Afghanistan, vent’anni in un fumetto

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9 Settembre 2021

Recensione del graphic novel Tears of an afghan warlord

Non è facile trovare un buon graphic novel sull’Afghanistan. Ci sono decine di libri, centinaia di articoli, ma i lavori di giornalismo a fumetti dedicati al travagliato Paese mediorientale si contano sulle dita di una mano.

Vanno almeno citati Il fotografo di Guibert, Lefèvre e Lemercier, oltre all’incompiuto Afghanistan di Attilio Micheluzzi. Due opere, tuttavia, ambientate negli anni ‘80, in un contesto storico e geopolitico radicalmente diverso da quello attuale.

Kabul disco. Come non sono stato sequestrato in Afghanistan, di Nicolas Wild, è più recente, ma per modo di dire: pur essendo stato pubblicato in Italia da 001 nel 2013, infatti, l’opera racconda vicende ambientate nel 2005.

Quando ormai disperavo di riuscire a trovare un graphic novel in grado di restituire uno spaccato più o meno attuale dell’Afghanistan degli ultimi anni, ecco arrivare in mio soccorso la fertile scuola franco-belga.

Tears of an afghan warlord, pubblicato nel 2017 da Europe Comics e ancora inedito in Italia, è il racconto a fumetti del lavoro sul campo della giornalista belga Pascale Bourgaux, trasformato in immagini e balloon dalla coppia Thomas Campi e Vincent Zabus, già recensita su queste pagine.

Nel 2010, a metà della ventennale war on terror lanciata da George W. Bush nel 2001 e finita nei giorni scorsi con il repentino ritorno dei talebani al potere, Bourgaux torna nel villaggio afghano dov’è già stata più volte per i suoi reportage.

Si tratta di Dasht-e-Qaleh, piccolo paese nel nord dell’Afghanistan dove vive e opera Mamour Hasan, signore della guerra con il quale negli anni la giornalista belga ha instaurato un rapporto di confidenza e rispetto.

L’anziano uzbeko, protagonista della resistenza contro i sovietici prima e contro i talebani poi, governa il villaggio godendo – almeno in apparenza – dell’unanime consenso da parte degli abitanti.

Tuttavia, nota Bourgaux, qualcosa sta cambiando: i talebani, pur militarmente respinti, sono tornati a diffondere i loro proseliti tra la gente del villaggio, fino a irretire il figlio dello stesso Hasan.

Il motivo? A distanza di anni, l’intervento degli Stati Uniti e degli altri Paesi Nato – che nel 2001 Hasan aveva salutato come “liberatori” e da cui ora si sente preso in giro – mostra ormai tutti i suoi limiti, anche e soprattutto ai più giovani, che dalla cacciata dei talebani si aspettavano una svolta radicale per le sorti dell’Afghanistan.

Povertà, assenza di servizi e infrastrutture, isolamento delle comunità rurali e altri problemi ormai storicizzati continuano invece a flagellare il Paese, senza che gli aiuti internazionali – destinati prevalentemente alla capitale Kabul anche a causa delle sciagurate decisioni di governanti corrotti – possano incidere realmente sulla vita delle persone.

È così che il giovane Attah Ullah – e con lui molti altri – iniziano a sperare neanche troppo velatamente in un ritorno dei talebani. Riviste oggi, alla luce della disatrosa ritirata delle forze Nato, le dinamiche svelate dal reportage di Bourgaux risultano quanto mai illuminanti e profetiche.

L’idea di “esportare la democrazia”, per chi avesse ancora bisogno di prove, dimostra tutta la sua inconsistenza di fronte ai risultati dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan.

Dal punto di vista militare i talebani non sono mai stati completamente sconfitti, né l’operazione di innesto forzato può considerarsi riuscita sul piano sociale o istituzionale, anche perché le potenze occupanti si sono preoccupate soprattutto di tutelare i propri interessi economici e geopolitici.

Quello che più sorprende leggendo Tears of an afghan warlord è che questo esito si poteva prevedere già dieci anni fa, ponendosi attentamente in ascolto di un Paese che invece, molto in fretta, tutti quanti abbiamo dimenticato.