Chi siamo noi?
Non chiamateci seconde generazioni

di Angelo Miotto

Partiamo dal futuro. Quartiere semi-periferico, strade meticce, scuole a maggioranza di seconde generazioni. E però fra di loro non ce n’è traccia, stiamo parlando di medie inferiori e superiori. Jesus, Licia, Asma, John, Netuki sono nomi che vengono pronunciati con una semplicità e normalità che può stupire solo generazioni passate o politici ignoranti, che con dolo si oppongono a una normale trasformazione della società.

Filippine, Afghanistan, Egitto, Cina, Perù e potremmo continuare a lungo. Le notazioni nei discorsi di ritorno da scuola sono quelle che riguardano fatti, voti, amicizie, ripicche, giovani amori. L’unica cosa che è risaputa è che lo stile di giocare a basket dei filippini è diverso, ma parliamo di atteggiamento tattico.

Ovviamente il tema delle e dei 2G c’è ed esiste. Ma con sfumature molto diverse da quelle che si potrebbe immaginare e nei primi anni di mélange sociale passa quasi del tutto inavvertito.

Le barriere, i confini, ce li abbiamo in testa spesso noi, che leggiamo e scriviamo, che facciamo la politica. Gli ostacoli, molto spesso li mette la burocrazia, che di fatto discrimina, o la mancanza di leggi che sanciscano un fatto che esiste.

Se la legge è inadeguata al tipo di società che governa, allora delle due l’una: o la legge è da rifare, oppure chi scrive la legge non ha abbastanza fiuto per capire in che tipo di società sta vivendo.

Detto in maniera meno semplicistica, sicuramente il luogo e la condizione sociale sono elementi che creano differenze, per cui un piccolo paese della provincia e una metropoli non sono la stessa cosa.

C’è poi un elefante che entra in cristalleria: la politica xenofoba che si è fatta largo nel nostro Paese e in tanti altri con i partiti di destra e sovranisti. Qui il tema 2G torna, prepotente. Perché la retorica, la violenza delle parole, l’aggressività dei messaggi, la volontà di creare un noi e un loro anche solo per la provenienza delle famiglie di origine ha causato gravi e profondi danni nel tessuto sociale.

Gli anziani sono in genere meno duttili rispetto alle proprie stagioni verdi e propensi al lamento: ma forti dell’imbeccata xenofoba sono quelli che riescono a proferire le peggiori cose sui mezzi pubblici o nei litigi di quartiere, mentre i più giovani arrivano sporadicamente all’insulto razziale, molto spesso sotto stress agonistici o in casi di bullismo generalizzato.

Abbiamo, insomma, uno iato molto ampio ormai, fra quello che accade nel normale progredire di una società mista e l’utilizzo elettoralistico e di potere di una parte importante della politica non solo italiana, ma europea e trans-oceanica.

Cosa ci può aiutare a livello semantico? Forse riconoscere i luoghi comuni dei sostantivi che utilizziamo e imparare a usarne di nuovi.

L’integrazione è un concetto sbandierato spesso quando si parla di questi temi.

Eppure, la parola migliore, senza dubbio, è: rispetto.
Il nucleo familiare che arriva da un altro paese non è per forza di cose costretto a integrarsi, lo è per una questione di quotidianità e di leggi, di usanze e tradizioni che incontra nella nuova realtà, spesso facendo fatica ad abbandonare usi e costumi che sono propri della propria identità, quindi cercando di chiudersi dentro comunità di simili. I figli di queste realtà vivono nella scuola l’elemento normalizzatore della situazione.

Ed è qui che non dobbiamo chiedere una integrazione tout court, cioè un atto per cui un nucleo entra dentro, il che presuppone un lasciar fuori qualcosa, ma avere una grande disposizione al rispetto. Delle radici di chi arriva, delle radici di chi vive il territorio. Con il rispetto, reciproco, si parte alla pari. In un territorio che ha delle leggi e una organizzazione, una lingua e una storia.

