Premessa

Se c’è una battaglia che vale la pena combattere, oggi, è quella per la difesa della complessità. Semplificare, costringere in un sistema binario l’amplissimo numero di variabili che intervengono a disegnare la nostra realtà significa falsarla: per calcolo politico, comodità, ignoranza. Discorso che vale certamente per la migrazione, tema del nostro tempo e destinato a restarlo ancora a lungo.

Da una parte c’è chi vuole erigere muri, chiudere porti, tenere fuori dai confini lo straniero: i migranti sono considerati una minaccia per la stabilità sociale, l’identità nazionale, la tenuta del welfare e del mercato del lavoro. Dall’altra si trova chi, mosso da spirito umanitario (encomiabile, ma spesso approssimativo) costringe il migrante in un generico ruolo di vittima, profugo in fuga sempre e comunque da guerre e catastrofi naturali.

Ma forse è in mezzo a queste due visioni che si trova la realtà: che è fatta di persone, ognuna con la propria storia, la propria individualità, la propria ricerca di un posto nel mondo.

La scelta di migrare, di abbandonare la Terra Madre per cercare altrove ciò che si crede più giusto per la propria vita, ha motivazioni tanto diverse quanti sono gli individui che fanno quella scelta. La domanda da farsi, allora, per riuscire davvero a leggere (e comprendere) la complessità del nostro tempo, potrebbe essere questa: siamo pronti – e in grado – di ascoltarle, queste motivazioni, e di farlo sospendendo il giudizio?

Da questa domanda nasce la lunga conversazione che vi presentiamo qui.

Cinque persone di origini, generazioni e culture diverse, milanesi soltanto di adozione, sedute in cerchio a parlare di migrazione.

Una giornalista siciliana che scrive di tematiche legate alla migrazione e all’intercultura (Gabriella), una mediatrice culturale di origini mauriziane, docente di Culture Francofone all’Università Statale di Milano (Nalini) e tre richiedenti asilo ospiti di un centro di accoglienza milanese, sbarcati in Sicilia più o meno due anni fa: Kissima che viene dal Mali, Diallo e M’bemba che arrivano dalla Guinea.

Il desiderio unanime è quello di un confronto autentico e senza censure, che proprio per questo non potrà essere privo di incongruenze, inceppamenti, domande senza risposte. Tuttavia l’intento è chiaro: capire le ragioni degli altri, trovare una nuova prospettiva.

Sul tavolo c’è qualche tazzina di caffè vuota e tazze ancora piene di tè caldissimo, sorseggiato lentamente. Ci si guarda negli occhi con un misto di curiosità e tensione: anche se ci si conosce abbastanza bene, è chiaro che si sta per intraprendere un viaggio nuovo, nei ricordi e nelle parole. Emergeranno esperienze, desideri nascosti, vecchie ferite. Perché ognuno, prima di approdare qui, si è lasciato alle spalle un’altra terra, un altro orizzonte.
Per qualcuno il distacco è fresco, per altri è molto lontano nel tempo.

E allora forse è giusto che sia proprio chi il viaggio lo ha compiuto molti anni fa, a iniziare il racconto.

(Le foto che accompagnano questa narrazione sono di Giulia Cappellin)

Gabriella, dalla Sicilia

È un libro sottile, con la copertina disegnata a mano. Gabriella lo mostra agli altri con un po’ di emozione: è l’autobiografia che ha scritto quando frequentava la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, dove si è formata. La scelta più naturale, per lei: condividerne con gli altri un frammento. Non uno qualunque, ma quello in cui racconta del giorno in cui lasciò la Sicilia per Firenze. Era il 1986, aveva 17 anni.

«Io e papà partimmo in auto, diretti al convento di Santa Maria degli Angeli, in via della Colonna. Mi fu assegnata una stanza in condivisione con una ragazza pugliese. Per la maggior parte, in quel collegio, eravamo tutte del Sud. Portai in camera le mie valigie, salutai papà. Lui si rimise in auto con il cuore polverizzato. Aveva abbandonato la sua bambina, da sola, in una città sconosciuta. Percorse pochi chilometri, poi ebbe la tentazione di tornare indietro, invece si fermò a una cabina telefonica e compose il numero del convitto. La suora che rispose gli disse che non poteva chiamarmi al telefono perché ero in cortile a ridere e scherzare con le altre. Lui si sentì ingenuo ad aver pensato che avessi ancora bisogno di lui, che mi sentissi sola e smarrita. Ero giovane e socievole: ovvio che ce l’avrei fatta. (…)

Quando mia madre mi veniva a trovare a Firenze andavamo a mangiare da Paoli, un ristorante con le pareti affrescate che si trovava in una traversa di via dei Calzaiuoli. Io ero una ragazzetta priva di grazia che portava sempre i jeans e copriva con maglie informi un sedere di cui si vergognava, ritenendolo – a torto – troppo voluminoso. Intorno a me vedevo donne che mi sembravano piene di classe e pensavo: un giorno sarò sofisticata come loro, un giorno verrò a mangiare qui e sarò una signora.

Ero proiettata verso il futuro: non avevo motivo di guardarmi indietro. Avevo sognato di lasciare Siracusa per troppo tempo, dentro di me non poteva esserci nostalgia: non ce n’è mai stata in questi 28 anni da quando sono andata via. (…)».

Gli altri la ascoltano in assoluto silenzio. Gabriella cerca di ricordare e rendere comprensibili le ragioni che la spinsero ad andare via.

Quella sensazione disorientante di non poter scegliere il suo destino perché qualcuno era talmente concentrato sul desiderio di offrirle tutte le opportunità del mondo, da non pensare di domandarle, nemmeno una volta: “Ma tu, cosa vorresti fare da grande?”. E, poi, la presenza claustrofobica di una provincia dorata.

Legge, ancora: «Oggi capisco anche che, probabilmente, avevo bisogno di mettere tra me e la Sicilia una distanza di molti chilometri. Avevo sempre saputo che la mia vita sarebbe stata altrove. Siracusa era una città di provincia, ma a me era stata data presto la possibilità di vedere che al mondo c’era altro. Una volta, durante una cena a casa dei Lemkin, a Londra, la madre di Alix nel passarmi il gravy da versare sull’arrosto, mi aveva domandato: “In Italia i ragazzi si sposano giovani?”. Avevo dato la risposta che per me era ovvia: “No, a meno che una ragazza non resti incinta”. Si erano voltati tutti stupiti verso di me e la sorella di Alix mi aveva chiesto, sinceramente incuriosita: “E perché in quel caso si deve sposare?”. Non avevo saputo cosa dire, per me era scontato che fosse così.

Avevo iniziato a capire che le regole che io conoscevo non si applicavano necessariamente al resto dell’umanità. Ma nessuna tra le persone che frequentavo a Siracusa sembrava avere la stessa consapevolezza. E questo per me costituiva allo stesso tempo una forza e una debolezza. Conoscevo altro, sì. Ma per essere come tutti dovevo far finta di non conoscerlo (…)

Il pensiero che andando via di lì avrei trovato la mia dimensione si insinuò giorno dopo giorno nella mia anima (…) Sono scappata dalla provincia a 17 anni, ma dentro di me sto ancora scappando».

 

Foto di Giulia Cappellin

Gabriella si ferma, alza lo sguardo verso gli altri e poi, per concludere, aggiunge: «La mia vita era strana. Avevo la sensazione perenne di non sapere chi ero e ho sviluppato l’idea che andando via avrei trovato le risposte che cercavo. Non è andata proprio così: non basta partire per risolvere i propri problemi. Però è la scelta che ho compiuto».

Nalini: «Forse, però, andando via si possono far circolare nuove energie. Lo dico per esperienza. Io ho due storie di migrazione alle spalle: la prima è legata alla mia infanzia, quando a 10 anni ho lasciato le isole Mauritius per venire in l’Italia; la seconda risale al 2006, l’anno in cui ho lasciato la Sicilia per arrivare a Milano».

Nalini, dalle isole Mauritius

Un respiro lungo, un’acrobazia temporale e Nalini si mette in contatto con una storia che risale a quasi 30 anni fa.

«A 10 anni non avevo quasi nessun potere su quanto mi succedeva. I miei genitori – o forse le circostanze – hanno scelto per me. Mia madre, spinta dal fratello che viveva da anni a Palermo, si convinse a partire per l’Europa, per garantirci una vita migliore. Nel 1990 lasciò il suo lavoro in una fabbrica tessile e noi, la sua famiglia. Abbiamo vissuto senza di lei per nove mesi, mentre mio padre preparava i documenti per farci partire tutti, perché mia madre soffriva troppo la solitudine e la fatica e minacciava, le rare volte che riuscivamo a sentirla per telefono, di tornare indietro.

