loro forze da Gaza, hanno trasformato Gaza in un ghetto chiuso a chiave, fatto tre guerre. Se fanno una quarta guerra sarà per le stesse ragioni.

La strada più breve per tutto ciò che uccide è il rispetto del diritto internazionale e la fine dell’occupazione, prima non c’è modo di chiedere al popolo di Gaza o al popolo palestinese nel suo complesso di smettere di resistere all’occupante o di arrendersi ad esso.

Egitto: come vive la popolazione civile di Gaza, rispetto alle barriere che potrebbero rendere ancora più difficile portare i beni di prima necessità nella Striscia, la mancanza di solidarietà di un governo arabo come quello egiziano?

Le posizioni del governo egiziano sono molto influenzate dalla posizione degli Stati Uniti e dalla visione ufficiale europea, speriamo che la nazione possa comprendere le nostre sofferenze come hanno fatto con gli altri e poi ogni cosa possa cambiare e che in quel momento possa nascere la pace e possa emergere un nuovo Medio Oriente.

Sanità
Morire di assedio

di Christian Elia

Il flusso ingente di feriti della Grande Marcia del Ritorno ha reso, se possibile, ancora più drammatica la situazione della Striscia di Gaza dal punto di vista dell’accesso alle cure mediche.

“Fino al 1991, i residenti di Gaza potevano uscire dalla Striscia senza permessi speciali”, ha spiegato Mahmoud Deeb Daher, responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in un bell’articolo della rivista israeliana +972mag.com.

“Dopo la guerra del Golfo del 1991, i permessi andavano richiesti, ma erano facili da ottenere. A partire dalla seconda Intifada, nel 2000, i permessi sono stati concessi solo per scopi limitati, compresi il commercio, lo studio e le cure mediche. Nel giugno 2005, una donna di Jabalia con un permesso medico è stata catturata a Erez con una cintura esplosiva, il che ha comportato ulteriori restrizioni e procedure di ricerca.”

Nel settembre 2005, quando Israele ha dichiarato completo il suo disimpegno da Gaza, la Striscia è stata effettivamente sigillata. L’accordo del novembre 2005 sull’accesso e il movimento avrebbe dovuto garantire un passaggio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania, ma non è mai stato attuato. Ma è stato quando Hamas ha ottenuto il controllo di Gaza, nel 2007, che Israele ha posto Gaza sotto un blocco militare completo.

La politica del Coordinator of Government Activities in the Territories (COGAT), l’istituzione del ministero della Difesa d’Israele che coordina i rapporti tra il suo governo, l’Autorità palestinese e le organizzazioni internazionali, del giugno 2010 verso la Striscia di Gaza era intesa ad alleviare la situazione umanitaria, e lo ha fatto per un po’ di tempo. “Nell’ottobre 2015, abbiamo iniziato a notare l’inversione della situazione”, ha dichiarato Daher. Migliaia di permessi commerciali sono stati ritirati, sono state applicate ulteriori restrizioni agli operatori umanitari, l’età per i controlli di intelligence sui pazienti è diminuita e i tempi di trattamento dei permessi sono aumentati.

Negli ultimi mesi, il COGAT ha iniziato a rifiutare i permessi sulla base della loro valutazione che il trattamento richiesto è disponibile a Gaza. Mentre il rifiuto di un paziente a causa di problemi di sicurezza è prerogativa della COGAT, l’esercito non poteva respingere una domanda basata sulla sua valutazione della disponibilità di quel trattamento. Israele, dopo tutto, non ha piena conoscenza del panorama medico di Gaza, in costante mutamento.

Rispetto alle accuse di attivisti internazionali, israeliani e palestinesi su questa politica disumana verso i malati, il COGAT ha risposto ufficialmente che la colpa è di Hamas, che preferisce investire in armi piuttosto che nella salute dei suoi cittadini.

Fino al 2017, pazienti e parenti tra i 16-35 anni sono stati sottoposti al nulla osta di sicurezza dello Shin Bet, il servizio d’intelligence militare d’Israele. Anche se l’agenzia di sicurezza non fornisce statistiche reali, in una pubblicazione del maggio 2017 lo Shin Bet elenca quattro esempi di residenti di Gaza che sfruttano i loro permessi medici per “scopi terroristici”. Tre dei quattro casi riguardavano il trasferimento di denaro a persone in Cisgiordania; il quarto era una donna colta con esplosivi in un flacone di pillole.

Nel novembre 2018, la Shin Bet ha rilasciato una dichiarazione su come sventare un attacco terroristico che coinvolgeva un messaggio consegnato a un operatore in Cisgiordania da donne di Gaza che entrarono in Israele per cure mediche. I pochi casi sono usati come giustificazione per restrizioni sempre più dure che colpiscono migliaia di palestinesi a Gaza, molti dei quali bambini.

Ora anche i pazienti e i parenti di sesso maschile sotto i 55 anni, così come i parenti di sesso femminile sotto i 45 anni, devono essere sottoposti al nulla osta di sicurezza.

Il processo può richiedere settimane e può portare a scelte difficili: una giovane madre che fa domanda come parente del figlio malato rischia di ritardare il suo trattamento, o un nonno, possibilmente vecchio e malato, deve accompagnare il bambino al suo posto. Israele ha accettato a gennaio di quest’anno di accelerare il nulla osta di sicurezza per le madri con bambini sotto i cinque anni, ma non si sono visti molti miglioramenti.

Nel 2018, il centro per i diritti umani al-Mezan ha documentato i casi di otto pazienti morti in attesa del trattamento; nel 2017 erano stati 54 pazienti sono morti, tra cui tre bambini.

Uscire diventa quasi impossibile, ma quale è la situazione medica all’interno dell’assedio di Gaza. OrientXXI ha intervistato il dottor Tarek Loubani, medico canadese-palestinese specializzato in emergenze e professore alla Western University in Ontario. Si tratta di uno degli esperti più competenti sulla situazione interna della Striscia di Gaza, che ha visitato più di 25 volte.