E per le 2G questo vuol dire avere accesso a essere rispettate per un passato proprio, ma soprattutto per un presente che per forza di cosa deve riconoscere il loro status di cittadino che è nato e che vive su un territorio.

Sappiamo tutto questo, ma non chiamiamoli seconde generazioni. Sono le prime, a tutti gli effetti, sono una evoluzione familiare e sociale, un soggetto diverso. Difficile applicare leggi obsolete per il futuro.

Conversazioni

Per parlare di identità composite (e complesse) e di cosa comportano in termini di autodefinizione – personale, ma anche sociale – abbiamo chiesto a quattro italiani con origini straniere di dialogare con noi. I nostri interlocutori sono: Sumila Jayasekara, 34 anni, nato e cresciuto a Milano da genitori dello Sri Lanka, Paese che ha sempre visitato regolarmente. Insegna alla scuola primaria, a Milano. Evelyne Sarah Afaawa, 32 anni, genitori di origini del Ghana, è nata in Francia e arrivata in Italia quando aveva un anno. Ci è rimasta fino ai 12, quando i suoi l’hanno mandata nel loro Paese per quattro anni. Lì ha conosciuto la cultura e la lingua delle sue origini. Tornata in Italia ha continuato a studiare, si è specializzata in finanza («Volevo far la broker, meno male che non è stato così: oggi penso che la finanza sia la rovina di questo mondo!», racconta) e poi seguendo proprio il richiamo della sua doppia identità («Non volevo necessariamente sceglierne una, stare da una parte o dall’altra, ma accoglierle entrambe allo stesso livello», spiega) è diventata imprenditrice avviando Nappytalia, prima una community per ragazze che scelgono di portare i ricci afro al naturale, ora anche una linea di prodotti per capelli. Infine Elvira Mujcic, 40 anni, nata in Jugoslavia e diventata bosniaca dopo la dissoluzione del Paese. Arrivata a 14 anni in provincia di Brescia («Città di cui ho preso anche l’accento!», specifica lei), si è poi trasferita a Roma dove ha studiato Lingue («Quelle importanti come inglese, tedesco e russo: un tentativo di dimenticare la mia lingua madre, che mi sembrava “inutile” al cospetto di queste altre e pensavo non mi sarebbe mai servita per lavoro… e invece mi sono ritrovata a fare la traduttrice letteraria proprio di libri scritti nella mia lingua!», racconta). È traduttrice e scrittrice.

Definirsi.
La hyphenated identity, ovvero l’identità “con il trattino”.

Scrive Amin Maalouf nel libro L’identità a proposito del suo essere franco-libanese: «Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza tra due paesi, due o tre lingue, parecchie tradizioni culturali. È proprio questo che definisce la mia identità. Metà francese e metà libanese, dunque? Niente affatto, l’identità non si divide in compartimenti stagni. Non ho parecchie identità, ne ho una sola, fatta di tutti gli elementi che l’hanno plasmata secondo un “dosaggio” particolare che non è mai lo stesso da una persona all’altra». 
Unire due origini con un trattino crea davvero uno spazio virtuale esaustivo di ciò che si è? E come ci si sente, a starci dentro?

«Negli anni ho visto la mia persona cambiare, evolversi come se ci fossero degli stadi, delle fasi della vita che ti fanno rendere conto prima di come sei, poi di come sei percepito, poi di come vorresti essere percepito, per arrivare alla fine (che in realtà non è mai una fine) a una consapevolezza, a una presa di coscienza rispetto a te stesso», racconta Evelyne Sarah Afaawa. «Metti un punto, ti dici: voglio definirmi così. Da lì il viaggio dell’identità continua, però con un cambio di rotta: non è più l’esterno che influisce sull’interno, ma viceversa. Perché tu sai quello che vuoi essere. Quando ho creato la community nappytalia.it, io e altre ragazze di origine africana ci siamo fatte delle domande. Abbiamo iniziato a prendere le distanze dalle afromericane, perché le nostre storie sono diverse, noi sappiamo esattamente da dove veniamo. Ho iniziato, quindi, a definirmi afrodiscendente. Oggi, invece, preferisco italo-ghanese e voglio fortemente essere chiamata così: perché le mie radici ghanesi devono essere presenti nella definizione di me stessa e perché penso sia utile far capire che l’Africa è un continente grande e non si può mettere tutti sotto l’ombrello “afro” che vuol dire tutto e niente. Il Ghana è un punto preciso e lì c’è la mia identità. Le cose potranno ancora cambiare? Certamente: per esempio quando diventerò madre».