Mancavano poche settimane alla nostra partenza quando mio padre, sapendo che alle Mauritius avrei avuto la possibilità di frequentare un ottimo college, inaspettatamente mi chiese: “Cosa vuoi fare? Rimanere qui insieme alla nonna o raggiungere la mamma?”. Anche se ero molto affezionata a mia nonna, non ho avuto il coraggio di rimanere da sola nel mio Paese.

L’idea di vivere lontano dalla mia famiglia mi faceva soffrire molto più del pensiero di ciò che avrei perso lasciando la mia Patria.

Per cautela i miei decisero di far partire prima me e mio fratello: se per qualche motivo fossimo stati respinti durante il viaggio, mio padre sarebbe stato alle Mauritius ad accoglierci. Ma è andato tutto bene, anche se ci abbiamo messo due giorni per arrivare a Palermo».

Foto di Giulia Cappellin

Gabriella: «Due giorni?».
Nalini: «Sì, abbiamo fatto quattro scali, perché all’epoca non c’erano tanti voli diretti come oggi. È stata la nostra grande avventura, piena di imprevisti: eravamo due ragazzini di dieci e sette anni che prendevano l’aereo per la prima volta, con appesa al collo una busta con tutti i documenti. Appena partiti l’aereo ha avuto un guasto, perciò abbiamo fatto un atterraggio di emergenza a La Réunion. Quando siamo ripartiti, ovviamente erano saltate tutte le coincidenze. Abbiamo fatto scalo a Djibouti, poi cambiato un aereo a Parigi e un altro a Roma e finalmente siamo atterrati a Palermo.

Avevamo un visto turistico di tre mesi: alla scadenza abbiamo vissuto come clandestini, malgrado mia madre avesse un regolare permesso di soggiorno.

Le leggi sull’immigrazione e sul ricongiungimento familiare all’epoca erano ancora poco chiare. Mio padre ci ha raggiunti qualche mese dopo. Insomma, come dicevo, all’epoca non avevo grandi poteri decisionali e la mia scelta migratoria fu costretta».

Gabriella: «Dalle circostanze più che dalle persone, però: tuo padre ti aveva offerto la possibilità di rimanere…».

Nalini: «Sì, mio padre sì. Non credo di poter dire lo stesso di mia madre. So di certo che non si sarebbe mai separata a lungo da noi. Spesso mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi rimasta nel mio Paese, quali pieghe avrebbe preso la mia vita: ovviamente sarebbe stato tutto diverso rispetto al percorso che ho fatto qui. Ci sono una serie di interrogativi che rimangono in sospeso e ancora oggi vivo un senso di perdita di affetti, di luoghi cari, proprio perché mi sono sentita costretta a compiere quella scelta.

A me, bambina di 10 anni, non sembrava di vivere male nel mio Paese. Sinceramente. Invece è stato molto doloroso venire in Italia… ma questa è un’altra storia».

La decisione di raccontarsi per prime, Gabriella e Nalini l’hanno presa istintivamente, senza dirselo, guidate dal desiderio di mettere a loro agio i tre ragazzi il cui percorso migratorio è recentissimo e dagli esiti incerti, visto che non hanno ancora ottenuto una risposta definitiva alla loro richiesta di protezione internazionale. La mossa funziona, perché Kissima, timidamente ma con coraggio, prende la parola esordendo: «Non sono abituato a raccontare tanto. Faccio il mio massimo».

Una pausa per raccogliere i pensieri e prendere fiato, poi arriva il suo racconto.

Kissima, dal Mali

«Vivevo in un piccolo villaggio del Mali che si trova vicino alla frontiera con la Mauritania: lì la migrazione era un fenomeno che esisteva da sempre. Io appartengo alla tribù soninké, abituata a viaggiare e cambiare Paese. Da quello che mi raccontava mio padre, prima la migrazione si faceva in un determinato modo: in una famiglia di tre figli, ad esempio, il maggiore al compimento dei 30 anni doveva sposarsi. La famiglia gli dava, se possibile, due mucche e lui doveva andare a cercare un posto dove stare. Negli ultimi tempi, invece, le persone hanno cominciato a migrare sempre di più e lontano, in Francia o in altri Paesi, perché il governo maliano non si occupa molto della popolazione e dello sviluppo sociale.

Io, fin dall’infanzia, non ho mai pensato a migrare. Quello che avevo in testa era di studiare e diventare qualcuno nel mio Paese.

È quello che mi ha sempre ripetuto mio padre: “Devi diventare qualcuno e arrivare dove non sono potuto arrivare io”. Nel mio piccolo villaggio c’erano diversi partiti politici, formati anche da persone che non avevano studiato. Inizialmente mio padre sosteneva, insieme ai suoi due fratelli, un partito, ma nel 2010 decise di passare con quello concorrente. A causa della sua scelta ci sono stati tanti problemi tra lui e i suoi fratelli».

Gabriella: «Ma perché tuo padre ha lasciato il partito?»

Kissima: «Perché c’erano delle cose che non gli piacevano. Mio padre era… lui traduceva le parole. Faceva il traduttore perché conosceva diverse lingue: il soninké, il pular, il bambara, il francese. Quando lui ha lasciato il partito, i fratelli lo hanno accusato di averli traditi. E si sono infuriati ancora di più quando il partito che mio padre sosteneva ha vinto le elezioni locali. Ormai discutevano praticamente sempre e alla fine hanno deciso di separarsi. Ognuno stava per conto suo, ma sempre nella stessa grande casa.

Durante la settimana io la mattina andavo a scuola e la sera aiutavo mia madre nei campi. Il sabato e la domenica invece la aiutavo sin dal mattino. In Africa ognuno ha la sua porzione di campo da coltivare».

Gabriella: «I campi erano della vostra famiglia e ognuno ne coltivava una parte?»

Kissima: «No, erano del comune che li aveva dati in concessione, ma i miei zii non erano contenti della divisione. Per loro mio padre era un traditore e non meritava di avere delle parti di terreno. Vivendo nella stessa casa subivamo ogni giorno la loro rabbia e il loro rancore.

Nel 2014 mi sono trasferito in un altro villaggio per continuare gli studi. Mia madre non era contenta, ma mio padre voleva che io studiassi. Ogni fine settimana comunque ritornavo».

Gabriella: «Dove abitavi nel villaggio dove studiavi?»

Kissima: «Mio padre aveva affittato una casa lì per me. Vivevo con altre persone, le stesse con cui andavo a scuola. Spesso sentivo dire che la gente partiva per il Marocco o che moriva in mare e io mi dicevo sempre che non sarei mai salito su una nave».

Foto di Giulia Cappellin

Gabriella: «All’epoca però non avevi motivi per pensare di partire…».

Kissima: «No, non ne avevo. Poi una sera di novembre mi hanno chiamato per dirmi che mio padre era morto. Non ho neanche chiesto come fosse successo: sono andato subito alla stazione e lì ho trovato un taxi che andava al mio villaggio. Quando sono arrivato avevano già riportato il corpo a casa. Ho chiesto cosa fosse successo e i miei zii mi hanno detto che era caduto. Io però sapevo che non era vero, perché sul collo di mio padre c’erano tracce di una corda.

Nel villaggio quando qualcuno muore bisogna seppellirlo rapidamente. I fratelli di mio padre hanno testimoniato dell’accaduto per chiudere le indagini, poi hanno fatto il funerale. Sono rimasto per una settimana con mia madre, perché non si sentisse sola. Quando mi preparavo a riprendere i miei studi, lei mi ha consigliato di partire e non tornare più.

I miei zii, invece, mi hanno comunicato che dovevo abbandonare gli studi e rimanere lì con loro. L’ho raccontato a mia madre e lei ha ribadito che dovevo andarmene subito, perché correvo lo stesso pericolo di mio padre.

Io non volevo crederci e così ho rispettato la volontà dei miei zii. Mia madre non era d’accordo. Non l’ho ascoltata.

Un giorno, però, i miei zii hanno deciso di cacciare di casa mia madre. Ho detto subito che me ne sarei andato via con lei, ma loro non me lo hanno permesso e, data la mia insistenza, hanno aggiunto che se non li avessi ascoltati avrei raggiunto mio padre nella tomba.

In quel momento ho capito che mia madre aveva ragione. Ma era troppo tardi. Mia madre ha lasciato la casa ma non sapeva dove andare, perché non aveva nessuno. Per fortuna c’era una vedova che l’ha accolta. I miei zii mi hanno imposto di non vederla più, con la minaccia di ritorsioni fisiche…

Al villaggio spesso mancava l’acqua ed era necessario andare a prenderla al pozzo. Un giorno, mentre mi recavo lì per conto delle mie zie, ho incrociato mia madre che faceva lo stesso tragitto. L’ho vista in difficoltà e così l’ho aiutata a trasportare l’acqua, ma il ragazzo che era con me è ritornato a casa e l’ha raccontato ai miei zii. Si sono arrabbiati moltissimo e poi hanno deciso di fare quello che hanno fatto…».

