Diario basco

di

9 Giugno 2018

Cinque giorni di viaggio e interviste, nei giorni della fine di ETA

Questo diario basco è stato pubblicato sulla pagina facebook di Q Code Magazine dal 7 all’11 maggio del 2018.
Buona lettura.

Da San Sebastian,
testi e foto di Angelo Miotto

 

#1. MAI DIMENTICARE IL CONTESTO

Il contesto è importante, come e forse anche di più del soggetto che vi si inserisce. Fuori contesto, il soggetto non si definisce, le sue peculiarità sono sfumate, a volte invisibili.

Chiedo se gli ultimi sette anni senza pistole e la fine di ETA, giorno da festeggiare, abbiano avuto delle conseguenze sui più giovani e la risposta sta in un sondaggio in cui gli studenti intervistati non sapevano cosa fosse il terrorismo di stato spagnolo dei GAL (anni ’80 governo Gonzales) e non sapevano chi fosse Miguel Angel Blanco Garrido, sequestrato e ucciso da ETA il 13 luglio 1997, dopo un drammatico conto alla rovescia.

È scomparso nel flusso frenetico della nuova (dis)informazione, il contesto.

Vive di storia, di una concatenazione di fatti e di dinamiche che se non sono messe in fila, se vengono occultate per sempificare tutto a meri slogan, allora non si può capire più niente. O si può addirittura capire il contrario.

Nel 2009, per esempio Arnaldo Otegi, Arkaitz Rodriguez, Rafa Diez, Sonia Jacinto e Miren Zabaleta, tutti della sinistra basca, vengono arrestati dal giudice Garzon e processati in un parsec, in maniera davvero inusuale, con l’accusa di voler ricostituire la disciolta Batasuna. In realtà stavano portando a termine un lavoro di cambio strategico che porterà proprio alla fine della violenza armata. Perché il passaggio storico dell’abbandono della violenza, consegna armi e scioglimento di ETA è legato a un processo che, oggi lo sappiamo, ha coinvolto tante persone, alcune delle quali han passato sei anni in carcere per aver proposto una soluzione politica.

E questo è solo un esempio del contesto, di una storia che si sta svolgendo in maniera unilaterale, dove lo stato spagnolo non esiste, dove la società, tutta, sta dimostrando di essere molto più avanti della classe politica. O della stampa partigiana. La stessa stampa che insulta, butta in prima pagina le storie più commoventi delle vittime della lotta armata, non per rispetto delle vittime, ma per creare la coesione di stato contro il nemico. Anche adesso che non c’è più. Soprattutto adesso, proprio perché non c’è più e deve rimanere solo una versione di questa storia. Per questo il contesto va eliminato. Perché è complesso.

[Nella foto i pettini del vento di Eduardo Chillida. Sono incastonati in uno sperone di roccia e dicono più di mille parole sul carattere basco, tellurico, sul metallo forgiato, lo spazio che si torce come chiede la volontà dello scultore, dove il vento vola libero].

Peine del viento. Eduardo Chillida

#2. NON SI CAMBIA IL FUTURO SENZA MEMORIA

Oggi mi sono seduto di fronte a una persona cresciuta nel proletariato urbano

Abbiamo iniziato a parlare di quello che stiamo leggendo sui giornali, perché mi è venuto un dubbio; perché ci stanno vendendo questo disfarsi (la parola basca è desagitea) dell’organizzazione armata come la vittoria dello stato di diritto? Qui siamo dentro la totale unilateralità, con un lavoro meticoloso della sinistra basca e di un Gruppo di contatto internazionale che l’ultima volta che è apparso in Spagna è stato interrogato dai giudici dell’Audiencia Nacional, a Madrid (!).

Quando sono entrato in ETA – mi ha detto Eugenio Extebeste ‘Antxon’ – c’era la dittatura di Franco e soffrivamo la violenza fisica, politica di quel regime. Il governo basco era in esilio e l’organizzazione era nata per reagire a quella situazione. C’erano quattro fronti: culturale, economico, operaio, militare. Io entrai in quello culturale, all’inizio.

Era il Novecento, prima del 1975, in Europa si agitavano le formazioni armate rivoluzionarie, in Latinomerica vivevano i nuovi comandanti. L’intervista, la pubblicherò integrale perché aiuta a capire, anche per chi come me e tanti altri non crede nella lotta armata come strumento. Non basta condannare, è necessario capire. E comprendere non è giustificare.