“La situazione sanitaria a Gaza è disastrosa e sta peggiorando. Dalla Grande Marcia del Ritorno, quello che era un disastro in lento sviluppo è diventato un disastro manifesto e continuo. Il blocco ha eliminato la capacità del sistema sanitario di gestire i bisogni di assistenza quotidiana molto prima dell’inizio delle manifestazioni.

I pazienti con malattie croniche come le malattie renali e il diabete soffrivano già di una mancanza di attrezzature adeguate – macchine per la dialisi, ad esempio – e dei farmaci necessari per gestire la loro condizione. I pazienti oncologici erano e rimangono completamente soggetti al capriccio dell’apparato di sicurezza israeliano, accusato di scambiare l’accesso dei pazienti oncologici alle cure salvavita per ottenere informazioni e interrogatorio di questi pazienti.

Che sia intenzionale o meno, il blocco impedisce l’ingresso a Gaza di medicinali e attrezzature mediche essenziali. Impedisce al personale sanitario palestinese di viaggiare liberamente per la formazione altrove e al personale sanitario internazionale, come me, di viaggiare liberamente per fornire assistenza e formazione a Gaza. Inoltre, degrada ed elimina le infrastrutture essenziali di cui ha bisogno qualsiasi sistema sanitario per sopravvivere, come l’elettricità o l’acqua pulita. C’è stato un breve barlume di speranza quando l’Egitto ha eletto il suo primo governo democratico nel 2012.

Le condizioni di cura sono migliorate significativamente fino a quando una dittatura militare ha rovesciato il governo e ha rilanciato la collaborazione dell’Egitto, in posizione subordinata, con il blocco israeliano”, ha dichiarato Loubani al giornalista Ahmed Abbes della testata francese.

A questa situazione tecnica, dove la mancanza di manutenzione e di elettricità fa da corollario, si aggiunge la tensione politica. Come non bastasse per il popolo di Gaza l’assedio, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha smesso ad aprile di inviare medicinali verso la Striscia di Gaza.

Il direttore generale delle farmacie del ministero della Sanità a Gaza, Munir Al-Borsh, ha dichiarato: “Il ministero di Gaza non ha ricevuto alcun medicinale da Ramallah dall’inizio di quest’anno”, facendo notare che il 48% dei medicinali a Gaza si è esaurito.

Ha anche affermato che 249 medicinali di base e 79 tipi di forniture mediche correlate al trattamento del cancro e delle malattie del sangue non sono più disponibili, e ciò “mette a rischio il trattamento dei pazienti”.

Tuttavia, il portavoce del ministero della Sanità a Ramallah, Osama al-Najjar, ha negato che fosse stata presa la decisione di interrompere l’invio di medicinali a Gaza.

“A causa degli enormi debiti verso le industrie farmaceutiche, queste hanno sospeso le forniture di medicinali al ministero, causando una crisi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza”, ha affermato.

Vero o falso che sia, con gli stipendi statali che son stati congelati per mesi per mettere pressione su Hamas, il prezzo lo paga sempre la popolazione civile.

Mediateca

Emergency Trauma Response to the Gaza mass Demostrations 2018-2019

Il rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sui feriti della Grande marcia del Ritorno

Il documentario Gaza: still alive, di Herry Fear.
Clicca sulla foto per guardarlo.

Il male invisibile
Un impatto psicologico senza precedenti

di Christian Elia

Guido Veronese (P.h.D.) è Psicologo Clinico e psicoterapeuta dell’individuo, della coppia e della famiglia. Laureato in Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università di Padova, ha ottenuto il suo dottorato in Psicologia Clinica presso l’Università di Milano-Bicocca, dove attualmente ricopre il ruolo di ricercatore di tipo B e insegna Psicologia Clinica e di Comunità.
Esperto di intervento sui traumi estremi e collettivi, lavora in zone affette da violenza politica, militare e grave violazione dei diritti umani. Guido Veronese, da anni, lavora a Gaza. Q Code Mag lo ha intervistato.

“In generale lavoro a Gaza dal 2009. Ho iniziato con ong internazionali, poi con ong locali, mentre dal 2014 con il Gaza Community Mental Health Program, che è una delle più prestigiose ong che si occupa di salute mentale dagli anni Novanta. Nata attorno alla figura di Eyad al-Sarraj, psichiatra che sarà sempre ricordato per il suo lavoro nella Striscia, dove per primo ha portato la salute mentale a essere una priorità rispetto a un contesto che non le dava il giusto peso.

Oggi l’ong fa praticamente tutto il lavoro sul disagio psichico a Gaza. Di base si occupano di counseling e psico terapia individuo/famiglie traumatizzate. Io mi occupo di formazione, collaborando con loro, da un anno e mezzo, dopo l’inizio della Grande marcia, mi occupo anche di sostenerli nella formazione del primo soccorso psicologico, in situazioni di alto trauma individuale e collettivo per ridurre il rischio di sviluppo di patologie di tipo ansioso o di PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). ”

Dieci anni son tanti. Quanto è cambiata Gaza?

Drasticamente. Dal 2012 al 2014 c’era speranza, altalenante, ma c’era speranza. Si sperava che la diplomazia alleggerisse l’assedio, le persone privilegiate avevano più permessi, dopo il 2014 un crollo verticale. Sistematica e continua tensione a chiudere ogni spiraglio di ripartenza per la popolazione civile di Gaza, di pari passo a un restringimento delle libertà interne e un assedio militare sempre più soffocante. Oggi è chiusa anche la possibilità di pescare, togliendo una ultima minima risorsa.

Un deterioramento enorme delle infrastrutture e dell’inquinamento, la crisi sanitaria è sempre più evidente. Ormai le ore con la corrente elettrica son circa quattro al giorno e ne resta intaccata la capacità stessa di sopravvivere. E’ come se strategicamente, quando vengono individuate delle competenze, delle capacità, individuali o collettive, per tirare avanti, vengano stroncate sul nascere. E il taglio dei fondi dell’Unrwa, con tutte le critiche che gli si può fare, sarà un ulteriore dramma. Quel che rimane dei fondi serve per sanità di base e scuola, tutto il resto è abbandonato. Anche la salute mentale non la si cura più, addirittura la distribuzione di cibo è a rischio.