Il respiro di Kissima si interrompe, le parole si fermano, gli occhi e la testa si abbassano. Il silenzio che segue parla di dolore. «Fermati qui, Kissima. Non c’è motivo che tu stia male», lo confortano gli altri. Lui ci pensa un attimo, poi decide di ricominciare, omettendo però la parte più dolorosa della storia.

«Insomma sono arrivato al punto che mi hanno costretto a partire. Con la migrazione ho visto così tante cose che ignoravo, culture diverse… E anche se sono molto timido, ho potuto conoscere persone nuove. Qui in Italia ho imparato a parlare di più con la gente».

Gabriella: «Avevi degli amici in Africa?»

Kissima: «Sì. Ancora oggi alcuni di loro mi chiamano. Ho un caro amico che studia in città e poi, di tanto in tanto, quando va nel mio villaggio, mi fa parlare al telefono con mia madre».

M’bemba: «Lei sapeva del tuo viaggio verso l’Italia?»

Kissima: «Non le ho neanche detto arrivederci. Non sapeva nulla. Non era al corrente del fatto che fossi prigioniero dei miei zii. Un giorno sono riuscito a slegarmi e sono fuggito via senza poterla salutare. Per nove mesi non l’ho sentita, né ho avuto sue notizie».

M’bemba: «Io vorrei sapere che cosa vi siete detti nel momento in cui vi siete risentiti per la prima volta dopo tanto tempo».

Kissima: «In realtà non ci siamo detti nulla. Lei piangeva talmente tanto che il mio cuore non ha retto e ho riagganciato».

Nalini: «Una sola domanda prima di lasciarti in pace: qual era il tuo desiderio prima di partire?»

Kissima: «Nessuno. Avevo la testa confusa. Non avevo un pensiero chiaro. Non sapevo cosa pensare, perché lasciando il Mali avevo in testa di ritornare. Non avrei mai pensato di dover lasciare da sola mia madre. Però sono rimasto sorpreso venendo in Italia. Gli aiuti che ho ricevuto mi hanno cambiato. Oggi ho dei nuovi desideri. Vorrei un lavoro. Vorrei rendere mia madre fiera di me e poi vorrei pensare alla mia vita…».

Nalini: «A cosa non potresti rinunciare dopo aver fatto queste nuove esperienze in Italia?».

Kissima: «Qui, dopo aver studiato l’italiano, ho capito che mi piacerebbe studiare tante altre lingue».

Nalini:«Seguiresti così le orme di tuo padre…».

Gabriella: «E poi Kissima è bravissimo in italiano!».

Si fa una pausa. Ci si prende un po’ in giro, si ride: è un modo per stemperare la tensione emotiva. Kissima si è speso tantissimo per raccontare questa parte della sua storia e gli altri gliene sono molto grati. Quando si sente pronto, è Diallo a prendere la parola.

Diallo, dalla Guinea

«Io vivevo nella città di Conakry, in una casa molto grande, quella dei miei genitori, con mia moglie e mia figlia. Stavo bene e lavoravo in uno dei tre forni di mio padre, dove avevo imparato a fare il pane. Nel 2015, mentre stavo uscendo di casa, mi sono scontrato davanti al portone con quattro persone che cercavano mio padre. Mi hanno chiesto: “Dove si trova il proprietario di questa casa?”. Ho detto che non lo sapevo, ma avevo tanta paura perché erano mascherati. Uno di loro mi ha trattenuto davanti al portone mentre gli altri sono entrati in casa, dove hanno iniziato a discutere prima con mia madre, poi con mio padre. Lui, oltre ai forni, aveva anche alcune attività commerciali nel campo dell’abbigliamento e dei terreni. Hanno iniziato a discutere con lui di soldi e di lotti di terra. Poi ci sono stati dei colpi di pistola e quelle persone sono fuggite.

Mi sono precipitato in casa: il corpo di mio padre era a terra sanguinante, mia madre e i miei tre fratelli minori piangevano. Eravamo tutti nel panico. Anch’io mi sono messo a piangere. Nessuno sapeva più cosa fare».

Gabriella: «Non c’era nessun altro in casa? Qualche zio?».

Diallo: «No, c’erano solo le due persone che lavoravano nel forno con mio padre, ma nessuno di noi ha avuto la prontezza di chiamare i soccorsi o un’ambulanza.

Sono stati i vicini che, sentendo i colpi di pistola, sono venuti e ci hanno aiutato a trasportare mio padre in ospedale, ma non ci siamo mai arrivati… ha reso l’anima per strada.

Siamo ritornati a casa e abbiamo chiamato la polizia, ma non è servito a nulla. Siamo rimasti più di quattro mesi senza alcun risultato. Dopo la sua morte, ho preso io il suo posto nella gestione delle attività. Un giorno, avevo appena chiuso il negozio quando sono stato aggredito da tre persone. Questa volta non erano mascherati, ma non li conoscevo. Continuavano a chiedermi se ero al corrente delle ragioni della morte di mio padre. Io ero scioccato e non volevo ascoltarli: sono corso via e ho cercato di non pensarci più.

Due mesi dopo, nell’ultimo giorno dell’anno, quando a Conakry ci sono molti eventi culturali, sagre e fiere dell’artigianato, sono stato nuovamente fermato da un gruppo di persone. Ho riconosciuto, tra di loro, uno dei miei precedenti aggressori. Hanno iniziato a farmi le stesse domande su mio padre e mi hanno chiesto dei soldi. Ho tentato di divincolarmi, ma uno di loro mi ha schiaffeggiato e un altro ha estratto un’arma bianca.

Sono scappato con tutte le mie forze, ma loro mi hanno inseguito, mi hanno raggiunto e ferito quattro volte con il coltello. Sono riuscito comunque a fuggire e ho incontrato due amici che mi hanno portato in una clinica. Lì sono stato curato, e poi, una volta a casa, dietro insistenza di mia madre, ho sporto denuncia. La polizia, però, non è riuscita a scoprire niente né sulla morte di mio padre, né sulla mia aggressione. Fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione l’idea di lasciare il Paese, ma dopo ho pensato che se fossi rimasto avrei rischiato di essere ammazzato o rapito».

Gabriella: «Da quando tu sei partito, tua madre non ha avuto problemi? Qualcuno l’ha minacciata?»

Diallo: «Soltanto uno dei miei fratelli è stato minacciato e picchiato, due anni dopo».

Gabriella: «Ma se erano i soldi che volevano, potevano chiederli anche a tua madre, no?»

Diallo: «È quello su cui ci siamo interrogati io e mio fratello, ma senza avere risposta. Può darsi che si sia trattato di una questione di vendetta. È tutto molto confuso. Forse erano delle persone in affari con mio padre. Lui aveva diversi giri, anche con i militari. So che comunque tutti i problemi vengono da lì, perché i miei aggressori hanno sempre fatto riferimento alle cause della morte di mio padre.

Così ho deciso di andarmene in un posto dove potevo sentirmi sicuro e dove ci fosse giustizia. Non ho detto né a mia madre né a mia moglie che stavo partendo.

Le ho avvertite quando già ero in Mali. Se lo avessi fatto quando ancora in Guinea, mia madre mi avrebbe chiesto di tornare. Ora è lei che gestisce da sola gli affari di mio padre. Lei si prende cura di tutti, anche delle mie figlie (di cui una è nata mentre io ero in viaggio…) perché io ho divorziato da mia moglie.

In più ha anche la preoccupazione di mio fratello, quello che è stato aggredito, perché alla fine è fuggito anche lui e non abbiamo più sue notizie. Mia madre pensa che sia morto. Prima della scomparsa di mio padre non avevo nessuna intenzione di spostarmi. Stavo bene. Dopo, invece, è diventato una necessità. Dovevo mettermi in salvo. Avevo sentito parlare di Milano sin da piccolo: il calcio, le grandi squadre dell’Italia… Sono molto contento di stare qui. Ora voglio aiutare la mia famiglia, anche se mia madre mi dice di tenere i soldi per me».

Gabriella: «Anche perché lei non ha molto bisogno, no?»

Diallo: «No. Abbiamo diverse attività ereditate da mio padre e questo le basta e avanza».

Nalini: «Oltre alla sicurezza, ci sono altre cose che vorresti ottenere, qui in Italia?».

Diallo: «All’inizio non volevo niente, perché non ero venuto a cercare un lavoro, ma solo sicurezza. Ma con il tempo ho cambiato la mia prospettiva. Avere degli amici bianchi con cui condividere le mie cose… non ci avrei mai pensato! Adesso ho avuto il coraggio di fare un corso di formazione professionale per integrarmi nella comunità italiana. E ho fatto diverse esperienze di vita che mi hanno aiutato a uscire dalla mia paura».

Nalini: «Ma davvero quando pensavi all’Italia, avevi in mente soprattutto il calcio?».