Sul fatto che il concetto di identità sia fluido e possa modificarsi più volte concorda Sumila Jayasekara. «È come una miscela. Non come l’olio, ma come un solvente che si mescola con altre sostanze e ne crea di nuove. Le culture sono sempre il risultato di mescolanze: pensiamo all’Italia, dove ci sono stati gli etruschi, i celti, i romani, i longobardi, gli spagnoli, i francesi… Mi fanno ridere i nazionalisti che parlano dell’identità italiana come cristallizzata. Lo stesso vale per me: anche se devo dire che l’italianità spicca di più perché sono nato qua. Ho avuto la fortuna di avere una madre impegnata nell’associazionismo all’interno della comunità singalese, quindi sono sempre stato in contatto con le mie radici. Inoltre dai 2 ai 4 anni ho vissuto in Sri Lanka. Però essendomi formato culturalmente qui, è l’appartenenza all’Italia che pesa di più. Tant’è che quando ho preso la cittadinanza italiana, paradossalmente lo Sri Lanka me l’ha tolta e ci sono rimasto molto male: per riaverla dovrei pagare e questo mi ha ulteriormente spostato verso l’italianità. Però sono molto legato alla mia cultura di provenienza: negli ultimi tempi sto riscoprendo, per esempio, il lato gastronomico. Quando vivevo con mia madre era lei che mi cucinava i piatti tipici… Ora mi ci sto riavvicinando io!».

«Provenendo da un Paese con un’identità “da solvente” come l’ha chiamata Sumila, ho attraversato anche io tanti stadi, quasi sempre determinati dal fuori e iniziati purtroppo in maniera crudele», interviene Elvira Mujcic. «Le mie domande sono iniziate con una guerra, durante la quale la mia identità – quella della Jugoslavia, Paese a cui avevo giurato fedeltà – veniva dichiarata non più esistente. Nel 1992 avevo 12 anni, ero in prima media e i compagni hanno preso a chiamarmi “turca”: mi è venuto il sospetto di essere stata adottata, finché ho capito che mi chiamavano così perché era partita una propaganda, basata su riferimenti al periodo ottomano, per cui le persone di religione musulmana (è così che ho scoperto di esserlo!) venivano accusate di essere invasori. In pratica la mia storia con l’identità inizia con una negazione: credevo di essere qualcosa, cioè jugoslava, e invece mi si dice che non è così e, oltretutto, quella che mi si propone come nuova identità è un problema e causa un genocidio. Tutto questo si è riverberato anche nella lingua: la mia è il serbocroato ma tra noi ex jugoslavi usiamo l’accortezza di dire “la nostra lingua” per comprenderle tutte. Questo germe di riuscire a chiamare tante lingue diverse – croato, serbo, bosniaco, sloveno, macedone – con un nome unico è lo stesso della mia identità, che è molto complessa.

