Sulle sue spalle

di

22 Dicembre 2018

Il documentario dedicato a Nadia Murad, Premio Nobel per la Pace 2018

«La ringraziamo per il suo coraggio straordinario»: così Berit Reiss-Andersen, presidentessa del Comitato Nobel si è rivolta a Nadia Murad nel corso della cerimonia che, il 10 dicembre scorso, ha visto la giovane yazida ricevere a Oslo il Premio Nobel per la Pace 2018 (insieme al medico congolese Denis Mukwege).

Nadia, 25 anni, ha ascoltato in silenzio. Ha vacillato qualche secondo, quando Reiss-Andersen ha fatto riferimento alla sua cattura da parte dell’Isis, che nel 2014 ha ridotto lei e altre migliaia di donne yazide in schiavitù. Poi ha schermato l’emozione dietro un’espressione inizialmente smarrita, infine impassibile, che ha tenuto anche durante la lunghissima standing ovation che la platea, reali norvegesi inclusi, le ha tributato. Seria, ha pronunciato un discorso senza sconti, come tutti quelli che ha tenuto in questi ultimi anni.

«Vi ringrazio per questo onore, ma rimane il fatto che l’unico premio che può restituirci la nostra dignità è la giustizia e la persecuzione dei criminali», ha dichiarato.

A Nadia Murad è dedicato il documentario Sulle sue spalle che la regista Alexandria Bombach ha girato nel 2016, seguendo la giovane in giro per il mondo, tra Canada, Grecia, Germania e infine New York, dove ha parlato davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Un titolo perfetto, On her shoulders. Perché le immagini che il documentario ci restituisce sono quelle di una ragazza minuta, poco più che ventenne che – sostenuta non solo da un coraggio straordinario, ma da una forza morale che stentiamo quasi a riconoscere, tanto siamo disabituati a incontrarla – ha scelto di farsi carico della sofferenza e delle speranze di un popolo intero.

Gli yazidi sono un popolo del nord dell’Iraq che nel 2014 è stato vittima di genocidio, per motivi religiosi, da parte dell’Isis. Durante l’attacco al villaggio di Kocho, dove Nadia abitava con la famiglia, la madre e tre dei suoi sei fratelli sono stati uccisi. Lei e altre migliaia di donne sono state catturate e usate come schiave sessuali. Stuprate, considerate proprietà privata, spesso vendute. Nadia è riuscita a scappare e ha trovato asilo in Germania. Da allora non ha mai smesso di ripetere la sua storia, ogni volta che gliene è stata data l’occasione: interviste a giornali e televisioni, incontri con politici, visite a campi profughi, presenza a manifestazioni di sostegno al popolo yazida, discorsi all’Onu.

«Nel mio film volevo mettere l’accento su cosa comporta, per lei, continuare a raccontare questa storia», ha dichiarato la regista, che tratta Nadia e la sua vicenda con delicatezza e rispetto estremi.

Con una resistenza che impressiona, Nadia da anni si sottopone a questo rito. Le stesse domande, ripetute all’infinito, che la costringono a rivivere l’orrore. Cosa le hanno fatto, in quanti erano, come si è sentita, poteva dire di no, come ha resistito, ha mai pensato al suicidio? E lei, che non vuole definirsi attivista, ma solo vittima, risponde. Sempre. Nel documentario la vediamo interrompersi, a volte, per asciugarsi le lacrime. Respira, ringrazia per la solidarietà e poi ricomincia. Sostenuta da Murad Ismael (Direttore Esecutivo della Yazda Organization, nata nel 2014 per fornire supporto alla minoranza yazida), che la protegge come un angelo custode, Nadia non si risparmia. Quando una donna, durante una manifestazione a Berlino, si getta a terra in preda alla disperazione lei, piccola madonna vestita di nero, si inginocchia e la conforta. E se a cedere è lei, chi le sta accanto la sprona: non piangere, le dicono, questa gente prende il coraggio da te. «Benché sia la persona più forte che abbia mai visto, non so quanta forza le resti ancora», dichiara Murad Ismael nel film. Ma la sua forza sembra inesauribile. Perché lei non parla per sé, mai, ma a nome di un popolo intero e di quelle migliaia di donne e bambine ancora schiave dell’Isis.

Il documentario la accompagna fino al suo potente discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, nel settembre 2016: «Vi supplico di mettere l’umanità al primo posto. Questa vita non è stata creata solo per voi e le vostre famiglie. Anche noi vogliamo una vita e il diritto di viverla».

Sono passati due anni. Nel 2018 arriva il Nobel. E lei, che continua a chiedere solo giustizia, a Oslo accetta il premio con queste parole: «Uniamoci tutti per combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Alziamo la nostra voce per dire no alla violenza, sì alla pace, no alla schiavitù, sì alla libertà, no alla discriminazione razziale, sì all’uguaglianza e ai diritti universali. No allo sfruttamento di donne e bambini, sì alla garanzia per loro di una vita dignitosa e indipendente, no all’impunità per i criminali, sì alla loro incriminazione e all’ottenimento della giustizia».

La regista Alexandria Bombach definisce Nadia Murad un’attivista riluttante. Ed è per questo che Sulle sue spalle è un documentario che va visto. Perché ci ricorda che anche in mezzo al buio nero della barbarie e del cinismo può esserci una luce. Che emana dagli occhi umili di una venticinquenne che non sa arrendersi all’ingiustizia.