Diallo: «Sì, sì…».

M’bemba: «Ma in Guinea non sapevamo che calcio volesse dire football, per noi calcio significava jouer mal come Gattuso, Cannavaro…».

Gabriella: «Come giocare male? Quelli sono giocatori bravi!».

M’bemba scoppia a ridere: «Ma nooo, jouer mal non significa non essere bravo!! Vuol dire giocare con irruenza, aggressività…».

Non possiamo fare a meno di ridere tutti.
Ed è il turno dell’istrionico M’bemba.

M'bemba, dalla Guinea

 «Io sono nato a Kindia, ma già all’età di sei-sette anni ho vissuto la mia prima esperienza di migrazione, quando hanno trasferito mio padre, direttore di alcune scuole professionali, a Labé. All’inizio, ci siamo spostati solo io e lui, ma abbiamo incontrato varie difficoltà, perché i vicini pensavano fossi un figlio nato fuori dal matrimonio e parlavano male di noi.

I bambini non volevano giocare con me. Io ero dimagrito tantissimo, perché mi mancava mia madre. Per risolvere la situazione, mio padre decise di portare anche il resto della famiglia a Labé. Così ci siamo riuniti con gli altri otto membri della famiglia: le mie sette sorelle e mia madre. Io ero l’unico maschio. Il giorno che sono arrivate tutto il vicinato ci ha guardato con stupore. Nessuno sapeva che mio padre fosse sposato, così come nessuno sapeva che io avessi una mamma peul».

Gabriella: «Era un problema che tua madre fosse peul?».

M’bemba: «No, non era un problema, ma nessuno se lo aspettava. Da quel momento le cose sono cambiate, siamo stati accettati e rispettati. Dopo il diploma sono andato a studiare all’Università di Conakry e per i primi due anni è andato tutto bene».

Nalini: «Cosa studiavi?».

M’bemba: «Sociologia. Vivevo bene a Conakry: avevo una moto, una casa, dei soldi che mio padre mi inviava per vivere… Poi la mia ragazza è rimasta incinta, e questo ha fatto precipitare le cose. Da quel momento, tutti i privilegi che la famiglia mi aveva accordato sono spariti. Ho avuto diversi problemi con mio padre».

Gabriella: «Non potevi semplicemente sposarla?»

M’bemba: «No. Innanzitutto perché era molto più grande di me… E poi da noi se metti incinta una donna non la puoi sposare, proprio perché l’hai messa incinta. Nella nostra comunità è così».

Nalini: «Tu hai poi hai riconosciuto tuo figlio?».

M’bemba: «Sì, certo! È una bambina e porta il mio nome».

Nalini: «Però non potevi sposare sua madre…»

M’bemba: «No. Anche perché è più grande di me di cinque anni!».

Nalini: «Di cinque anni… ed è troppo?»

M’bemba: «Certo!».

Gabriella e Nalini ridono. Poi condividono con gli altri una riflessione sul fatto che no, non sempre esistono “regole” universali. Se Gabriella, da ragazzina, si ritrovò a introdurre una famiglia inglese al concetto di “matrimonio riparatore”, adesso un giovane africano spiega a lei che sposare una donna dopo averla messa incinta non solo non è previsto, ma non è socialmente accettabile.

Nalini ha altre curiosità sulla storia di M’bemba: «E l’idea di partire quando è arrivata?».

M’bemba: «Quando ho iniziato ad avere tutti questi problemi… All’improvviso la mia vita è stata sconvolta, non avevo più niente…».

Nalini: «Hai pensato subito all’Europa?».

M’bemba: «Sì. Ho venduto le cose che possedevo, ho preso i soldi e sono partito. Non ho detto nulla a mio padre e mia madre, solo a mia sorella minore».

Gabriella: «Non pensi che tua madre ti avrebbe potuto aiutare?».

M’bemba: «Economicamente sì, ma per il resto… non era il caso. Se lo avesse fatto, la gente avrebbe detto che mi viziava e questo avrebbe potuto avere delle ripercussioni su di lei e sulle mie sorelle.

Ho deciso di andarmene per non nuocere a nessuno. Ho regalato la moto al fratello della mia ex-ragazza, così lui poteva lavorare come moto-tassista e dare i soldi per crescere la mia bambina. Ho chiamato mia sorella per metterla al corrente nel caso mi fosse successo qualcosa».

Foto di Giulia Cappellin

Nalini: «E tua figlia?»

M’bemba: «Attualmente vive con la madre della mia ex ragazza, perché lei si è sposata nel frattempo, ma il marito non sa che ha una figlia. Se lo avesse saputo non l’avrebbe sposata. Non ci sono troppi contatti tra di noi. Nel frattempo, però, mi sono riconciliato con mio padre».

Nalini: «E lui non vorrebbe che tu ritornassi a casa?».

M’bemba: «Sì, certo. Tra l’altro ultimamente gli ho chiesto un prestito per comprare un terreno. Ho un progetto: voglio costruire un allevamento di polli in Guinea».

Gabriella: «C’è una cosa che non capisco: a Conakry avevi un appartamento, una moto, dei soldi…».

M’bemba: «Avevo tutto».

Gabriella: «E oggi vivi in un centro di accoglienza. Ne valeva la pena?».

M’bemba: «Sì, certo. Sai, quando decidi di cambiare vita l’inizio deve essere faticoso, doloroso».

Nalini: «Questa è filosofia!».

M’bemba: «Ecco… questo l’ho imparato al centro».

Gabriella: «Dunque la tua idea è che vale la pena di soffrire un po’ per fare meglio dopo… Ma se vuoi costruire questo allevamento perché non lo fai subito?».

M’bemba: «Non posso rientrare adesso. I soldi che guadagnerei in Guinea sarebbero troppo pochi rispetto a quelli che posso guadagnare qui. Lì ci vorrebbero dieci anni per mettere in piedi la mia attività, qui forse me ne basteranno due».

Il diritto all'accoglienza

Cinque storie di migrazione sono ora sul tappeto. A renderle diverse non sono solo le motivazioni e le modalità di viaggio, ma anche le regole del diritto internazionale.

Gabriella è nata in Italia e si è mossa all’interno del territorio nazionale: non ha dovuto giustificare il proprio desiderio di cercare altrove ciò che credeva di non poter trovare nella Terra Madre. Il punto, però, è che quel desiderio è universale. E può capitare che, per realizzarlo, si sia anche disposti a infrangerlo, il diritto internazionale. Dichiarò Souleymane Jules Diop quando era Ministro dei Senegalesi all’estero: «Qui la gente non parte perché non ha niente: se ne va perché vuole meglio e di più».

Gabriella guarda Kissima, Diallo e M’bemba e pone loro la domanda : «Secondo voi è vero? Ed è giusto?».

Kissima: «È vero, ma secondo me chi vuole meglio e di più deve cercare di ottenere un visto di lavoro».

Controbatte Gabriella: «Ma avere un visto non è facile!».

Kissima: «Certo, ma in Africa si può ingaggiare un coxeur e avere un visto pagando».

Gabriella: «Chi è un coxeur?»

M’bemba: «Qualcuno che ti fa venire legalmente, per 7000 mila euro per esempio, spesso con documenti falsi».

Gabriella: «Le persone che avete incontrato durante il vostro viaggio, che motivazioni avevano per partire?».

M’bemba: «Dipende, ognuno ha i suoi problemi. Molti partono per cercare una vita migliore, perché se vivi in un determinato Paese sai benissimo che non uscirai mai dalla tua condizione. Ti siedi, ti guardi intorno, osservi te stesso e sai che non farai nessun progresso economico-sociale».

Gabriella: «Posso lanciare una provocazione? Forse vi ricorderete di quando, mesi fa, Diallo mi aveva raccontato di essersi comprato delle scarpe da ginnastica da 250 euro e io mi ero arrabbiata. Gli avevo detto: ma perché con le mie tasse devo contribuire a mantenere uno che può permettersi delle scarpe costose? Voi avevate risposto che se una persona, anche un richiedente asilo, lavora e risparmia per comprarsi qualcosa che desidera, ne ha il diritto. Nella mia reazione “di pancia” avevo intravisto quella di tanti altri italiani che si spingono fino a dire: ma se un africano hai dei problemi a casa sua, che colpa ne abbiano noi?».

Diallo, chiamato in causa, interviene: «Io penso che bisogna valutare la storia delle persone, perché tutto inizia lì. Io non credo che tutti abbiano diritto a stare qui: se non hai un problema reale, non dovresti partire. Ma se invece hai subìto delle minacce o vuoi studiare, allora sì».

Gabriella: «Diallo, ti ricordi di quella volta in cui mi hai detto che secondo te Salvini non ha tutti i torti?».