In questi anni, studiando e lavorando, frequentando umanamente queste persone, da professionista, che idea ti sei fatto della forza che ci vuole ad alzarsi ogni mattina a Gaza? Dove si trovano le forze?

Va detto che quel che rimane di straordinario e sorprendente è la competenza e la continua capacità di resilienza per continuare a vivere in condizioni estreme. Quel che a Gaza, negli ultimi decenni, si è imparato a fare, è stato potenziare tutte le competenze che permettono di sopravvivere in un ambiente che – per tanti versi – è invivibile.

Succede così che alcune caratteristiche della stessa natura umana, la capacità di adattamento, la capacità di costruire piccole e costanti azioni di resistenza quotidiana garantiscono che queste persone riescano ad andare avanti. Per esempio, quelle che per noi sono gesti dati assolutamente per scontati, come andare a scuola e studiare, le feste di famiglia, oppure la dimensione collettiva della preghiera del venerdì, giocare per strada, diventano un gesto di sopravvivenza e di resistenza. Gli aspetti collettivi delle società arabe, l’unione familiare, il rispetto generazionale, l’elemento della crescita dei figli sono fattori che aiutano a proteggersi.

Un esempio: rompere il digiuno del Ramadan tra le macerie, tutti assieme, condividendo quel poco che hanno, è un momento di resistenza collettiva. Ciò detto, tutti questi fattori di resilienza vengono sistematicamente colpite: bombardamenti, arresti, taglio delle risorse, distruggendo le infrastrutture pubbliche, come scuole e moschee sono elementi devastanti.

Gaza, a differenza della Cisgiordania, si confronta con un assedio, non con la presenza quotidiana dell’occupazione. Gli effetti son differenti?

Di sicuro, in entrambi i casi, la figura del padre è altamente compromessa e messa in una condizione di costante perdita di dignità davanti a una società patriarcale come quella palestinese. L’impossibilità di provvedere alla sicurezza della propria famiglia, da tutti i punti di vista, è lacerante. Senza lavoro, con la casa distrutta, in totale situazione di dipendenza, perde un ruolo centrale e strategico nella famiglia e nella società palestinese.

Questo ruolo è spesso preso da altri: le donne, per prime, che riescono in più famiglie a provvedere alle risorse economiche e questo ribalta delle strutture sociali, al punto che spesso sono i figli che si prendono cura dei genitori, magari depressi e violenti. Queste dinamiche creano sofferenze enormi, violenze familiari e di genere, che a Gaza son problemi drammatici. Nonostante questo la famiglia resta l’approdo e sono ampie, prima di annientarle completamente ci vuole tempo. Son rese sempre più impotenti, ma si riorganizzano, perché altrimenti vengono stigmatizzate e prima di chiedere aiuto provano da soli, con costi sociali enormi.

Dopo tanto tempo, c’è una generazione che a Gaza conosce solo la dimensione dell’assedio. Che effetti di lungo periodo ci saranno?

Difficile dirlo. La situazione di Gaza è unica nella storia, non abbiamo precedenti statistici di questa portata. Possiamo aspettarci il meglio come il peggio. In questo quadro drammatico, per paradosso, si è creata una sorta di isola genetica a Gaza, separata da tutto, anche per assurdo dalle dinamiche sociali globali di corruzione e appiattimento. Questo ti restituisce quella cristallina, pura umanità, che altrove è difficile da trovare. Solidarietà reciproca, capacità di resistenza collettiva, disposizione all’accoglienza, alla cura, all’aiuto senza un tornaconto pratico. Potrebbe essere un gran patrimonio futuro.

Dall’altra parte c’è la sindrome del prigioniero che una volta liberato non riesce a vivere, sopraffatto da senso di colpa e inadeguatezza, insicurezza umana latente che potrebbe preludere a una società fragile e vulnerabile. Questo processo è un continuum oscillare tra agio e disagio, e i palestinesi riescono sempre a riconfigurarsi di fronte al dramma. Pensiamo ai nostri terremotati. Loro invece, appena dopo una guerra, ricominciano da capo, consapevoli che potrebbe essere tutto distrutto dopo poche ore. Estreme sofferenze, a cui una popolazione è abituata a far fronte, che generano nuovi inizi. In generale è una grande domanda: pensiamo alle conseguenze di lungo termine dell’inquinamento da metalli pesanti e sostanze velenose possano avere sulla salute fisica e psicologica e genetica. I dati sono terribili. Nessuno può dirlo.

I dati. Si riesce a raccontare in numeri questa situazione?

Nel 2014 dopo la fine dell’ultima guerra, l’Unicef parlava di 400mila bambini che necessitavano di sostegno psicologico. Oggi la situazione è peggiorata. La totalità della popolazione di Gaza ha qualcosa, da punto di vista psicologico, da affrontare.

Non esiste, a Gaza, una persona immune da quel che ha passato. In generale, si ritiene che dal 20 al 70 percento delle persone abbiano dei problemi, ma quelli con disturbi gravi son meno. Solo che Gaza è un unicuum e anche le condizioni generali di approccio alla psico-patologia vanno riviste. A Gaza c’è una dimensione collettiva, di sofferenza e di resistenza, e come tale va affrontata.

“Gli strati interni della psicologia palestinese ruotano tutti intorno ad un unico tema: lo sradicamento del 1948 e la distruzione delle loro case.
E quello che gli israeliani stanno facendo, distruggendo ogni giorno tutte queste case, sta facendo rivivere ai palestinesi il trauma, che è profondamente sepolto nel nostro conscio e nel nostro inconscio. La casa, per chiunque nel mondo, è una base di sicurezza molto importante, e per i palestinesi che hanno perso la loro casa, una volta e a volte anche più di una volta, è la questione più importante sulla composizione della struttura
della loro psicologia”. Eyad al-Serraj

Benvenuti a Gaza
Un documentario sulla Striscia di Gaza

di Clara Capelli

Spesso il racconto della Palestina, è in particolare di Gaza, è per sottrazione. Non c’è acqua, non c’è elettricità, non c’è denaro, non c’è libertà. Eppure Gaza è piena, chiassosa, indaffarata. Il documentario Gaza degli irlandesi Andrew McConnell e Garry Keane, presentato al Sundance Festival di quest’anno, ha come intento quello di mostrare la vita di due milioni di persone stipati in una striscia di 45 chilometri quadrati, una terra diventata suo malgrado il simbolo della negazione stessa della vita.