Per quanto riguarda, poi, la mia identità con il “trattino” italo-bosniaca… è stata una conquista, perché me le sono dovute sudare entrambe! Essendo bianca con tratti somatici che possono sembrare del posto, a lungo ho vissuto questa strana situazione: abitavo qui e mi sentivo italiana, però ogni anno dovevo rinnovare il permesso di soggiorno e quindi ricordarmi che non potevo votare e avevo diritto a restare solo finché lavoravo o studiavo. La mia permanenza dovevo meritarmela, insomma: non potevo rilassarmi mai! E in Bosnia, stessa cosa: non ero una bosniaca, ma una della diaspora. Ero continuamente rimbalzata da un posto all’altro. Ricordo una situazione quasi kafkiana in cui mi trovai a Vienna. Rimasi bloccata lì perché serviva un visto per proseguire verso la Cecoslovacchia. Istintivamente andai all’ambasciata italiana, ma non avendo la cittadinanza risposero che non potevano aiutarmi. Allora andai a quella bosniaca, ma lì mi dissero: lei è una bosniaca che risiede in Italia, quindi il visto lo deve chiedere all’Italia. Alla fine, quando la faccenda si è risolta ho riflettuto sul fatto non c’era un’ambasciata alla quale avrei potuto rivolgermi in caso di necessità. Di conseguenza quel “trattino” per me è una ricchezza enorme, è stata una conquista».

L’italianità.
Colori, sapori, immagini che tratteggiano il carattere della Penisola

Se, come insistono i sovranisti, esiste davvero una “comunità di italiani”, di quali elementi è costituita? Esistono caratteristiche che possono essere considerate tipicamente italiane da Nord a Sud? Quali potrebbero essere?

«Se dovessi scegliere un elemento che contraddistingue l’italianità direi il gusto. Da Bolzano a Lampedusa gli italiani stanno attenti a ciò che mangiano e alla provenienza del cibo. L’amore per la gastronomia è molto importante e non è un amore chiuso, ma si espande. La cultura del cibo è un tratto comune a tutto il Sud del mondo», afferma Sumila. Anche Evelyne indica il cibo: «Io soffro quando esco dai confini! Qualche anno fa sono stata per un periodo a Londra e ricordo che un giorno, esasperata, sono andata a fare la spesa per cucinarmi qualcosa di buono a casa. Un’altra volta mi trovavo ad Amsterdam per una borsa di studio e pur di mangiare un piatto di pasta l’ho pagato 15 euro… ma ne valeva la pena! Aggiungerei anche un altro elemento di italianità che mi appartiene: il gesticolare. Hanno anche provato a legarmi le mani, ma se non gesticolo non mi escono le parole! Durante le videocall cerco di tenere le mani basse, ma la verità è che… le muovo sotto lo schermo!».

Aggiunge Elvira: «Io ho due appartenenze italiane: la bresciana e la romana. Due città diverse ma ognuna con qualcosa che mi definisce: Brescia ha una dedizione al lavoro, un’autodisciplina che io sento molto mia e nella quale mi sono sempre riconosciuta, anche se contrasta con lo stereotipo del balcanico che sta sempre a perdere tempo… I romani, invece, hanno questa capacità di sapersi godere la vita, cosa alla quale oggi non si dà più tanta importanza. Entrambe queste due caratteristiche, se dosate bene, fanno l’arte di vivere la vita».

L'eredità della cultura d’origine

Vissuta attraverso i racconti in famiglia oppure visitata durante l’infanzia: la patria dei genitori , benché lontana, lascia tracce di sé nell’identità di tutti i figli della migrazione.

«Una cosa che caratterizza la cultura singalese è sicuramente il forte legame con la famiglia. Nell’emisfero settentrionale del mondo non si percepisce molto forte, invece in Sri Lanka e anche in Italia, specialmente nel Meridione, i rapporti con i parenti, non solo quelli prossimi, si sente tantissimo», sostiene Sumila. Elvira sa benissimo qual è il tratto della sua cultura di origine che più le appartiene: «L’estremismo, senza dubbio. Come tutti i balcanici sono molto estrema, soprattutto nelle emozioni. Per me è tutto melodrammatico: e devo dire che mi piace, mi fa mantenere un filo diretto con la mia infanzia, trascorsa in quel tipo di sentimenti che gli italiani visualizzano come un film di Kusturica. Quando si è immersi in quelle atmosfere sembra che la vita si senta di più. Ecco, più che di un comportamento si tratta di un modo di sentire le cose del mondo, prendendole sul serio ma ridendone sempre: una doppia cifra che mi piace».