Diallo: «Sì, perché da una parte lui vuole difendere gli interessi dell’Italia ed è giusto. Questo Paese è la porta d’ingresso dell’Europa e l’Unione Europea deve aiutarlo economicamente per sostenere l’immigrazione. D’altra parte penso però che non sia necessario parlare sempre e solo di migrazione come fa lui…».

Nalini: «Mi colpisce che voi diciate che chi parte in cerca di una vita migliore dovrebbe farlo legalmente. Voi siete partiti per lo stesso motivo e lo avete fatto illegalmente».

Kissima: «Sì, è vero, ma secondo me chi vuole qualcosa di meglio oppure vuole vedere l’Europa, deve cercare una via legale: perché se arrivi da clandestino non sai bene cosa ti può capitare, ti possono prendere una mattina e rimandarti indietro, quindi per evitare che ciò accada, devi muoverti in un altro modo».

Nalini: «C’è però una forte contraddizione tra questa idea e il fatto che i Paesi europei non concedono visti. Comunque ho un’altra domanda: le persone che intraprendono il viaggio sanno a cosa vanno incontro? Io credo che ci sia una grande inconsapevolezza. Forse neanche voi lo sapevate davvero…».

Kissima: «Nessuno può sapere cosa lo aspetta davvero. Certo, puoi parlare con qualcuno che ha fatto il viaggio, informarti: allora capisci che, se puoi permetterti di aspettare i tempi per ottenere un visto, è meglio».

Foto di Giulia Cappellin

Mentre Kissima parlava, M’bemba scriveva pensieroso su un foglio. Così adesso chiede di poter specificare alcune cose: «La prima riguarda il discorso su chi ha diritto di entrare in Europa… Io credo che i documenti dovrebbero riceverli coloro che vengono qui con dei progetti: di studio o di commercio. Insomma, chi ha un obiettivo ben definito e intende rispettare la legge.

Non lo meritano quelli che arrivano qui, si siedono, incrociano le braccia, non si danno da fare e pretendono di essere sostenuti. E ce ne sono tanti!

E per quanto riguarda le vie legali… io conosco molte persone che sono entrate legalmente e sono poi state “obbligate” a convertirsi in illegali. Vi spiego. Mettiamo che tu, nel tuo Paese, riesca a ottenere un visto dall’ambasciata d’Italia. Arrivi qui e nessuno si occupa di te, non sai dove andare a dormire, non hai soldi. Prima di partire eri convinto che, non appena avessi messo piede in Europa avresti subito trovato un lavoro, ricevuto molti privilegi… Tutti avevamo questo in testa, prima di partire!

Una volta arrivato, però, ti rendi conto che la realtà è ben diversa. E a quel punto sei obbligato a passare all’illegalità, a metterti dalla parte di quelli come noi, che sono arrivati senza documenti. Così strappi il tuo passaporto».

Gabriella: «Ma se una persona ha ricevuto un visto e poi non è in grado di far fronte alla situazione, non può essere un problema dell’Italia!»

M’bemba: «D’accordo. Però per sopravvivere devi provarle tutte. E la cosa più frequente è fare domanda d’asilo. Fai domanda e aspetti. Incontri la commissione e aspetti. Ti danno un risultato positivo? Bene. Te lo danno negativo? Fai ricorso e aspetti. Nel frattempo hai dove dormire e fai una formazione professionale».

Gabriella: «Allora bisogna che in Africa cambi la narrazione sull’Europa, che qualcuno spieghi ai giovani come vanno davvero le cose. Bisogna fare delle campagne informative per disincentivare le partenze…»

M’bemba: «Ma le campagne di informazioni non sono sufficienti, soprattutto perché chi viene a farle non sono persone come me. Hanno un tenore di vita più alto. Arrivano e mi dicono: “M’bemba, resta lì dove sei e aspetta: un giorno le cose andranno bene anche per te, qui”. E intanto io lo guardo e penso: “Eh, no, io voglio stare esattamente come stai tu”».

Nalini: «A questo proposito vi voglio raccontare una cosa. Quando ero piccola, chi partiva dalle Mauritius per andare in Europa era considerato una specie di supereroe: andava in Europaaaa. Quando tornava in vacanza lo guardavamo tutti come una persona speciale, privilegiata. Non sapevamo niente di che vita facesse in Europa, e lui si guardava bene dal raccontarlo. Nessuno dice mai la verità, per non smentire il sogno comune e soprattutto per non rovinare la propria immagine, la propria dignità.

Ma oggi le cose sono cambiate: grazie alla tecnologia e alla Rete tutti possono vedere come vivono davvero i migranti, che difficoltà devono affrontare, che tipo di lavoro fanno…

E ovviamente questa consapevolezza non incentiva a partire. Molti preferiscono restare a casa, magari facendo un lavoro umile, ma circondati dai loro affetti.

Vi chiedo, quindi: oggi l’immagine che l’Africa ha dell’Europa è ancora quella che avevo io da piccola? Il migrante è un supereroe che va alla conquista del mondo? Le persone che muoiono in mare, i problemi della Libia… non vi arrivano queste notizie? Voi avete tutti i cellulari potete collegarvi a internet! Questo mi sfugge…»

Kissima: «Intanto in Africa non c’è la connessione dappertutto. I villaggi sono spesso al buio, non si sa niente di Internet. A volte arrivano delle notizie via radio, si sente di qualcuno che ha provato ad attraversare il mare ed è morto. Nelle grandi città, invece, si hanno notizie su cosa succede in Libia con la schiavitù e tutto il resto. Ma nonostante tutto, le persone si domandano: “Se davvero ci sono tutti questi problemi, perché la gente parte ancora? Se si sta così male, come mai le persone che sono andate via non tornano?”. E quindi continuano a crederci».

Nalini trae le conclusioni per tutti: «Vuol dire che l’immagine di un’Europa gloriosa che può fare e dare tutto, sopravvive ancora».

Il viaggio

Gabriella: «Credo di avertelo già domandato, Diallo: dato che avevi problemi di sicurezza nel tuo Paese, non potevi andare da qualche altra parte in Africa? Il continente è grande…».

Diallo: «Tu sai che in Africa non c’è grande sicurezza da nessuna parte. Quando sono scappato dalla Guinea con l’idea di andare in Algeria, sono passato per il Mali, dove ho visto situazioni molto pericolose: finché non le vedi con i tuoi occhi non ci puoi credere.

Sono passato da Kidal senza essere picchiato, come invece ho visto succedere a molti altri. Quando sono arrivato a Timiaouine, in Algeria, ho saputo che, per pochissimi giorni, ero scampato a un attentato fatto nella città maliana di Sévaré, dov’ero rimasto una settimana perché lì c’è un grande garage dove arrivano tutti i bus che partono da Bamako.

Anche in Algeria le cose non sono andate bene: gli algerini se la prendono per qualsiasi cosa, basta che guardi una donna due volte e subito ti arrivano addosso dei sassi. Mi sono detto: oh oh… qui è più pericoloso del Mali!».

Diallo è una persona solitamente timida, che non prende facilmente la parola. Ma ora ha acquistato fiducia e si diverte ad accompagnare la narrazione con una mimica facciale e un’ironia che riescono piano piano a trasformare il racconto da tragico in tragicomico.

 «Ho pensato quindi di spostarmi in Libia. Avevo sentito diversi racconti sulla situazione libica, ma dovevo andare avanti. Perché in Algeria da una parte avevo bisogno di lavorare, dall’altra non potevo andare in giro con gli occhi chiusi per non guardare le donne. Era difficile per me perché era la prima volta che vedevo…»

Nalini: «Delle donne?!?»

Gabriella: «Ma no, Nalini! Diallo era sposato e aveva già una figlia!».

Lui ride della presa in giro, poi risponde: «No, intendevo che era la prima volta che vedevo la pelle bianca. Per me era un miracolo! E non potevo fare a meno di guardare profondément. Solo guardare, eh. Però ho rischiato di finire nei guai. Quindi ho accettato di passare dalla Libia, un paese in guerra e senza legge. Era pericoloso, ma il mio cuore mi ha spinto a partire, anche se l’idea di affrontare il mare mi terrorizzava. Mi sono detto: chissà, forse Dio mi salverà! Quindi ho preso il bus e sono andato alla frontiera tra l’Algeria e la Libia. Sono rimasto due settimane a Debdeb prima di arrivare a Al-Zintan. Ma anche lì… ».

Diallo fa un’altra faccia buffa, come a dire che non gliene andava bene una e scoppia a ridere. E gli altri con lui.

«Si sentivano continuamente degli spari. Era un problema anche dormire. Dovevi stare molto attento e guardarti intorno… Gli chauffeur che trasportano i migranti sono dei mafiosi. Ti caricano sul fondo di un pick-up e ti mettono i bagagli sopra. Ho pensato: forse la morte mi aspetta a breve…

Lo chauffer al quale mi ero rivolto ha portato me e altre persone dietro le montagne, ci ha derubato e ci ha mollato lì, ma siamo stati fortunati: non ci ha venduto agli Asma Boys, cosa che capita spesso in Libia. Dalle montagne siamo riusciti ad arrivare a Sabratha, ma il primo foyer dove abbiamo trovato rifugio era molto pericoloso: non ci facevano uscire mai, nemmeno per cercare lavoro.

