Introduzione

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi esattamente 25 anni fa, a Mogadiscio. Erano giornalisti italiani, della Rai, ed erano ufficialmente in Somalia per seguire la fine della missione “Ibis” e il ritiro del contingente italiano. Di fatto, stavano seguendo altre piste d’inchiesta, che li hanno portati anche fuori dalla capitale somala. La loro fu una vera e propria esecuzione e le indagini che la seguirono furono inquinate in più fasi dalle resistenze delle stesse istituzioni. La dimostrazione che dei giornalisti del servizio pubblico all’estero non abbiano goduto né della protezione della diplomazia, né di quella del senso di giustizia dello Stato, a distanza di una generazione pone una domanda forte: com’è cambiato il giornalismo di inchiesta dopo quella vicenda? Che cosa ha significato l’esecuzione di Ilaria Alpi per i suoi colleghi? E cosa è diventata la sua storia per la cronaca e per i media?

Somalia 1994

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin lavoravano per il Tg3. Ilaria Alpi era stata in Somalia più volte, seguendo il corso di “Restore Hope”, la missione internazionale guidata dagli Stati Uniti con l’approvazione dell’ONU. Gli interventi internazionali, tra cui la missione italiana “Ibis”, iniziarono nel dicembre del 1992, in un Paese devastato dalla guerra civile.  Ugualmente difficile e tragica era la situazione della Somalia alla fine della missione, nel marzo del 1994.
Quando non era in onda, Ilaria metteva a frutto il suo tempo: cercava di capire cosa succedeva in quel paese, al di là delle missioni internazionali e delle dichiarazioni ufficiali. Le sue indagini l’avevano portata fino a Bosaso, dove ha fatto la sua ultima intervista: era andata a parlare con un alto funzionario somalo – Abdullahi Mussa Bogor, il cosiddetto “Sultano di Bosaso” – di una flotta di navi da pesca donata dalla cooperazione italiana al paese africano. Probabilmente, aveva capito che quelle imbarcazioni potevano essere il fulcro di un traffico di armi e rifiuti radioattivi tra Italia e Somalia. Era una una notizia forte, nuova, che avrebbe potuto sconvolgere le dinamiche politiche europee; alla redazione del Tg3 aveva anticipato al telefono: “Ho delle cose grosse, veramente grosse. Importanti”.

Ma se Ilaria avesse avuto la giusta intuizione o no, non lo sappiamo, perché di ritorno da quel viaggio, il 20 marzo 1994, lei e il suo operatore vennero assassinati.

Quando le salme e gli effetti personali dei giornalisti giunsero a Roma, parte delle cassette registrate da Hrovatin durante l’ultimo viaggio era scomparsa, e dell’intervista ad Abdullahi Mussa Bogor ci sono rimasti solo 13 minuti.

Da qui è cominciato un calvario legale-giudiziario tra i più noti della Seconda Repubblica, fatto di lunghi processi e numerose commissioni parlamentari, di prove inquinate e testimoni falsi. Da questo complicato percorso sono emerse poche verità, tutte strappate dalla tenacia dei genitori di Ilaria Alpi, Luciana e Giorgio, che hanno speso la loro vita per capire la verità, e sono morti senza averla raggiunta. Sono pochi invece quei colleghi che hanno provato a continuare il suo lavoro, o a capire cosa le fosse accaduto veramente; alcuni dei loro tentativi, anche se pochi e spesso solitari, hanno portato alla luce aspetti nuovi e fondamentali sulle motivazioni del delitto. C’è chi ha parlato di “esecuzione con depistaggi di Stato”[1]. C’è chi ha provato a ricostruire i collegamenti tra Italia e Somalia, studiando le rotte di veleni, armi e rifiuti[2]. In tanti hanno chiesto l’assoluzione di Hashi Omar Assan, l’unico imputato mai condannato durante un processo sul caso Alpi, che ha scontato 16 anni di carcere a fronte di una falsa testimonianza, oggi conclamata. Tutte posizioni che si sono scontrate con continui tentativi di insabbiamento delle indagini giudiziarie.

[1] G. e L. Alpi, M.G. Grainer, M. Torrealta, L’ esecuzione. Inchiesta sull’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, 1999, ed. Kaos

[2] A. Palladino, Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi, rifiuti, 2012, ed. Laterza

Martiri e capri espiatori

È chiaro che il giornalismo d’inchiesta fosse complicato anche 25 anni fa, ma l’esecuzione di Ilaria e Miran e i depistaggi seguiti alla loro morte sono stati un campanello d’allarme. È diventato evidente, nel giro di poco tempo, che lo stesso servizio pubblico – la Rai in questo caso – non era protetto.

I giornalisti sono stati costretti a realizzare che uno dei loro ruoli principali, quello di “cane da guardia” nei confronti delle istituzioni e dello Stato, poteva essere contrastato con mezzi che, se non causavano direttamente la morte, potevano renderne irrilevanti le ragioni.