[Leggi tutto l’articolo di Clara Capelli su Q Code Mag]

 

Diari di Gaza
Il primo studente Erasmus della Striscia

Riccardo è uno studente di 24 anni iscritto all’ultimo anno di medicina dell’università di Siena. Vive in un appartamento insieme ad altri due amici. Quando annuncia che vuole partire per l’Erasmus a Gaza gli amici più stretti rimangono sbalorditi: Gaza, per tutti è nota per essere una zona di guerra.

Riccardo spiega che svolgerà lì la sua tesi in chirurgia di urgenza dove potrà studiare molti casi di ferite da proiettile esplosivo. Tutti i venerdì, infatti, i manifestanti che si avvicinano al confine per le proteste della marcia del ritorno vengono colpiti da questo tipo di proiettili.

Riccardo sarà il primo studente occidentale al mondo ad entrare nella Striscia per imparare le tecniche del mestiere dai chirurghi locali, professori dell’Università Islamica di Gaza.

Chiara Avesani e Matteo Delbò lo hanno seguito per documentarne l’esperienza.

[Clicca qui per guardare la puntata di DOC 3 con il documentario di Chiara Avesani e Matteo Delbò]

 

Lettera a un amico di Gaza
Il film documentario di Amos Gitaï

Letter to a friend in Gaza è stato presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia nel 2018 ed è ispirato a Lettere a un amico tedesco di Albert Camus.

Il documentario del regista israeliano Amos Gitaï ha una struttura teatrale, in cui la lettura di racconti e poesie da parte di celebri attori israeliani e palestinesi è intervallata dalle atroci immagini di guerra e divisione lungo la Striscia di Gaza, che soffre il blocco imposto da Israele ed Egitto da ormai dodici anni.

Un grido politico che inizia con una frase del poeta Mahmoud Darwish: “Pensa agli altri, poi, quando pensi agli altri, “Pensa a te stesso.

Disponibile in Italia grazie a Arte.

Le luci di Gaza
L'elettricità e la vita quotidiana, tra politica e assedio

di Clara Capelli

D’improvviso tutto si ferma, le luci si spengono. Qualcuno sbuffa, mentre l’aria si riempie del borbottare dei generatori e dell’odore acre del cherosene. RaHat al-kahraba’, è finita l’elettricità, e a Gaza ci si continua ad arrangiare come si può.

Dall’inizio del blocco che ha isolato la Striscia di Gaza nel 2007, l’approvvigionamento energetico è stata una fra le tante problematiche che hanno afflitto la popolazione dell’area.

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un acuto peggioramento della situazione, con una media di circa quattro-sei ore di elettricità al giorno. La crisi è rientrata verso la fine del 2018, attestandosi intorno alle 12 ore di elettricità disponibile al giorno.

La questione elettrica a Gaza riassume in sé tutte le dinamiche deformanti alimentate dai meccanismi di occupazione della Palestina e dalla sua scoraggiante situazione politica. I Territori Palestinesi sono pressoché completamente dipendenti da fornitori esterni per quanto riguarda l’elettricità.

La quasi totalità della Cisgiordania acquista l’elettricità dalla Israeli Electricity Corporation (IEC), mentre una esigua percentuale proviene dalla Giordania e copre l’area di Gerico. Nella Striscia di Gaza gran parte dell’energia proviene dalla IEC, mentre poco più del 15 percento è fornito dall’Egitto.

Gaza possiede anche un impianto elettrico (la Gaza Power Plant): attivo dal 2002, copriva oltre il 40% del fabbisogno della Striscia. È stato bombardato nel 2006 in risposta al rapimento del soldato Gilad Shalit e successivamente nel 2014 nel corso dell’operazione Protective Edge. A causa della carente manutenzione (anche per la difficoltà di far entrare le varie componenti di ricambio e i materiali da costruzione sotto blocco israeliano) e della mancanza di risorse per acquistare il carburante, la centrale opera ora fornendo circa il 20 percento di elettricità.

 

Gaza - foto di Valerio Nicolosi

 

Le condizioni, già precarie, del settore elettrico nella Striscia di Gaza sono precipitate nel corso del 2017, a seguito di una disputa tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e il governo de facto di Hamas sulla tassazione del carburante trasferito a Gaza, giudicata troppo elevata per la fragile situazione economica della Striscia.

Per anni, infatti, la Gaza Power Plant ha potuto funzionare grazie alle generose donazioni di Qatar e Turchia o al contrabbando dai tunnel con l’Egitto, mentre l’ANP esigeva dal governo de facto un miglioramento della sua capacità di riscossione delle imposte, posizione questa ampiamente supportata da alcuni donatori internazionali attivi nel settore, come la Banca Mondiale.

Nel quadro di questo braccio di ferro politico, l’ANP ha richiesto a Israele di ridurre la fornitura di elettricità alla Striscia. L’elettricità che la Palestina acquista dalla IEC, infatti, è direttamente dedotta dalle entrate fiscali sulle importazioni palestinesi – raccolte e trasferite da Israele per conto dell’ANP nel quadro del Protocollo di Parigi, l’annesso degli Accordi di Oslo in materia economica.

Sempre il Protocollo di Parigi prevede inoltre che il differenziale del prezzo del carburante tra Palestina e Israele non superi il 15 percento, cosa che appunto ne rende proibitivo il costo finale a Gaza.

 

Gaza - foto di Valerio Nicolosi

 

Per circa due anni la popolazione di Gaza ha vissuto con una manciata di ore al giorno, cosa che ha ulteriormente soffocato l’attività economica, oltre che severamente inasprito le difficoltà quotidiane della vita della Striscia, anche compromettendo il funzionamento dei servizi sanitari già in sofferenza.

Si tratta dell’ennesimo gravoso onere che la popolazione gazawiyya ha collettivamente subito, stretta nella morsa dei conflitti politici che attraversano la Palestina.