Oggi abbiamo paura di pensare fuori dagli schemi imposti. Lo schema che il nuovo millennio ci ha imposto, lo dico con il 2001 negli occhi e il 2004 di Madrid seguito passo a passo nelle strade della capitale, è quello di condanne nette e assolute e di una cessione della nostra libertà in nome della sicurezza. In questo gioco rientra anche tutta la retorica del giornalismo mainstream di questi giorni. Non perché è contro ETA- questo è logico -, ma perché si stanno usando narrazioni emozionali per affermare una visione unica della storia. Come se sparissero le tracce delle diverse ere geologiche che affiorano in questa terra e tutto fosse una colata di cemento indistinto, ma rassicurante perché liscio e senza accidenti.

Uno stato, mi raccontava oggi una politica socialista basca, ha l’obbligo di rispettare le sue leggi. Lo diceva dopo avermi spiegato quante persone hanno sofferto minaccia e pressione, oltre che attentati. Ma, in tutta onestà, qui l’unilateralità dice che c’è una parte che assume il danno causato, che chiede perdono, che spiega i criteri di questo perdono – accettabile o meno che sia – che si scioglie assumendosi le proprie responsabilità. Ma per il terrorismo di stato degli anni 80, lo stato stesso non ha mai assunto nessuna responsabilità. E la dispersione carceraria fu ed è un metodo di allargare la sofferenza, cosa non prevista dalla legge ordinaria spagnola. Cioè lo stato, per una utilità tattica di lotta anti-terrorista, ha violato o deformato le proprie leggi.

È più facile cantare nel coro dei ‘democratici’. Ma corre l’obbligo di ricordarci che troppo spesso chi si riempie la bocca di ‘diritti’ non è disponibile non solo a riconoscere, ma nemmeno a processare chi ha torturato o violentato. Non c’è una bilancia per tutto questo, c’è una semplice legge di coerenza. Per poter affrontare il futuro si saldano i conti con il passato, si accetta di non oltraggiare oltre la memoria.

#3. PRIGIONIERI DEI PRIGIONIERI

Sono entrato in una Herriko taberna, una taverna del popolo, bar che venivano gestiti – lo sono ancora – dalla sinistra basca. Inutile dire che sono finiti a processo anche i bar, perché lì, sostenevano i magistrati spagnoli capeggiati da Baltasar Garzon, ETA reclutava e si finanziava.
In effetti ricordo dei colorati salvadanai che racoglievano monete per le famiglie dei prigionieri politici o il fiorente commercio di t-shirt sempre molto creative, con un cotone di ottima qualità. Ne comprai almeno due o tre, lo confesso, una era sulla disobbedienza, un bel verde petrolio.
Cinque anni di istruzione del caso, con 34 persone a mollo aspettando. Altri sei anni per arrivare a sentenza, sempre con le 34 persone in attesa di giudizio. Poi pene abbassate, comunque su un teorema non provato.
Poi dicono l’Italia.

Le Herriko Tabernas, come vedete dalla foto, sono ancora aperte. I pintxos erano ottimi, la birra anche e sul portatovaglioli l’immancabile adesivo che ci dice che prigionieri politici ed esiliati torneranno a casa.

In carcere sono rimasti, in Spagna, 253 prigionieri politici (fonte Kalera, estate 2017), in Francia 73. Ma il caso francese si differenzia, perché il governo ha iniziato a muovere pedine, in un sobrio e silenzioso fare che non ha bisogno di grandi annunci ed è più che mai efficace. (Aggiungiamo che la consegna delle armi uniaterale di ETA avviene nelle mani degli artigiani e viene certificata dal governo francese, in ultima istanza).
La mappa dei prigionieri baschi è disseminata in tutta la Spagna. Si chiama dispersione e l’ha inventata Felipe Gonzales, leader socialista che si riempie la bocca di ‘Europa e diritti’, oggi ancora barone di peso nel partito e consulente di grandi multinazionali. I fondi neri che pagarono il terrorismo di stato sono dei suoi anni al potere, per intenderci.
Torniamo alla dispersione: crea dolore e sofferenza perché il prigioniero, la prigioniera, sono lontani dal proprio domicilio, quindi amici e parenti si devono sobbarcare costi e viaggi molto faticosi, spesso nel fine settimana, spesso con incidenti stadali a volte mortali.

La legge ordinaria spagnola prevede che il prigioniero sconti la sua condanna vicino al proprio domicilio. Non viene aplicata. Il regime di questi prigionieri è il più duro, il primo grado, spesso con oltre 18 ore di permanenza in cella, isolamento.