Quello che è stato sottratto alla figura di Ilaria Alpi è la sua concretezza. I media hanno sempre parlato di lei come una martire, ma la battaglia reale, quella affrontata nelle aule dei tribunali, non è mai potuta giungere a compimento perché non è mai stata affrontata con forza dalle istituzioni. Si è lasciato che Ilaria Alpi diventasse una figura immaginaria, divelta dalla storia, e il suo lavoro, così immerso nella realtà – la ragione del suo omicidio – è diventato marginale agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica. E’ bastato un capro espiatorio, Hashi Omar Hassan, per dimenticare tutto.

Parallelamente, se alcune narrazioni del caso Alpi sono andate verso l’idealizzazione e la celebrazione della giornalista romana, altre hanno percorso la via del più becero e totale discredito.

È tristemente celebre l’affermazione dell’avvocato Carlo Taormina – presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin – per cui l’inviata del Tg3 e il cameraman si sarebbero recati in Somalia “per andare in vacanza”. Con un meccanismo tipico da “macchina del fango” – poi quasi una prassi durante il berlusconismo – ancora una volta si è spostato il dibattito sulla persona di Ilaria, sulla sua vita privata, invece che affrontare nel merito il contenuto del suo metodo e delle sue indagini.

Post-Giornalismo

È probabile che ora non si potrebbe tentare un lavoro come quello di Ilaria Alpi: non mancano i mezzi, ma l’interesse editoriale. Il suo lavoro ha finito col soccombere a dei colpi di mitra, quello di chi oggi volesse fare del giornalismo investigativo forte, invece, si scontrerebbe con un problema strutturale. Il presupposto di un’inchiesta che tenti di portare alla luce una grande contraddizione è di avere un punto di partenza ma di non conoscere quello d’arrivo, perché si cerca una verità sconosciuta.

Oggi però la verità ha un peso diverso, è più volatile, come lo sono le notizie, e l’opinione pubblica risponde a impulsi rapidi, allontanando le redazioni dai lavori di approfondimento per concentrarsi sulle flash news.

Nell’epoca della “post-verità” il giornalismo investigativo si scontra con un problema di legittimità politica, forse ideologica. il punto non è solo la maggiore rapidità dell’informazione, che la rende quasi evanescente, e nemmeno la ricerca dei media di un riscontro di “pancia” da parte del pubblico, che confonde l’informazione con il generico storytelling; il punto è il generale e progressivo declassamento del valore sociale e simbolico della verità in quanto tale. L’aderenza al “vero” di un discorso o di una condotta non viene considerata positivamente, o non viene considerate affatto, se non nelle loro forme parossistiche: complottismi, escapismi vari, meri calchi delle carte processuali…

Eppure, l’indagine e la scoperta dei “meccanismi occulti” del potere sono una parte importante della storia del giornalismo italiano, in particolare di quel giornalismo che ha tentato di posizionarsi “a sinistra”. Di più: sono stati elementi integranti e costitutivi nella costruzione di un’identità di sinistra in generale, soprattutto se pensiamo al periodo della strategia della tensione e a quelli immediatamente successivi. Oggi, invece, le narrazioni fondate sui binomi “falso/vero” o “nascosto/manifesto” diventano spesso appannaggio delle forze populiste e di discorsi che puntano a semplificare il reale, banalizzandolo. Di contro – complice un antiberlusconismo” fatto a colpi di sentenze, ma privo di elaborazione politica – la sinistra è passata a dileggiare approcci di questo tipo, bollandoli come atteggiamenti paranoici e mistificatori.

 

La verità del metodo

Nel “giornalismo della post-verità”, la figura di Ilaria Alpi può rappresentare una “bussola”, un possibile orientamento. La storia della giornalista del Tg3 assassinata a Mogadiscio non è la storia di qualcuno che si è ritrovato per caso in uno schema “più grande” di lui. Ilaria, prima del marzo 1994, era già stata sette volte in Somalia e si era costruita una profonda comprensione del contesto del paese africano e del suo popolo. Invece che lavorare come embedded al seguito dei militari, aveva stretto una rete di legami e connessioni con persone comuni, donne, interlocutori che potevano offrire sguardi e prospettive diversi da quelli ufficiali. Ilaria Alpi si era fatta interprete dei sentimenti della popolazione somala e del suo desiderio di riscatto: è per tale motivo che era riuscita ad accedere a informazioni “pericolose” e probabilmente sconvolgenti per l’assetto politico-istituzionale italiano (e internazionale?) dell’epoca.

Questo, forse, il lascito più alto e significativo della sua vicenda. Il che, per riannodare i fili del ragionamento, ci fa anche capire come il valore della verità sia dato innanzitutto dal modo in cui essa viene prodotta, dalle motivazioni e dall’impeto che ne guidano la ricerca, da quanto infine lo slancio individuale del singolo giornalista riesce a farsi espressione di un’urgenza collettiva.

Il giornalismo investigativo dunque ha un peso diverso oggi, però c’è una cosa che resta sempre la stessa: al netto delle difficoltà, dei mezzi, dell’interesse, i giornalisti stessi sembrano convinti che a fare la differenza debba essere la loro tenacia individuale; non con imprudenza, ma con un atteggiamento disposto ad affrontare con una certa ostinazione i problemi che ostruiscono la vista di un occhio critico che punti dritto alla verità nascosta.