 

 

La Striscia si è ancora di più affollata di batterie, caricatori, generatori, riarticolando i ritmi sull’approvvigionamento dell’energia e sulla disponibilità di elettricità. La questione energetica ha di fatto approfondito la separazione di classe tra una élite di persone ricche o benestanti in grado di dotarsi di generatori per garantirsi regolare accesso all’elettricità e chi invece è dovuto ricorrere a fuochi improvvisati e candele, anche incorrendo in seri rischi di incendi.

Il 2019 ha portato un relativo miglioramento in termini di disponibilità energetica, ma le principali criticità permangono. In primo luogo, le tensioni tra ANP e governo de facto proseguono, riverberandosi anche sulla gestione della fornitura energetica e della distribuzione elettrica. In secondo luogo, la Striscia di Gaza, così come la Palestina tutta, rimane totalmente dipendente dall’offerta esterna, in particolare israeliana.

Molti sforzi sono stati fatti negli ultimi anni per diversificare il paniere energetico verso un utilizzo maggiormente diffuso di energie rinnovabili, in particolare di pannelli solari, anche con il sostegno finanziario di Banca Mondiale, Unione europea e Francia. Si tratta di un processo da continuare a osservare con interesse, sia per le implicazioni di politica economica, sia per l’eventuale risposta israeliana (nel caso di Gaza, l’ingresso di pannelli solari è comunque soggetto a controlli e permessi), benché non si possa non constatare con amarezza come questi interventi siano spesso intesi come una sorta di “toppa tecnica” a problemi di natura intrinsecamente politica. Nel frattempo, l’interruttore della luce continua a essere fuori dalla portata di quasi due milioni di persone.

 

Gaza - foto di Valerio Nicolosi
Scomparso
La recensione del romanzo di Ahmed Masoud

Scomparso è il primo romanzo del regista e scrittore palestinese Ahmed Masoud che, dal 2002, vive in Gran Bretagna. Tradotto dall’inglese da Pina Piccolo, e pubblicato a ottobre 2019 dalla casa editrice Lebeg, questo libro spicca per due importanti novità: l’ambientazione, il campo profughi di Jabalya a Gaza, e la trama, una sorta di intrigo familiare che si intreccia ad alcuni eventi  reale della Storia di questa terra.

[clicca qui per leggere la recensione di Silvia Moresi su Q Code Mag]

Gaza, economia di un assedio
Un sistema di sussistenza sull'orlo del collasso

di Clara Capelli

In passato Gaza è stata una terra associata a immagini di prosperità e benessere. Terra fertile, vegetazione rigogliosa, agricoltura fiorente.

Tra Ottocento e Novecento le guide turistiche e i racconti di viaggio ne descrivono i vivaci e ricchi mercati. È difficile immaginare che a ispirare quelle parole sia stata la stessa Striscia angusta e affollata da due milioni di persone che per ogni rapporto internazionale si trovano ogni giorno ad affrontare condizioni di vita più ostili e misere.

Il vocabolario della Striscia di Gaza è fatto di disperazione. Oltre il 70% della sua popolazione possiede lo status di rifugiato, circa 600mila persone vivono negli otto campi profughi gestiti da UNRWA (l’agenzia delle Nazioni Unite creata nel 1949 per l’assistenza ai profughi della nakba).

Dal 2007 vige un blocco terrestre, marittimo e aereo che ha trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto.

L’inquinamento ha raggiunto livelli tali da compromettere la vivibilità della zona, l’accesso ad acqua potabile ed elettricità è limitato e discontinuo, mentre i gazawyin continuano fare i conti con un progressivo e generalizzato impoverimento.

Secondo dati delle Nazioni Unite, poco più della metà della popolazione di Gaza vive sotto la soglia della povertà, pressoché totalmente dipendente dall’aiuto internazionale.

Il tasso di disoccupazione nel secondo trimestre del 2019 si attesta a circa il 46% (in Cisgiordania è intorno al 15%, dati Palestinian Bureau of Statistics/Organizzazione Mondiale del Lavoro), elevatissimo soprattutto fra i giovani (quasi 70%).

Una considerevole parte della forza lavoro, in particolare femminile (il tasso di partecipazione delle donne a Gaza è poco meno del 20%), è confinata al settore informale.

 

foto di Fatima Shbair

Per chi ha avuto il privilegio di osservare Gaza con i propri occhi, è impossibile non notare nei centri urbani i numerosi stabilimenti fatiscenti quando non completamente abbandonati, le botteghe chiuse, le insegne cadenti; tutti indizi dell’attività economica del passato.

La vita non si è ovviamente arrestata, e a queste tracce di un passato relativamente migliore si accompagnano a scene di intensa dinamicità, una dinamicità che porta con sé l’affanno quotidiano per una dignitosa sopravvivenza.

Lo descrive benissimo l’accademico Tarek Baconi nell’introduzione del suo libro Hamas Contained (Stanford University Press 2019, pagine xii-xiii) riguardo al suo lavoro di campo nella Striscia durante il mese di Ramadan:

[…] Gaza fremeva di vita. Le strade erano animate da venditori di ogni sorta. I caffè pullulavano di avventori che rompevano il digiuno. I campus universitari erano gremiti di studenti e insegnanti per i corsi estivi. Si avanzava lentamente nel traffico. La vita riempiva i mercati notturni e le banchine che si affacciavano dalla spiaggia sul mare. Giornalisti e filmmaker lavoravano nelle hall degli hotel. Eppure questa illusione di vita era fragile, si sbriciolava facilmente e di frequente. Impossibile non notare gli edifici crollati, mentre il rumore dei droni interrompeva le conversazioni. Le bandiere che con prepotenza indicavano la presenza dei campi di addestramento militare di Hamas sventolavano lungo le strade tra una città e l’altra. La vita si svolgeva su uno sfondo di distruzione fisica e mentale. Le attività quotidiane che si osservavano erano poco più che un segno di ciò che Gaza potrebbe essere, in un’altra realtà. Le vicende quotidiane dei Palestinesi che parlavano dell’umano spirito di sopravvivenza mi sembravano piuttosto una tragica manifestazione di un agitarsi senza fine nell’immobilità. Gli studenti si laureavano per diventare dei disoccupati. I venditori vendevano per recuperare i costi. Le famiglie facevano compere per la mera sopravvivenza.