Io viaggiavo con un altro guineano e un camerunese. Siamo rimasti là poco più di un mese, ma la situazione era diventata insostenibile, così abbiamo deciso di fuggire.

Però quando cerchi di fuggire il tuo moudir – è così che si chiama il capo – ti viene a cercare in tutti gli altri foyer e se ti trova… be’ se non sei morto, lo sei quasi! Perché o ti picchia o ti spara.

Noi siamo scappati verso sera. Il moudir ci ha visto e ha preso l’auto per inseguirci. Ci siamo nascosti dietro una collina: in Libia tutto è deserto, c’è un albero qui, poi dopo 50 metri forse un altro… lui ha fatto rafal (cioè ha sparato con un mitragliatore), poi è sceso dall’auto ed è venuto verso di noi a piedi. Eravamo distesi per terra. Lo abbiamo sentito vicinissimo. Ma era notte, il vento creava dei mulinelli di sabbia e così non ci ha visto.

Pensavamo di avercela fatta, ma il ragazzo camerunese era stato colpito ed era morto. Lo abbiamo dovuto lasciare là. Siamo andati a cercare un altro foyer, dove siamo rimasti due settimane. Poi ho avuto l’occasione di essere poussé. Per tre volte».

Gabriella: «Che vuol dire poussé

I tre ragazzi africani ridono di questa domanda: sono espressioni che loro conoscono bene. E rispondono, quasi in coro: «Significa prendere il mare».

Gabriella: «Quindi tu hai preso il mare tre volte?».

Diallo: «Sì, e solo la terza ce l’ho fatta. La prima volta il capitano non era buono (qui non riescono a non ridere, tutti) e io mi sono fatto prendere dalla disperazione. Non sapeva portare la barca! Siamo arrivati quasi in Tunisia: te ne accorgi perché l’acqua cambia». I tre ragazzi annuiscono, perché anche questa è un’informazione nota a tutti coloro che fanno il Viaggio.

Continua Diallo: «Sì, senti il motore che fa un rumore diverso, è come se l’acqua fosse più alta, come se si salisse su una montagna. Ed è lì che ho sentito i nigeriani gridare: Godò, Godò».

Gabriella e Nalini, in contemporanea, interrogano Diallo con lo sguardo.

«God, cioè Dieu!», risponde lui. E prosegue: «Abbiamo soprannominato uno di noi “Capitano Go-Back”. Quando siamo tornati indietro, il vero capitano è sparito e non lo abbiamo mai più visto: difficile che tu sopravviva, se riporti indietro il carico di passeggeri. Così come non puoi sottrarti al viaggio, una volta che sei sul territorio libico. Non te lo consentono.

Se arrivi al mare e ti selezionano per partire, non puoi cambiare idea, altrimenti ti sparano. La scelta è tra morire, andare in prigione o partire. E allora sali sulla barca.

Quella volta, tornati a riva, io sono stato catturato dagli Asma Boys e tenuto prigioniero per tre giorni, finché non sono riuscito a farmi mandare dei soldi. Dopo mi sono ritrovato nello stesso foyer dal quale ero scappato la prima volta. Sono stato poussé di nuovo, ma anche qui… oh, ancora problemi!».

Ormai sembra che Diallo sappia come dosare suspence e umorismo per tenere viva l’ attenzione degli altri su ogni puntata di questa sua Odissea. La sua ironia sorprende tutti.

Foto di Giulia Cappellin

«Anche questo capitano non era capace e quando lo abbiamo capito, in alto mare, abbiamo chiesto di tornare. Una volta a riva abbiamo trovato qualcuno che pareva sapesse manovrare una barca. Undici persone sono ripartite subito. Io ce l’ho fatta dopo qualche giorno. Quando sono arrivato in Sicilia, mi è sembrato davvero di aver raggiunto il Paradiso!».

Kissima interviene: «Io non ho pagato per venire in Italia. In Mali avevo conosciuto un uomo che mi aveva proposto di andare con lui prima in Niger e poi in Libia. Arrivati a Sabha, siamo finiti in prigione e non l’ho più visto, però ho conosciuto un ragazzo della Guinea che si è fatto mandare da suo fratello i soldi per liberare entrambi e siamo partiti per Tripoli.

Lì suo fratello mi ha affidato a un arabo. Ho lavorato per lui per un anno. Non mi ha mai pagato, ma non conoscevo nessuno, non avevo idea di dove andare e quindi sono rimasto. Un giorno ci hanno attaccato nel giardino di casa, hanno sparato e ferito il fratello dell’arabo.

Dopo averlo portato in ospedale, lui mi ha detto che non potevo più rimanere lì, che dovevo attraversare il mare perché per gente come me la Libia non era un buon posto.

Ho fatto resistenza, ma lui mi ha detto che non avevo scelta. Non avevo mai visto il mare prima. Ho pensato: “Ma com’è che sono arrivato fino a qui? Non posso tornare indietro?”. Ma non avevo idea di come fare e non avevo soldi. La decisione di attraversare non l’ho presa io, ma l’arabo, che mi ha portato sulla costa: lì ho visto delle scene terribili, non si possono nemmeno immaginare, con donne e bambini tutti ammassati, disperati. Sarei voluto andare via, ma una volta che entri alla Maison Blanche non puoi più uscire».

Davanti agli sguardi interrogativi di Gabriella, Diallo interviene: «Sì, la Maison Blanche è un grande foyer, lo conoscono tutti».

Continua Kissima: «Quando ho visto il mare per la prima volta ho pensato subito una sola cosa: resterò lì dentro. In quel momento ho pensato che nonostante tutti i miei problemi sarei voluto tornare in Mali. Avevo sentito troppe storie di gente morta durante la traversata! Ma sono stato costretto. E ho preso il mare».

Partire: coraggio o rinuncia?

Gabriella: «Vi pongo un’altra questione. Per molto tempo io ho pensato che andare via dalla Sicilia fosse stato un atto di codardia, perché sarebbe stato più coraggioso restare per cambiare le cose. Con il tempo ho cambiato idea: forse, partire prima ancora di aver compiuto 18 anni per vivere nuove esperienze, in altre città, è stato sì un atto di coraggio.

Voi cosa ne pensate? Nel suo bellissimo libro Bilal il giornalista Fabrizio Gatti parla dei migranti africani come di eroi… Secondo voi restare – laddove non si corra pericolo immediato di vita – è più coraggioso che partire? Io certamente non ho avuto problemi di integrazione fuori dalla Sicilia, però se penso a quanto ero giovane e a come me la sono dovuta cavare da sola in tante circostanze, mi viene da dire che, rispetto a chi è rimasto sempre nella stessa città e magari nella stessa casa, in effetti ho avuto coraggio.

Persone come voi, che sono intelligenti, istruite e capaci, non avrebbero fatto meglio a restare e usare le proprie capacità per far crescere il proprio Paese?»

Seguono minuti di silenzio. Evidentemente la questione non è delle più semplici.

È Kissima a rompere gli indugi: «Per me fuggire è più coraggioso. Puoi rimanere in un posto e sperare che le cose cambino solamente se hai qualcosa che puoi costruire. Ma se non hai alcuna prospettiva, allora devi andare a cercarla altrove. Per poi magari tornare indietro e costruire nel tuo Paese».

M’bemba: «Bravo!»

Nalini: «Non lo so. Io ho subìto due migrazioni: la prima la conoscete già. La seconda, a 25 anni, quando ho lasciato la Sicilia per Milano. Nel primo caso lo chiamerei coraggio. Nel secondo, fuga. Ma una fuga “obbligata”. Mi trovavo in una situazione imbarazzante: faticavo, come tanti altri siciliani, a trovare un posto nel mondo del lavoro e nel mondo tout court. Mi sentivo limitata e in balia di me stessa. Non riuscivo a esprimermi totalmente, forse per mancanza di esperienza.

Con la maturità di oggi sicuramente potrei affrontare una certa mentalità con cui faticavo a rapportarmi all’epoca… ma non ho più l’energia dei 20 anni!

Così oggi in Sicilia continuo a sentirmi spesso sola, anche se la mia famiglia vive lì. L’anno scorso, ad esempio, Palermo ospitava Manifesta, la biennale nomade d’arte contemporanea. Ebbene, mentre la città si promuoveva come Capitale Europea della Cultura, la mia strada era invasa dalla spazzatura. Ho provato una rabbia terribile, avrei voluto prendere tutta quella immondizia, i materassi, i mobili, metterci sopra dei fiori e appenderci un cartello con scritto: Manifesta. Ma sapevo che sarei stata da sola. E mi è passata la voglia».

