Il paradiso probabilmente

di and

12 Gennaio 2020

“Lei sa quanto la nostra casa di produzione sia sensibile alla causa palestinese, ma vede, la sua proposta, molto interessante, è troppo poco… palestinese”.

Per capire quanto Elia Suleiman ha colto nel segno nel raccontare un certo modo di fare le rivoluzioni con le vite degli altri, basta leggere la recensione del film Il paradiso probabilmente di Veronique Chaupé su Le Monde. “Suleiman ha rinunciato alla rabbia e allo spirito ribelle”, commenta la critica francese. Esattamente lo stesso atteggiamento, nel film, del produttore engagé.

Il paradiso probabilmente, candidato alla Palma D’Oro a Cannes 2019 e vincitore del premio FIPRESCI (Fédération Internationale de la Presse Cinématographique), arriva a ben dieci anni di distanza dal precedente lavoro di Suleiman, Il tempo che ci rimane (2009).

Anche questo, come i precedenti, è un film politico, ma Suleiman sembra scegliere il linguaggio dell’assurdo per il racconto, in linea con un presente sempre più surreale.

La pellicola non ha una trama, ma si compone di alcuni brevi sketch ambientati a Nazareth, Parigi e New York, in cui il regista, che impersona se stesso alla ricerca di finanziamenti per un film, esaspera grottescamente piccoli e grandi paradossi perché risultino più evidenti ai nostri occhi. Attraverso queste sequenze, Suleiman sottolinea dissonanze ma soprattutto traccia parallelismi tra gli eventi a cui assiste nelle diverse parti del mondo.

Più che di sketch, forse si potrebbe parlare di “vignette”, perché il regista palestinese, con le mani dietro la schiena, e spesso ripreso di spalle (come nella locandina), sembra il ritratto vivente di Handala, il bambino di dieci anni creato negli anni ’60 dal fumettista palestinese Naji al-Ali, che osservava in silenzio la tragedia palestinese, l’arroganza coloniale israeliana e l’ipocrisia del mondo arabo.

Naji al-Ali e il suo personaggio, Handala

In Il paradiso probabilmente, Suleiman, infatti, come se si fosse svegliato da un lungo letargo, guarda stupito le assurdità quotidiane del mondo, su cui non riesce a proferire parola; è con il suo sguardo e con il suo sopracciglio alzato che si interroga e ci interroga: Era questo il mondo che sognavamo? C’è un posto che possiamo chiamare “casa”, o siamo destinati a sentirci stranieri, esiliati, alienati e incompresi ovunque?

In quest’ultima latente domanda si sente forte l’influenza del pensiero dei due grandi intellettuali palestinesi, Mahmud Darwish e Edward Said, che descrissero la condizione di esiliato, non soltanto come una condizione politica, ma esistenziale, che può riguardare chiunque in qualunque parte del mondo: “L’esilio non finisce mai, che si sia lontani dalla patria o che vi si risieda”, questo affermava Darwish in una intervista, e questo sembra volerci anche raccontare il regista palestinese nel suo ultimo lavoro.

Il paradiso probabilmente è un film ironico, a tratti poetico, con un complesso sotto testo, e un’ottima colonna sonora, che va da canzoni più classiche, come la splendida Bahlam maak di Najat al-Saghira, a brani contemporanei, come quelli della cantante libanese Yasmine Hamdan, che è anche presente nel film con un cammeo.

Le musiche sopperiscono alla quasi totale assenza di dialoghi, un espediente che però dà la possibilità allo spettatore di dare libero sfogo all’immaginazione e rintracciare metafore e rimandi, che risulteranno diversi a seconda del proprio vissuto privato e sociale.

Come ha affermato in diverse interviste lo stesso regista, se nei suoi film precedenti aveva cercato di raccontare la Palestina come un mondo in miniatura, al contrario, in questa pellicola, mostra il mondo come se fosse un’enorme Palestina e come – allo stesso tempo – l’idea della sicurezza nel pianeta si sia israelianizzata.

E allora, se a Nazareth si è vittime della prepotenza dei vicini che rubano i limoni (chiara metafora dell’espropriazione israeliana delle terre palestinesi), a Parigi si può essere oggetto dell’inutile prepotenza e violenza di un bullo nella metro.

Le dinamiche, però, sono umane prima che politiche, o sono pre-politiche, se volete, perché gli stessi vicini sono anche una metafora delle divisioni della società palestinese: un padre (Fatah?) e un figlio (Hamas?) che passano il tempo a coprirsi di insulti, divisi, di spalle, senza trovare soluzioni.

La capitale francese è ritratta o popolata solo di turisti e belle donne, vestite come manichini pubblicitari, o deserta, vuota di umanità, una città in cui circolano solo i carrarmati o la polizia, costantemente ridicolizzata da Suleiman.

Questa sequenza rievoca senza dubbio una qualunque giornata di coprifuoco nei Territori palestinesi, ma racconta anche della militarizzazione delle città europee, delle barriere, dei muri che abbiamo alzato, dei diritti democratici di libertà che abbiamo ceduto sotto il continuo ricatto che porta il nome di “sicurezza”.

Questo parallelismo è ancora più evidente nelle sequenze ambientate a New York, a partire dai controlli di sicurezza all’aeroporto, fino alla scena nel supermercato in cui tutti (persino i bambini nel carrozzino) portano un fucile a tracolla, emblema dell’estrema liberalizzazione del commercio delle armi nell’era Trump, ma che richiama anche abbastanza chiaramente le immagini dei coloni israeliani in Palestina.

È sicuramente improponibile un paragone reale tra le drammatiche condizioni di vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana e la vita nelle ricche città occidentali, ma quello che probabilmente Suleiman vuole sottolineare è la graduale perdita di umanità in tutte le società che va di pari passo con la sacralizzazione dei “confini” da difendere.

I confini sono una reale questione di giustizia per palestinesi, ma spesso proprio gli intellettuali di questa terra che vivono l’esilio, come Suleiman, sono riusciti ad affrancarsi dal peso dell’autorità e dell’identità di Stato, allargando la loro visione umana e riuscendo a immaginare un “mondo postnazionale”.

L’intellettuale palestinese Elias Sanbar, nel suo libro Il palestinese. Figure di una identità: le origini e il divenire, afferma che la condizione di apolide rende il palestinese una metafora del migrante contemporaneo che prova a valicare clandestinamente confini e barriere, il sans papiers per eccellenza che non ha documenti che lo definiscano, ma di cui non ha bisogno per definirsi.

Suleiman va oltre, e riproduce la condizione del “palestinese globale”, ossia un individuo sottoposto a un regime di controllo statale e/o militare che lo aliena privandolo della libertà e della soggettività.

La Palestina è spesso evocata nell’arte e nella letteratura palestinese come un meraviglioso paradiso, ma è palese quanto poco quella terra oggi assomigli all’eden sognato. Allo stesso modo l’Europa e gli Stati Uniti non sono affatto le terre dei diritti, della libertà e delle opportunità, come molti propagandano e altri immaginano. Tutti paradisi per un certo verso, ma probabilmente… anche luoghi profondamente dolorosi.

E allora il viaggio finisce per essere un girare in tondo o a vuoto, a seconda dei punti di vista. La scena finale, in un locale cool in Palestina, tra la sfera stroboscopica e un mirino a infrarossi, vita e morte che convivono nella quotidianità di un sistema mondo che finisce per non lasciare vie di fuga verso un altrove che oramai è uguale al punto di partenza.