I prigionieri saranno la chiave per capire quando il governo di Madrid vorrà iniziare a entrare nella nuova dinamica (che non inizia il 3 maggio, ma nell’ottobre del 2011, come dire che di tempo ne ha avuto il governo spagnolo). Altrimenti resta prigioniero dei prigionieri: piace sempre meno ai famigliari delle vittime di ETA questa immagine che colpisce emotivamente e cioè che le vittime siano gli stessi condannati e lo loro famiglie.
In efetti, lo sono. Perché lo stato non applica una sua legge, creando un corto-circuito di senso davvero non da poco. La politica si muove da sempre su ciò che è rentable, redditizio dal punto di vista dei voti. E i voti sono, con tutta evidenza, più importanti dei diritti, della riconciliazione e sutura di ferite dentro la società. Basca e spagnola.

#4. UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA

Ci sono delle date che rimarranno nella storia, come il 20 ottobre del 2011, quando ETA ha dichiarò conclusa la lotta armata. E come il 3 maggio 2018, quando ha certificato il suo disfarsi (desagitea in basco), una parola che è stata scelta nella consultazione che la stessa organizzazione armata ha realizzato, anche sul termine adatto da scrivere nel comunicato finale. Il potere delle parole!

Un processo unilaterale, si è scritto e ho scritto. Ed è così.
Ma quando si viaggia e si parla con le persone che raccontano, che vivono, che hanno dedicato la vita a studiare questa storia iniziata nel Novecento, si hanno sempre delle sorprese.
È accaduto così anche in questi sei giorni vissuti con intensità in Euskal Herria, l’intensità di un luogo con poco più di tre milioni di abitanti, ma con una vivacità sociale, di associazione e creazione e diffusione di pensiero che sono impressionanti.

Prendiamo in prestito la rivoluzione copernicana, che fu tale perché la terra lasciò il posto al sole, al centro dell’universo. Una rivoluzione totale, epocale. In questi giorni ho capito una cosa in più, importante, e cioè che continuiamo a guardare e analizzare le questioni politiche e sociali con uno sguardo che risente, inevitabilmente, dell’abitudine e del senso comune. Non ci lasciamo più stupire, nemmeno da noi stessi, dalle nostre intelligenze.

Il primo che mi ha capovolto è stato Paul Rios. Lo aspettavo oggi a San Sebastian, ma gli si è rotta la macchina e siamo passati direttamente al viva-voce sullo Smartphone. Era in università, c’era rumore, una manifestazione. Paul Rios ha passato una vita, nel senso letterale, a studiare proposte di soluzione dialogata con Lokarri e adesso lavora alla Agirre Lehendakaria Center. Gli chiedo di questo processo inedito in cui non ci sono controparti di stato, ma unilateralità piena da parte di ETA. Mi risponde che non è d’accordo.
C’è stata multilateralità, sostiene, ma non con istituzioni statuali.
Con la società. ETA, attraverso l’Izquierda abertzale, cioè la sinistra basca, è passata da riunioni e assemblee popolari per decidere o condividere diversi passi. Ci sono poi i membri del Gruppo Internazionale di Contatto (GIC) che hanno certificato l’abbandono delle armi, il disarmo, il disfarsi di ETA. La società ampia, quindi, e una parte più ristretta e selezionata a livello internazionale, che hanno dato multilateralità a questo passagio.

Prima di telefonare a Paul Rios sono andato ad Azpeitia, Guipuzkoa, per vedere una mostra sui ‘bambini della valigia’, cioè i figli con madre, o padre, o padre e madre, in carcere. Obbligati a lunghi viaggi per vedere i propri genitori, con un vetro a bloccare gli abbracci e degli interfono a passare la voce amata. Lì c’era Joseba Azkarraga, di Sare (rete in basco), una associazione per i diritti umani dei prigionieri e dei loro familiari, dei deportati e dei rifugiati, nata nel 2015. Joseba Azkarraga è stato deputato negli anni ’80 a Madrid per PNV ed Eusko Alkartasuna e poi più avanti Consejero de Justicia nel governo del presidente basco J.J.Ibarretxe.