Pensa alla sua infanzia anche Evelyne: «Una cosa che mi colpì quando andai in Ghana da piccola, la prima volta, fu la bellezza della felicità nelle piccole cose. Arrivando mi resi conto di essere – rispetto a quello che trovavo lì – una ragazzina viziata, con pretese assurde. Quella scoperta, quell’insegnamento – arrivato anche da mia nonna – di cogliere la bellezza e la semplicità delle piccole cose, mi ha cambiato molto».

Un’Italia più inclusiva: da dove cominciare?

Immaginando che in futuro si possa arrivare a un manifesto di una nuova cittadinanza italiana, quali sono i settori su cui bisognerebbe lavorare maggiormente?

«Penso che il settore sul quale occorrerebbe lavorare di più sia la burocrazia – la sanità, le questure – perché ha un modo estremamente rigido di considerare l’altro», afferma Elvira. «Certo, la burocrazia deve ragionare per compartimenti stagni: ma la verità è che in quegli ambienti ogni giorno si sperimenta la violenza. Penso alle donne che partoriscono in un certo modo o vengono tacciate di barbarie perché decidono di partorire in un certo modo. Penso ai luoghi della salute psichica, dove non c’è apertura alla cultura dell’altro – che magari è portatrice di tantissimi segni di cura, fisica e psichica. Sarebbe tanto chiedere ai medici, agli psicologi, di studiare un po’ di etnopsichiatria? Di capire come luoghi lontani hanno risolto certe questioni magari anche meglio di noi? I luoghi della burocrazia, tra l’altro, sono quelli dove andiamo quando siamo fragili, quindi la violenza si percepisce in maniera devastante. Io penso che si dovrebbe lavorare con gli individui: nell’ultimo anno e mezzo ho girato l’Italia per presentare il mio ultimo romanzo Consigli per essere un bravo immigrato che parla anche delle Commissioni Territoriali (quelle che giudicano le richieste d’asilo, ndr) e mi è capitato spesso che nel pubblico ci fosse qualcuno che nelle Commissioni ci lavora, che alla fine si alzava per dire “Sono venuto ad ascoltarla per capire come poter fare meno danni”. Penso che compiendo piccoli passi di informazione, di apertura, sia possibile incidere in questi apparati. Questo mi sta a cuore».

Sumila è pienamente d’accordo, e aggiunge: «Ci vorrebbe una maggiore apertura al multiculturalismo. Occorrerebbe riempire gli uffici pubblici di persone di ogni provenienza: da una parte questo darebbe una ventata di freschezza in ambiti statici, dall’altra aiuterebbe a migliorare i servizi al cittadino. Si velocizzerebbero tante cose. Io posso dire che nella scuola ci sono risorse umane meravigliose, che si impegnano con il cuore e con l’anima: ma mancano i fondi. Le potenzialità sono tante e questo mi emoziona. Lavoro nel quartiere periferico di Stadera, dove circa il 90 per cento dell’utenza scolastica è extracomunitaria e ci sono una media di quattro bambini di genitori italiani per classe. Ecco: mi piacerebbe che ci fossero più insegnanti, educatori di seconda generazione. Sarebbe un grande valore aggiunto».

Evelyne aggiunge una riflessione personale di grande interesse: «Crescendo, ciò che mi è mancato tanto è una rappresentanza nella quale rivedermi. Mi rendo conto che, se sono riuscita a creare una mia azienda, è stato solo grazie al mio carattere, non a quello che c’è “la fuori”. Perché io, “la fuori”, non sono rappresentata, non ci sono: e infatti quando vado in un ufficio capita che mi chiedano chi sia il proprietario dell’azienda. “Sono io”, rispondo. E non mi credono. Dato che è innegabile che sia l’economia a far girare tutto, sarebbe importante che nelle aziende, nel business, vi fossero persone di origini diverse, per far fare un clic nella testa della gente. Se si continua a ragionare per stereotipi non si va da nessuna parte.