 

foto di Fatima Shbair

La storia dell’economia di Gaza post-nakba è illustrata e analizzata nel libro De-Development della studiosa Sara Roy (la terza edizione per l’Institute for Palestinian Studies è del 2016).

L’autrice argomenta esaustivamente come l’economia di Gaza sia stata in una prima fase integrata (con un elevato grado di dipendenza) al sistema economico israeliano, per poi essere progressivamente isolata e “de-sviluppata” a partire dalla Seconda Intifada, in un processo culminato con il blocco del 2007.

Lavorare in Israele, infatti, era un’opzione redditizia per molti palestinesi; manovali, camerieri, imbianchini, eccetera, forza lavoro a basso costo rispetto ai lavoratori israeliani, ma remunerata relativamente meglio rispetto alla Striscia, cosa che permise un apprezzabile miglioramento delle condizioni di vita.

Dall’altra parte, la borghesia manifatturiera di Gaza ha in diverse occasioni fatto affari con la controparte israeliana, di fatto contribuendo a far sì che la già debole industria nella Striscia rimanesse legata ad attività di esternalizzazione o comunque ai segmenti economici più produttivi localizzati in Israele.

 

foto di Fatima Shbair

Dalla Seconda Intifada i permessi di lavoro sono diminuiti fino al blocco, cosa che ha ridotto drasticamente il potere d’acquisto di diverse famiglie.

Il blocco ha inoltre soffocato l’attività economica in ogni settore. Le fabbriche chiudono per mancanza di domanda o per l’impossibilità di importare materiali o esportare prodotti semilavorati o finiti.

L’agricoltura, storicamente in sofferenza dalla nakba, subisce un ulteriore tracollo, dovuto al fatto che circa un terzo delle aree coltivabili sono ARA (Access Restricted Areas), ossia prossime alla barriera di separazione.

Lo stesso vale per la pesca per le restrizioni imposte da Israele (il limite secondo gli Accordi di Oslo sarebbe 20 miglia marittime, ma viene fissato sostanzialmente tra le 6 e le 15 miglia marittime, spesso comunicato con un preavviso troppo corto per permettere l’uscita in mare).

La terra magnificata dalle cronache del passato è diventata appunto una palestra di sopravvivenza quotidiana.

Il 2019, inoltre, è stato particolarmente difficoltoso per la popolazione di Gaza, a seguito del braccio di ferro tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) riguardo al trasferimento delle tasse sulle importazione che il primo raccoglie – come da Accordi di Oslo – per conto del secondo.

Questa voce rappresenta circa due terzi delle entrate del budget dell’ANP e sono vitali per il pagamento degli stipendi dell’amministrazione pubblica; poco meno del 40% della forza lavoro di Gaza è infatti impiegata nel settore pubblico, per conto dell’ANP o del governo de facto di Hamas.

Questa ennesima contrazione di liquidità ha significativamente gravato sulla popolazione, anche inasprendo le posizioni di indebitamento (non sono purtroppo disponibili molti dati ufficiali a riguardo, ma l’indebitamento privato, anche a meri fini di consumo, è una questione sensibile e probabilmente in peggioramento in tutta la Palestina).

La popolazione della Striscia ha indubbiamente pagato caro e in vari modi il conflitto politico tra Fatah e Hamas, spesso venendo inoltre (almeno parzialmente) esclusa dagli interventi di sviluppo finanziati dai donatori internazionali.

In linea con i processi in corso negli ultimi mesi in Algeria, Egitto, Iraq e Libano, nei primi mesi del 2019 hanno avuto luogo a Gaza alcune proteste contro il deterioramento dei servizi e delle condizioni di vita, apparentemente guidate da un movimento di giovani chiamato bidna na’ish (“vogliamo vivere” in palestinese), anch’esso fagocitato dallo scontro Fatah-Hamas e riconsegnato – per il momento – al silenzio.

“Un agitarsi senza fine nell’immobilità”, ma appunto un agitarsi che prosegue ostinato. Per sopravvivere. E vivere.

 

Foto di Fatima Shbair
Une jeunesse palestinienne en exil
L'emigrazione di giovani palestinesi da Gaza

È una grande incognita nelle statistiche ufficiali perché in Medio Oriente la demografia è guerra. Tuttavia, negli ultimi anni si è accelerata l’emigrazione di giovani palestinesi da Gaza, ma anche dalla Cisgiordania. Colti tra la crisi economica e la continua occupazione israeliana, ma anche la disintegrazione del movimento nazionale palestinese, sempre più persone scelgono l’esilio. Una scelta che non è mai insignificante.

Un radio reportage di Marine Vlahovic per Radio France International

 

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Fuga desesperada
Decine di migliaia di palestinesi lasciano Gaza attraverso l'Egitto

Nella valigia trascina quasi tutti i suoi sogni lungo la recinzione del confine di Rafah.

Il sociologo Mohamed Ahmad, 33 anni, ha salutato la moglie e i quattro figli a Gaza con il pretesto di un improbabile dottorato in Sudan. Turchia, Grecia, Grecia, Europa occidentale….. sono destinazioni che preferisce non menzionare ad alta voce.

Il reportage di El Pais

La vita di Gaza, nonostante Gaza
La cultura e l'arte come forma di resistenza

Numeri. Il 14 novembre 2019, alle 11 del mattino, erano 34 le vittime dell’ultima operazione militare israeliana sulla Striscia di Gaza. La dinamica è sempre uguale: Israele, con un’esecuzione extragiudiziale ha assassinato Baha Abu al-Ata, leader della Jihad Islamica, gruppo armato della resistenza militare palestinese a Gaza. Nell’esecuzione è stata assassinata anche la moglie di Baha. I gruppi armati hanno risposto con un fitto lancio di razzi che è stato il segnale per le truppe israeliane. Oltre alle vittime, si contano 109 feriti. Delle vittime, otto persone appartenevano alla stessa famiglia, gli al-Swarka. Otto delle vittime erano bambini, tre le donne. L’ennesima punizione collettiva su civili inermi per un attacco di gruppi armati, ancora un’esecuzione extra giudiziale senza arresti, processi e condanne. 