Gabriella: «Credo che questo problema lo abbiano molti emigrati. Un conoscente senegalese mi dice che non riesce a passare più di qualche settimana nel suo Paese, ormai, perché la sua mentalità è cambiata e molto cose lo irritano. Al contrario, il nostro comune amico J., pur mantenendo il suo radicamento in Italia, ha iniziato ad andare in Togo a fare corsi di formazione in marketing e self-empowerment, materie che ha studiato qui. Quindi chissà se sia possibile farsi motore di cambiamento in Patria, oppure se non sia meglio tornare solo da anziani, per riposare…».

Kissima: «Secondo me quello che sta facendo J. è molto importante: qui in Italia ha imparato tanto e ora sta trasferendo la sua esperienza ad altri. È un atto coraggioso. Forse anche io posso imparare tante cose qui e poi tornare. Mi piacerebbe costruire un centro di ristorazione italiana che serva le aziende, le scuole».

Gabriella: «Pensi al futuro in Italia o in Mali?».

Kissima: «Non lo so. Però quando ho visto l’azienda di ristorazione dove lavoro a Milano, che è un posto meravigliosissimo, ho pensato che potrei creare tanta occupazione…».

Diallo: «Ora che sono lontano dal pericolo nel quale mi trovavo in Guinea, mi sento più tranquillo e sto imparando molte cose. E ne vedo tante che mi piacciono: per esempio il modo di vivere degli italiani, soprattutto in famiglia. Da noi si vive in troppi in una casa e questo genera confusione. Qui non sono entrato in molte famiglie, ma quelle che ho conosciuto sono très jolies. Senza complicazioni. E poi per farsi visita tra familiari… si prende un appuntamento!».

Ride e continua: «Inoltre qui ognuno mangia dal proprio piatto, mentre da noi puoi vedere 10 persone mangiare con le mani intorno allo stesso piatto. Non lo trovo molto igienico. Io ho sempre usato un cucchiaio per mangiare. E l’unica persona con cui mi faceva piacere condividere un piatto era mia madre».

Foto dI Giulia Cappellin

Gabriella: «È strano come a volte nel luogo che ci accoglie troviamo qualcosa che già avevamo dentro. Io vengo spesso presa in giro perché sono precisa e organizzata, mentre l’idea comune è che i siciliani non lo siano. Ma quelle sono sempre state mie caratteristiche: a Milano ho solo trovato una situazione vicina al mio sentire».

Diallo: «Comunque tornando al discorso del coraggio, per me è coraggioso chi lascia il Paese. Solo il coraggio ti può spingere a uscire. I pigri non ne sono capaci».

M’bemba: «Secondo me dipende dal motivo per cui parti. Nel tuo caso, Gabriella, non c’era una situazione di emergenza, però tu avevi capito quello che volevi dalla vita e sapendo di non poterlo trovare in Sicilia, sei andata a cercarlo altrove. Ma dovresti pensare di tornare, un giorno.

Partire e dimenticare da dove vieni e non fare niente per il posto che ti ha fatto nascere e ti ha visto crescere, questo non è coraggioso.

Avere un obiettivo, raggiungerlo e poi tornare per fare qualcosa di buono per il proprio Paese e per la propria famiglia, questo è coraggio! Così voglio fare io. Molte persone sono arrivate e hanno visto che l’Europa non è quello che pensavano. Ma non possono tornare indietro adesso. Vogliono investire in qualcosa, fare una formazione per esempio, oppure ottenere dei documenti per entrare e uscire dal Paese.

La mia visione è cambiata molto da quando sono qui e anche il mio modo di comportarmi: per un periodo in Guinea, sono stato aggressivo, sbandato. Qui invece devo lavorare duro. Perché non ci sono papà e mamma. Per me è un’occasione per conoscere me stesso».

I migranti mentono?

Gabriella decide di provocare. O forse di capire meglio certe cose. Così tira fuori un libro intitolato Immigrazione: tutte le bugie, scritto dalla ricercatrice in Storia e Istituzioni Africane Anna Bono e il giornalista Paolo Bracalini.

In questo volumetto, evidentemente su posizioni anti-immigrazione, si sostiene che tra le storie che i richiedenti asilo raccontano alla commissione, ve ne siano alcune che si ripetono. «Sono tutte simili e questo le rende sospette», scrivono gli autori. Una piuttosto diffusa, sostengono, è «quella dello “zio cattivo”, un parente malvagio che per qualche motivo gliela deve far pagare e perciò non possono tornare a casa».

Da quando lo ha letto, spiega Gabriella, lei si domanda se sia vero che ci sono storie che i migranti “si passano” tra di loro perché convinti che funzionino. Oppure se non sia l’organizzazione sociale di alcuni Paesi africani a rendere davvero possibile la presenza di conflitti familiari che mettano a repentaglio la vita delle persone.

Interviene Kissima: «Mi sembra strano che un migrante si inventi una storia di problemi familiari: si sa che la commissione non le valuta meritevoli del riconoscimento di protezione internazionale! Comunque sono cose che possono succedere, specialmente nei villaggi».

Nalini: «Da quello che so, in Africa la gestione del patrimonio funziona così, e correggetemi se sbaglio: se in una famiglia ci sono due fratelli, è il maggiore che gestisce il patrimonio. Se lui viene a mancare, però, la sua eredità non va alla moglie e ai figli, ma al fratello. Questa gestione crea diversi problemi: gli “zii cattivi” sono quelli che – spesso – mettono ai margini le mogli e i figli del fratello defunto, in modo da garantirsi che, in caso di propria morte, siano i propri figli a prendere tutto…»

Gabriella: «Un notaio – italianissimo – mi disse una volta che proprio osservando, nella sua lunga carriera, le dinamiche che scattano davanti alle questioni ereditarie, aveva capito fino a dove possa spingersi l’avidità umana. Questo per dire che certi problemi non sono un’esclusiva africana»

Nalini: «Sicuramente no. Però qui in Europa ci sono regole più ferree, una legge che ti tutela. In altri contesti si è meno protetti».

Interviene Kissima: «Vi dico una cosa: purtroppo il modo di vivere in Europa non è socievole, ma è più migliore di quello degli africani. Perché qui ognuno ha la propria casa. Vivere tutti insieme nella stessa abitazione crea dei problemi».

Riallacciandosi a questa osservazione di Kissima, Gabriella ricorda un provocatorio libretto scritto dall’antropologo Franco La Cecla dal titolo Elogio dell’Occidente in cui egli sostiene che, nonostante quello europeo sia un modello socio economico tutt’altro che perfetto, ha molti aspetti positivi e per questo attira i migranti.

Il miraggio europeo

Gabriella: «Ora, il punto non è certo decretare che una parte del mondo sia migliore di un’altra. Ma non è possibile che ciò che attrae dell’Europa sia qualcosa di più del benessere economico? Ricordo un amico palestinese che nei suoi primi tempi in Italia, nonostante le tante difficoltà di integrazione e la nostalgia di casa, mi diceva che non sarebbe mai voluto tornare indietro perché si sentiva molto più libero a Milano rispetto alla sua società, musulmana e tradizionale».

Nalini: «Certo, chi arriva da un Paese che è economicamente e socialmente più arretrato, magari sotto dittatura, quando arriva qui ha un respiro diverso… e non può fare a meno di amarlo! Avere la possibilità di passeggiare per la strada senza timore di essere colpito da un proiettile, accoltellato o rapinato è un lusso.

Ma al di là dei pericoli per la propria incolumità, possono esserci altri fattori a farti avere un altro respiro in Europa. Io, per esempio, vengo da un paese democratico ma giovane, nel quale sento il peso dell’essere donna. In Italia il mio pensiero, la mia parola, vengono ascoltati, rispettati. Lì la considerazione implicita è sempre che sono una donna, e non avrei la stessa libertà di parola che ho qui…

Foto Giulia Cappellin

Ora per concludere vorrei fare ai nostri amici africani un’ultima domanda: se vi chiedessi una sola parola per descrivere la vostra idea di Europa prima di arrivarci, quale scegliereste?».

Diallo: «Il paradiso terrestre»

M’bemba : «Facile»

Kissima: «La vita facile»

Nalini: «E una parola per descrivere l’Europa dopo che l’avete conosciuta?».

Kissima: «L’inferno!». Ma lo dice ridendo.

M’bemba: «Il contrario di quello che pensavo».

Diallo: «Ho trovato la sicurezza che cercavo, ma non è il Paradiso che pensavo».

Gabriella: «Ma davvero… inferno?» (Si capisce che c’è rimasta un po’ male…)

M’bemba: «No, vabbè, non proprio, però la vita è dura. Bisogna lavorare duro. Non è la facilità che pensavamo. La gente viene perché qui ci sono delle cose buone. Ma una volta che arrivi ti rendi conto che per averle, quelle cose buone, devi faticare tantissimo».