Parlando di prigionieri, chiedo ad Azkarraga del governo francese che si sta muovendo sul tema dei prigionieri, non come quello spagnolo. La sua risposta è ancora una volta una rivelazione: è la società che si muove, non i governi. Nel 2016 i baschi francesi costruirono la rete degli Artigiani di Pace, cioè persone che ricevettero da ETA i dati Gps per individuare los zulos, i nascondigli sottoterra, dove erano stoccate armi e munizioni. Gli artigiani poi consegnavano il tutto alle autorità. In questa maniera ETA consegnava le armi non a uno stato, ma a dei rappresentanti del popolo. Ebbene, molti degli artigiani che furono arrestati dai gendarmi francesi quel giorno, solo un anno dopo erano seduti al tavolo con le istituzioni francesi stesse, capaci di parlare di prigionieri politici e loro diritti.

Ecco, sono le persone, è la società che si muove.

Gli stati paiono sempre più in ritardo, così come l’agire sociale è avanguardia, sempre. Forse ci siamo seduti, intellettualmente e fisicamente, aspettando di avere qualcosa da abbracciare, prima ancora di costruircelo da soli, anzi in buona compagnia.

È una visione rivoluzionaria, e,soprattutto, funziona.

Nella foto un particolare di un oggetto di legno, con fisionomie intagliate dentro un grande Paese Basco, con la scritta Herrira, ‘torneranno nel proprio Paese’

#5. LA NORMALITA’ E LA RIVENDICAZIONE

Oggi c’è un gran sole sulla Concha, la baia a forma di conchiglia di San Sebastian. Una vera e propria invasione di turisti, il centro storico si sta trasformando. In questi anni senza violenza i negozi si sono fatti più simili a quello che si può trovare a Barcellona, con souvenir di ogni genere, e con le ferite da turismo di massa. Anche qui è nato un movimento contro questo tipo di invasione, proprio come a Barcellona o Venezia.

Gli ultimi sette anni sono stati quelli in cui si è passati dalle scorte alla fine delle tutele per molti politici, la fine di notizie di attentato, la fine di un clima, che è stato sorpassato dalla normalità della vita quotidiana, che è una condizione cui le persone si adeguano con grande facilità. Arnaldo Otegi Mondragon è nella sede di Sortu, a San Sebastian. È uno dei protagonisti della svolta, del cambiamento di strategia politica della sinistra basca – che costò a lui e altri suoi compagni e compagne di movimento oltre sei anni di carcere. Parliamo del relato, del racconto, dei prigionieri politici, ma anche e soprattutto di che cosa farà ora uno dei motori più dinamici degli ultimi anni, la sinistra basca. Ci sarà bisogno di non perdere la memoria, di evitare che si imponga una narrazione unica.
Ma ci sarà bisogno di vertebrare quello che potrà essere un nuovo stato, una nuova comunità.

Dalle rivendicazioni, mi spiega, passiamo ai fatti. Vogliamo il diritto a decidere? Vogliamo costruire uno stato indipendente? Allora costruiamolo. Come? Con l’immaginazione e la coerenza, sapendo rispondere ai cittadini e alle loro domande più semplici: come sarà la sanità nello stato che avete in mente? Come funzioneranno i servizi essenziali? Dove pagherò la bolletta e che tipo di energia useremo? Costruire con immaginazione e con pragmatismo, andando al concreto, per offrire come proposta politica un modello che sia davvero realizzabile.

Ora che ETA non c’è più lo stato spagnolo non potrà più appoggiarsi al ‘nemico interno’ per poter negare una implicazione, il coinvolgimento in discorsi politici. Anche se il caso catalano è un fonte aperto. Dove la risposta di Madrid, così come nel caso basco, è stata semplice e perdente: non parlo di politica, utilizzo la forza. Bastonate e articolo 155, d’imperio. Ecco la debolezza della Spagna di oggi, che si unisce solo di fronte alle rivendicazioni con altre bandiere, ma è incapace di affrontare un dibattito politico. La chiamano fermezza, ma è debolezza.

Si riparte da qui: le parole spigolose e taglienti degli ultimi giorni sembrano rarefarsi, anche nello scambio di aggettivi o nella rappresentazione mediatica, forse, potrà finalmente arrivare quella normalizzazione che permette alle idee di stare sul tavolo, tutte, per poi arrivare a mediazioni politiche. E però lo stato nazionale è in crisi, una crisi così forte che lo trasforma in un soggetto debole e quindi aggrssivo e quindi pericoloso. La parola che esprime il concetto più potente è: tempo. È necessario che passi il tempo. I secondi, i minuti, le ore e i giorni, in uno scorrere quotidiano che marca le albe e i vespri, le notti e il mezzogiorno.
Senza avere fretta, utilizzando il grande patrimonio di un conflitto così lungo: l’esperienza.