Come a Gaza succede da anni, anche in questo speciale di Q Code Mag dedicato proprio ai civili della Striscia di Gaza, si risponderà con la vita alla morte.

CE

La vita di Gaza, nonostante Gaza

di Christian Elia

Quando capita di dover spiegare la vita quotidiana a Gaza a tutti coloro che non hanno il privilegio di vedere con i propri occhi, di fronte alla domanda ”ma come fanno a vivere così”, un esempio aiuta sempre.

La storia della zebra dello zoo di Gaza, caduta durante l’operazione Piombo Fuso del 2009, è il modo migliore. Un mulo, dipinto a strisce bianche e nere, sostituì la zebra il giorno dopo l’attacco. Ecco, Gaza è questo, i gazawi sono così, e sono molto di più.

E’ proprio quella vita che val la pena raccontare, non come l’ora d’aria della più grande prigione a cielo aperto del mondo, ma come l’esempio tangibile di forza enorme, che si oppone alla logica della segregazione, dell’avvelenamento, della violenza dal mare, dal cielo e dalla terra.

Il parkour, ad esempio. In questo servizio della BBC, il racconto di come una maceria è un approdo, per le lacrime, ma è anche una rampa, per l’ennesima ripartenza.

In generale sono tante, e straordinarie, le forme di resistenza culturale che animano la Striscia.

Ne è un ottimo ambasciatore il Gaza Freestyle Festival. Nato nel 2014 con il nome Festival delle Culture, in collaborazione dal 2011 con il Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni-VIK, grazie allo straordinario impegno di Meri Calvelli, che da anni lavora nella Striscia, il Festival è diventato poi, nel 2017, quello che è oggi: una collettività di persone che si divide in sei sottogruppi: il Gruppo Skate, il Gruppo Donne, il Gruppo Musica, il Gruppo Media e il Gruppo Writing, il Gruppo Circo.

SKATE
Una carovana di solidarietà ha portato, con fatica, a Gaza circa 60 skate e pezzi di ricambio raccolti grazie alla solidarietà degli skaters che hanno donato nel corso di iniziative pubbliche. E’ stato completato il primo skatepark della Striscia a Gaza, nella zona del porto, dove si radunano centinaia di ragazzi e ragazze che si allenano con lo skate e i roller-blade.

Nella Striscia di Gaza continuano a nascere nuove crew di freestyle, dai writers che si moltiplicano ogni giorno ai rapper gli skaters e i pattinatori. L’area freestyle creata dal Festival sul piazzale del porto di Gaza sarà il modello di interventi simili a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, e a nord dove il centro Vik sta lavorando ad un progetto di riqualificazione sociale ed ambientale nei quartieri popolari.

Il progetto è nella zona di Al Nada, Al Isba e Al Awada vicine a Jabalia. Il nome del progetto è – Green Hopes – ed è un intervento che prevede anche la costruzione di un tendone da circo e di uno skatepark costruito con parametri olimpici.

HIP-HOP

In collaborazione con il conservatorio Edward Saeed sono stati prodotti i video delle tracce musicali, realizzati dei workshop di musica alla scuola Saeed Erwish e coinvolto i bambini e le bambine della scuola di musica Alsoununu, nonostante le pressioni dei regolamenti di Hamas.

ARTE

Il lavoro di ri-colorare scenari di guerra e di povertà lungo tutta la Striscia in diverse situazioni è straordinario. Figure femminili e simboli di libertà, anche dentro il carcere di Hamas, dove centinaia di donne e uomini sono detenute per reati discutibili: grazie al lavoro del Festival e alle carovane di solidarietà sono state disegnate sulle pareti del carcere scene di un’umanità libera.

CIRCO

Un gruppo composto da professionisti della scuola di circo di Roma ha organizzato per due anni laboratori di arte circense per bambini e bambine. Il primo anno sono stati organizzati dei workshop per imparare ad usare i tessuti, e montato un gancio di ferro sul piazzale per riuscire a far praticare acrobazie a chiunque volesse. In collaborazione con il Gaza Circus Team che tutt’oggi utilizza l’area per i propri allenamenti.

Perché Israele continua a bombardare Gaza?
Un editoriale di Ha'aretz

di Gideon Levy – da Internazionale

Una volta di più si è riformata la santa alleanza. Ancora una volta siamo un popolo solo, senza opposizione o dibattito pubblico, i mezzi d’informazione sono una parata di yes men e cheerleader, i bagni di sangue non generano rimorsi, come sempre succede in queste disgustose situazioni del tipo “calmi, stiamo sparando”.

Israele finge divisioni tra la sua gente, che poi magicamente si ricompongono a ogni uccisione. Litighiamo sulla vita, ma siamo d’accordo sulla morte, fintanto che i morti sono arabi. Se ci troviamo così automaticamente d’accordo su praticamente ogni singola azione militare, allora non esiste in realtà alcuna polarizzazione o dibattito. E questo è davvero un problema.

Deve ancora nascere un’opposizione ebraica che condanni un’azione violenta dell’esercito israeliano fin dal principio. La resistenza arriva solo quando questa comincia a fallire. Allora le persone si sollevano e trovano il coraggio di protestare, ma è sempre troppo tardi.

[CONTINUA A LEGGERE SUL SITO DI INTERNAZIONALE]

I parenti di un palestinese ferito nei bombardamenti israeliani su Gaza, il 13 novembre 2019 - (Mohammed Salem, Reuters/Contrasto)
Morire d’acqua a Gaza

di Clara Capelli e Christian Elia

“Come bere un bicchiere di mare”. Questa è la definizione che gli abitanti di Gaza, interrogati sull’argomento, tendono a dare dell’acqua potabile della Striscia. Non è una metafora.

L’unica fonte di acqua potabile è la falda acquifera lungo la costa, sempre più pesantemente inquinata e sovrautilizzata a causa della pressione demografica.

Proprio questo eccessivo utilizzo ha fatto scendere il livello della falda sotto il livello del mare, cosa che ha considerevolmente aumentato la salinità dell’acqua. Non solo.