Approfondimento

Le parole che sono state condivise hanno fatto riflettere e hanno suscitato il desiderio di approfondire ulteriormente le questioni emerse. Specialmente sulle motivazioni alla partenza e sulla narrazione che, dell’Europa, si fa in Africa.

La Cei promuove dal 2017 una vasta campagna sulla migrazione dal titolo parecchio esplicativo: Liberi di partire, Liberi di restare. 

Gabriella Grasso ha intervistato Federico Mazzarella, coordinatore regionale di Caritas italiana per il Nord Africa e Sahel.

Qual è l’obiettivo di questa campagna?

«Oggi dall’Africa non si può partire senza correre il rischio di essere torturati, imprigionati, di morire in mare o di trovarsi le porte dell’Europa chiuse. Ma non si può nemmeno restare, perché non ci sono le condizioni per una vita dignitosa.

La campagna vuole promuovere le condizioni, a tutti i livelli, affinché le persone siano davvero libere di restare, partire e magari tornare.

Il diritto di partire non è in discussione: chi può impedire a un altro essere umano di spostarsi in cerca di una vita migliore?

D’altra parte, quando hai davanti qualcuno che sta per rischiare la vita, hai il dovere di intervenire. E poiché sconsigliare la partenza è totalmente inutile, l’unica opzione è fare informazione su cosa significa davvero intraprendere il viaggio per l’Europa.

Alla base delle partenze ci sono sicuramente il bisogno economico e una forte pressione sociale, diretta soprattutto ai maschi. Ma un ruolo importante lo gioca anche la curiosità di vedere l’Europa, continente di cui i ragazzi africani hanno sempre sentito parlare e di cui oggi – attraverso i social – hanno a disposizione una quantità enorme di immagini, quasi tutte falsate».

L’immaginario distorto si costruisce, dunque, anche attraverso i social network?

«Assolutamente sì, per due motivi. Il primo è che i migranti che vivono in Europa nascondono sui social i propri fallimenti e ostentano solo successi, veri o presunti. Contribuendo così a una narrazione edulcorata.

Il secondo è che in molti Paesi – mi riferisco in particolare alla Guinea, che conosco meglio – ci sono tanti ragazzi che saltano una tappa fondamentale dello sviluppo cognitivo.

Passano da un livello di alfabetismo basilare (nel senso che sanno leggere e scrivere, ma non hanno studiato abbastanza da sviluppare una capacità critica, né il loro stile di vita gli consente di acquisire un’abitudine alla concentrazione e alla lettura) a un bombardamento di immagini che, in mancanza di strumenti interpretativi, arrivano direttamente al cervello. Con il risultato che anche la più incredibile delle bufale su Facebook viene presa sul serio».

Quindi è proprio com’è emerso nelle nostre Conversazioni: dell’Europa si ha ancora una concezione irrealistica…

«Sì. E anche confusa. Chi si accinge a partire ha delle idee stereotipate di ciò che lo aspetta durante la traversata e all’arrivo. Banalizza cose che dovrebbero essere prese sul serio, come la pericolosità del viaggio. E ne esaspera altre come la facilità della vita in Europa.

Non c’è alcuna logica nel pensare che, una volta arrivata qui, una persona venga accolta con un lavoro e una casa. Eppure a nessuno viene in mente di chiedersi: “Sarà vero?”.

Perché vedono solo ciò che è funzionale al loro sogno. D’altra parte alcuni migranti sono giovanissimi, specialmente quei ragazzi che, dopo la morte del padre, rimangono senza nulla e magari con una famiglia a carico: in fondo nessuno di noi a 16 anni ascoltava volentieri consigli e accettava di essere riportato alla realtà».

La difficoltà di essere convincenti nelle campagne di informazione, come ha evidenziato anche M’bemba nelle nostre Conversazioni, è evidente. Quali possono essere, dunque, degli strumenti efficaci?

«Per cominciare gli animatori che conducono le nostre campagne sono persone del posto, spesso ex migranti. Hanno il vantaggio di essere riconosciuti all’interno della comunità, ma a volte possono essere considerati dei “traditori” perché collaborano con i bianchi per impedire ai compatrioti di partire.

Gli strumenti sono molteplici, dagli interventi nelle scuole ai passaggi in radio, che è molto ascoltata soprattutto dalle donne che lavorano in casa. Una formula che funziona è il teatro-forum. Ne ricordo uno, in un villaggio del Senegal. Una compagnia teatrale mise in scena, nella piazza del mercato, uno spettacolo che riproponeva la traversata nel deserto dei migranti, dato che uno degli attori l’aveva fatta due volte e poi era tornato a casa. A un certo punto un’attrice veniva catturata dai poliziotti di frontiera e stuprata, cosa che nella realtà accade spesso.

Una donna anziana che si trovò ad assistere ebbe un malore. Dieci anni prima sua figlia ventenne era partita: da allora non l’aveva più sentita, ma era ancora convinta che la ragazza fosse da qualche parte a fare fortuna. Non le era mai venuto in mente che potesse non essere così, ne prese coscienza solo in quel momento. Quindi se è vero che è difficile misurare i risultati di una campagna di sensibilizzazione, è anche vero che fornire informazioni serve sempre, in un modo o nell’altro».

Nelle nostre Conversazioni abbiamo fatto cenno a quelle che sono ritenute le “bugie dei migranti”, come il riferimento a situazioni familiari pericolose. Tu che lavori in Africa, cosa ne pensi?

«La storia dello “zio cattivo” cui avete accennato, la conosco bene. E viene raccontata spesso perché in certi contesti è assolutamente plausibile.

Il motivo per cui in Europa abbiamo costruito la figura della matrigna cattiva – basti pensare alle nostre favole – ha a che fare il diritto ereditario. Quando da noi muore un uomo è la moglie che, tradizionalmente, eredita i suoi beni e si impegna a occuparsi degli eventuali figli di primo letto del marito. In passato, però, accadeva spesso che si sottraesse a questo impegno. Così le favole servivano a mettere in guardia, in maniera non razionale, il bambino rispetto a una figura potenzialmente pericolosa.

Ecco, in Africa, per via delle consuetudini ereditarie, al posto della matrigna c’è lo zio.

Esistono tante storie, aneddoti, il cui protagonista è uno zio giovane, cattivo e spietato: in questo modo tutto il parentato, ma soprattutto i più giovani, che potrebbero restare orfani, vengono messi in guardia rispetto a una figura che può rivelarsi pericolosa. Le storie dei migranti che parlano di “zii cattivi”, dunque, sono verosimili e diffuse».

L’Europa, e in l’Italia in particolare, sta mettendo in atto politiche restrittive per limitare l’arrivo di migranti. Secondo te è davvero possibile frenare le partenze dai Paesi di origine?

«Non possiedo dei dati sulle partenze e credo sia difficile averne, perché si tratta di un fenomeno estremamente sfuggente. Se vuoi la mia opinione la risposta è no. La migrazione è un flusso: chiudi un rubinetto, se ne apre un altro; chiudi anche quello e se ne aprono altri tre, altrove.

Basta guardare la storia delle rotte migratorie degli ultimi 20/30 anni per capire che sono continuamente in mutamento. Non esiste una rotta, esiste un asse – quello del Mediterraneo centrale – che include un fascio di rotte: ce ne sono decine e cambiano anche settimanalmente, a seconda delle notizie che arrivano sui problemi nei Paese di transito e di destinazione.

Se un Paese chiude le frontiere, il flusso si sposta da un’altra parte. Oggi, per esempio, i passaggi dalla Libia sono in progressiva e notevole riduzione. Da una parte si punta alla Spagna, transitando quindi dal Marocco, dove si tenta la scalata dei muri che delimitano Ceuta e Melilla. Dall’altra ci si dirige verso l’Italia dalla Tunisia.

Io dubito che un potenziale migrante, in un villaggio africano, cambi idea sentendo che un Paese europeo come l’Italia ha chiuso le frontiere: anche perché i progetti migratori sono estremamente confusi, chi parte non ha idea di dove andrà di preciso. La migrazione è tutt’altro che lineare. Ho parlato con gente che è rimasta in giro per l’Africa anche per 10 anni, passando attraverso il Mali e il Niger, arrivando in Libia e tornando indietro per ripartire di nuovo per il Marocco…

Sinceramente pensare che la migrazione dall’Africa verso l’Europa, così com’è adesso e come sarà nella prossima generazione, possa essere fermata dalle politiche di uno o di un altro Paese europeo, mi pare fiabesco.

Perché è in moto una cosa talmente grande, ramificata, dalle radici talmente profonde e dai numeri così vasti, che non si può pensare di contrastarla con questi piccoli interventi. Io non so se la migrazione vada contrastata o favorita. Ma se la si vuole contrastare, non è certamente questo il modo».