E poi ci vorrebbero più opportunità per le seconde generazioni. Io non ho la cittadinanza italiana, per esempio. Vivo qui da 28 anni, ma per una serie di cavilli non ho la cittadinanza e questo mi ha messo i bastoni tra le ruote più volte. Ho due fratelli più piccoli, nati in Italia, che si sono trasferiti a Londra e mi dicono: “Come tu abbia deciso di fare impresa in Italia, lo sai solo tu”. Non posso dargli torto. Mia sorella dopo il diploma è stata qui senza lavoro due anni: a Londra ha trovato un buon impiego in due settimane. Credo che l’Italia stia perdendo non solo molti giovani italiani, ma anche talenti di origine straniera, che qui partono svantaggiati, come se avessero un difetto. Bisogna agire su questi due fronti: rappresentanza e opportunità. Che sono fondamentali per invogliare i giovani o quantomeno per non ostacolarli. Quando mi vedo negare l’accesso a un bando per via della cittadinanza che non ho, un bando al quale magari possono accedere persone con idee meno brillanti delle mie, provo rabbia. Ho un amico di origini camerunensi che è medico, ma la gente non si vuole far visitare da lui perché lo “vede” come incompetente. E la stessa cosa capita a me come imprenditrice…».

Interviene Sumila: «È una questione di mentalità. Qui non sono ancora pronti a parlare con un imprenditore di origine straniera “alla pari”. In Gran Bretagna o negli Usa è la normalità: per loro o sei bravo o non lo sei. Un italiano, invece, non è abituato a pensare che un amministratore delegato possa avere origini straniere. Mentre il Ceo di Microsoft è un indiano!». Sul prendere gli Stati Uniti come modello ha qualche dubbio Elvira: «Possiamo fare di meglio: abbiamo visto che negli Usa si può essere uccisi solo perché neri… Se vogliamo che le prossime generazioni sviluppino una maggiore dimestichezza con la diversità, non dobbiamo puntare a un “modello”, ma fare un lungo lavoro culturale. Dobbiamo studiare, avere relazioni, compiere i passi necessari verso la conoscenza dell’altro. Non possiamo saltare questi passaggi». Concorda Evelyne: «Gli Usa possono essere un esempio economico, non culturale. Ricordiamo che lì sono passati dalla schiavitù alla libertà senza transizione, senza che vi fosse lo spazio per analizzare, comprendere. Così la supremazia bianca è rimasta sottotraccia: e si vede. In Italia l’immigrazione è un processo iniziato ormai da 30, 40 anni. Il tempo di promuovere la conoscenza culturale c’è stato: il punto è che non si vogliono accettare i frutti di quell’immigrazione. In Canada ci sono leggi che impongono quote di diversity alle aziende. Io ho lavorato in banca: si organizzavano feste ed eventi in nome della diversity, ma nella realtà dei fatti io ero l’unica impiegata di origini africane e mi pagavo il master facendo la receptionist. La legge sulla cittadinanza era quasi arrivata al voto, poi non se n’è fatto niente. Avevamo lottato e manifestato per un anno, e poi niente. In questo Paese abbiamo tutto per essere avanti, ma manca sempre la volontà finale».

Il significato della cittadinanza

Giurare fedeltà alla Repubblica Italiana: semplice prassi burocratica o momento di valore simbolico?

«Prendere la cittadinanza è un rito di passaggio», afferma sicuro Sumila. «Per me è stato così: lo stanzino del Comune dove si è svolta la cerimonia era triste, con un burocrate triste, ma per me è stato bello lo stesso. Avevo 25 o 27 anni, non ricordo. Avevo presentato la domanda da 10 anni. Per me, laureato in Storia e impegnato in politica, era una tortura non votare, non partecipare alla vita pubblica del Paese. Finalmente sentivo di poter agire la società in cui ero cresciuto e dove vivevo, poter dire la mia. Quando mi hanno dato la cittadinanza ho ricevuto una copia della Costituzione e una bandiera italiana, quando l’ha presa mia madre non era più così… Comunque è un bel rito di passaggio: individuale ma anche collettivo». Aggiunge Elvira: «Sin da bambini, tutto ciò che desideriamo è essere visti. E diventare cittadini significa diventare visibili. È un gesto rivoluzionario. Non fare la legge sulla cittadinanza è da codardi».