A causa della generale mancanza di manutenzione infrastrutturale, a sua volta conseguenza del blocco che perdura dal 2007, l’infiltrazione di acque reflue e fertilizzanti agricoli ha ulteriormente peggiorato la situazione, avvelenando l’acqua. Studi e stime di varie fonti, infatti, concordano che oltre il 95% delle risorse idriche della Striscia non sia potabile.

A mancare non sono solo le risorse finanziarie, ma gli stessi materiali e pezzi di ricambio per garantire la manutenzione della rete di distribuzione, oltre che degli impianti di trattamento delle acque di scolo.

Gran parte di questi materiali e componenti, infatti, sono considerati come dual use (ossia potenzialmente utilizzabili per scopi bellici) da Israele, quindi oggetto di lunghi, se non infiniti, controlli, quando non direttamente bloccati all’ingresso.

Senza adeguata e regolare manutenzione, gli impianti di Gaza hanno subito un inesorabile e drammatico deterioramento, cosa che ha appunto portato a pericolosi livelli di inquinamento idrico e contaminazioni di agenti chimici ed escrementi.

 

 

La cronica mancanza di acqua potabile nella Striscia è legata a doppio filo alla irregolare e insufficiente disponibilità di elettricità: senza di essa le pompe e i depuratori non possono funzionare, mentre le acque reflue si riversano nel mare e nella Striscia (campi agricoli inclusi), contribuendo al diffondersi di malattie intestinali, della pelle e renali.

E ancora, soprattutto nelle aree rurali e più povere, le famiglie spesso non dispongono di un allacciamento al sistema di scarico e ricorrono a latrine, il che contribuisce ulteriormente a un ambiente malsano e a una crisi sanitaria gravissima e destinata tristemente a peggiorare.

Di fronte a un settore pubblico paralizzato dal conflitto politico tra Autorità Nazionale Palestinese (Anp) controllata da Fatah e governo de facto controllato da Hamas e impossibilitato all’erogazione di adeguati servizi, la Striscia di Gaza ha assistito al proliferare di venditori di acqua privati.

Nel vuoto istituzionale alimentato da questa lotta politica, pressoché nessun controllo viene condotto né sulle licenze a estrarre l’acqua dai pozzi, né sugli impianti di desalinizzazione privati esistenti, per non parlare delle pratiche igieniche.

Di fronte a questa drammatica situazione, le azioni intraprese dall’Anp e dalla comunità internazionale offrono soluzioni tecniche a un problema intrinsecamente politico. Dopo i bombardamenti del 2014 – in cui fu distrutto anche il reservoir di Gaza City – fu istituito un meccanismo “temporaneo”, ma ancora a tutt’oggi in vigore, noto come GRM (Gaza Reconstruction Mechanism) tra Israele e Anp, facilitato dalle Nazioni Unite, al fine di rendere relativamente più rapido e agevole l’ingresso di materiali da costruzione e altri beni dual use.

Molti progetti, anche di grandi dimensioni, riguardano tra le altre cose il potenziamento del sistema di desalinizzazione delle acque, sistema che tuttavia pone numerose criticità, non solo riguardo alla capacità degli utenti di Gaza di pagare le bollette, ma anche e soprattutto per la natura energivora del processo di desalinizzazione, specie su larga scala.

 

 

Il costo medio del consumo di acqua pro capite in Occidente è dello 0,7 per cento dei salari mensili, secondo le stime delle Nazioni Unite.

A Gaza, un terzo dei salari mensili è destinato all’acquisto di acqua. Poiché quasi metà della forza lavoro è disoccupata, molti residenti non possono permettersi di spendere tale importo. Le poche persone più ricche di Gaza possono acquistare acqua minerale in bottiglia, ma la maggior parte dei residenti di Gaza deve farsi bastare il giorno alla settimana in cui le autorità aprono i rubinetti per alcune ore.

Come spesso accade nell’ottica dell’assedio in un territorio di tale prossimità, per un destino beffardo, oggi anche Israele rischia di avere problemi dalla sua stessa strategia di isolamento della Striscia.

Il 3 giugno scorso, un gruppo di ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato il rapporto Health Risks Assessment for the Israeli Population following the Sanitary Crisis in Gaza , commissionato dall’organizzazione ambientalista EcoPeace Middle East, in cui si avverte che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”.

Un quadro rischioso, per Israele, che ha sempre identificato l’acqua come un “problema di sicurezza nazionale”, ma in prospettiva. A Gaza, oggi, invece si muore già di acqua. Acqua che manca, o acqua che uccide quando c’è.

 

 

Uno studio della RAND Corporation, pubblicato dal quotidiano israeliano Ha’aretz a ottobre 2018, dimostrava inoltre come le malattie causate dall’inquinamento delle acque sia una delle principali cause di mortalità infantile nella Striscia di Gaza.

Secondo lo studio, l’inquinamento idrico rappresenta la causa di oltre un quarto delle malattie a Gaza e oltre il 12% delle morti infantili – fino a quattro anni fa – era collegato a disturbi gastrointestinali dovuti all’inquinamento idrico.

Da quel momento questi numeri hanno continuato a crescere. Il crollo delle infrastrutture idriche ha infatti portato a un forte aumento di germi e virus come rotavirus, colera e salmonella, afferma il rapporto.

Nel 2016, Mohammad Al-Sayis, cinque anni, ha ingerito acqua di mare allacciata dalle acque reflue, ingerendo batteri fecali che hanno portato a una malattia cerebrale fatale. La morte di Mohammad, riportata da uno speciale di al-Jazeera sulla condizione delle acque di Gaza, è stata la prima nota per fognatura nella Striscia.

La vita e la morte di Mohammed non hanno nulla a che fare con la politica. Raccontano dell’idea stessa di civiltà con la quale ci confrontiamo. Immaginare un rubinetto che non lascia scendere che un filo d’acqua, che nella maggior parte dei casi è salata o, addirittura, contaminata al punto da uccidere. Solo quando si tornerà a mettere in proporzione questo con l’idea stessa di cosa è politica e cosa è civiltà, si comincerà davvero a parlare di Gaza.