Le differenze: enfatizzarle o ignorarle?

Riconoscere la diversità dell’altro (il colore della sua pelle, per esempio) significa sostenerlo nella sua richiesta di visibilità oppure spingerlo ai margini? Far finta di non vedere la differenza (atteggiamento che negli Usa chiamano color-blindness) impedisce o incoraggia la discriminazione? La curiosità nei confronti dell’altro può essere offensiva?

«La maggior parte dei bambini a cui insegno è straniera. E io faccio sempre domande sull’origine dei genitori: piatti tipici, città di provenienza… Mi mostro curioso. E credo sia importante far domande, esibire interesse», dice Sumila. «Racconto anche le mie esperienze, così i genitori sentono di potersi avvicinare a me, anche se magari capiscono poco l’italiano. È un modo per coinvolgerli. È capitato spesso, in classe, di parlare anche di feste religiose: quest’anno c’erano ragazzini che facevano il Ramadan. Li abbiamo tutelati, ne abbiamo parlato. Questo apre gli orizzonti di tutti, aiuta». Interviene Evelyne: «Se avessi avuto un maestro come Sumila, mi sarei risparmiata un sacco di problemi! In questo momento, in Italia, siamo nella fase “paura del diverso”, ma solo perché la diversità non è colta come un’occasione. Si dimentica che l’integrazione non è solo per chi arriva, ma per tutti: arricchisce un intero Paese. Dall’incontro con l’altro si impara, ma bisogna essere pronti ad accogliere, accettare di non sapere tutto e avere il coraggio di chiedere, con rispetto. E poi le decisioni vanno condivise, anche sul linguaggio da usare: quando è la maggioranza a decidere, le minoranze rischiano di restare sempre invisibili. Bisogna aprirsi al dialogo, anche a livello istituzionale. L’incontro tra culture avviene con lo scambio, non con l’imposizione. In questo momento i figli degli immigrati vogliono essere visti, riconosciuti nelle loro caratteristiche. Poi, in un secondo momento, la differenza non sarà più importante, ma non siamo ancora a quel punto».

Aggiunge Elvira: «Sarà bello quando davvero ogni persona potrà scegliere se dare enfasi o meno alla propria diversità, al colore della propria pelle. Per quanto riguarda il modo in cui parlare delle differenze, mi sono posta la domanda quando nel mio ultimo libro ho dovuto scrivere un dialogo immaginario tra me e un ragazzo del Gambia. Non ci riuscivo perché mi ero bloccata alla ricerca della terminologia più politically correct: e scrivere se sei privato della spontaneità è impossibile! Non riuscivo nemmeno a dare un nome a questo ragazzo. È stato il mio compagno a togliermi dai dubbi, suggerendomi di chiamarlo Ismail, l’esiliato per eccellenza. Ne ho parlato con un amico del Kenya: lui non aveva letto mai Moby Dick, per lui Ismail era solo un nome musulmano. In quel momento ho capito che se abbassiamo le pretese del politicamente corretto, correndo anche il rischio di fare qualche figuraccia, allora entriamo davvero in contatto. Io ho dei riferimenti culturali, tu ne hai altri. Entrambi siamo ignoranti in qualcosa: io non conosco la letteratura africana, per esempio. Secondo me un modo delicato di accostarsi all’altro è rispolverare una sana ignoranza, non violenta e aggressiva, ma curiosa. Serve a non fermarsi alle etichette, a rompere gli stereotipi: che è una cosa faticosissima, ma necessaria».