Speak, il coraggio di parlare

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9 Giugno 2020

Recensione del graphic novel tratto dal romanzo di Laurie Anderson

Nel 1999, Speak è stato un romanzo dirompente: discusso, censurato, infine premiato e utilizzato da tanti educatori.

Trasformato in un film indipendente da Jessica Sharzer nel 2004, a vent’anni dalla sua uscita Speak è diventato anche un graphic novel – pubblicato in Italia da Il Castoro – grazie ai disegni di Emily Carroll.

«Ho osservato con emozione la crescente fortuna dei graphic novel e mi sono domandata a lungo come adattare Speak in questa forma. Mi sembrava il format ideale per la storia di Melinda, ma solo nelle mani dell’artista giusto».

«Quell’artista è Emily Carrol».

Difficile non riportare le parole che Laurie Anderson, autrice del romanzo e della sceneggiatura per il graphic novel, affida alla postfazione. Perché davvero le tavole di Emily Carrol contribuiscono in modo determinante alla riuscita di questa trasposizione a fumetti.

L’immediatezza della realizzazione grafica e dell’adattamento testuale rendono questo graphic novel adatto a ogni età, ma la classificazione nel settore “letteratura per ragazzi” è piuttosto limitante, tanto per la complessità del tema trattato quanto per la profondità con cui viene affrontato.

Il racconto è basato sull’esperienza dell’autrice, vittima di violenza all’età di 13 anni. Ha la stessa età la protagonista Melinda Sordino, quando le accade qualcosa che fin dall’inizio del graphic novel è oggetto di un potente meccanismo di rimozione.

Nelle prime pagine, infatti, tutto quello che vediamo è una ragazza al primo anno di liceo, derisa e respinta da tutti per aver chiamato la polizia durante una festa nell’estate appena trascorsa.

Questo isolamento e l’angoscia dell’età adolescenziale, tuttavia, non bastano a spiegare i silenzi di Melinda, sempre più lunghi e apparentemente immotivati, mentre nessuno intorno a lei si preoccupa di capire cosa sia successo veramente quella sera.

Una pagina dopo l’altra, prima di tutto, l’atmosfera di tensione permanente che la ragazza si trova a vivere decostruisce prepotentemente il mito dell’high school americana tutta feste, spensieratezza e club sportivi.

C’è persino un professore di storia neanche troppo velatamente razzista, che consente all’autrice di affrontare tematiche più che mai attuali nei giorni delle proteste globali per la morte di George Floyd.

Ma il focus rimane sempre su Melinda e sulla sua esperienza traumatica, che diventa gradualmente il filtro attraverso cui passa ogni cosa, nonostante la causa rimanga ben nascosta in profondità.

Speak è soprattutto una rappresentazione vivida ed efficace dell’incapacità di elaborare il trauma, di dare un nome al buco nero che sembra divorare Melinda dall’interno senza che lei stessa riesca davvero a capire cosa le è successo.

La difficile situazione familiare certamente non aiuta la ragazza, ma più di tutto è l’ambiente sociale – in questo caso la scuola – a trasformarsi in una tortura giorno per giorno, ora per ora, con dinamiche addirittura prevedibili da chi le subisce, ma non per questo evitabili.

Le amicizie che vengono meno, quelle che si rivelano di cartapesta e la superficialità di tanti adulti scavano intorno a Melinda un fossato di solitudine e sofferenza impossibile da tollerare.

Lo stigma sociale si lega al trauma individuale, senza dare scampo alla protagonista. La sua è una fragilità assoluta, che diventa insostenibile in ogni situazione che le ricorda la violenza, fino a tramutarsi in una paura paralizzante di fronte al ragazzo che l’ha violentata.

Ma difficile più di tutto rimane la parola.

Noi stessi, trascinati nel vortice della sofferenza di Melinda, non mettiamo davvero a fuoco il suo trauma prima che sia lei stessa a raccontarcelo, nel momento in cui lo rivela alla sua (ex) migliore amica Rachel.

Tra l’altro, la motivazione che porta Melinda a parlare per la prima volta è la volontà di proteggere qualcun altro: a sé stessa, invece, la protagonista sembra non essere più in grado di riconoscere alcun valore.

A dare forza e valore a Melinda riescono invece l’arte, un professore più attento e sensibile degli altri, una compagna di classe che si interessa a lei, un altro che diventa fonte di coraggio e ispirazione.

La risalita mentale e qualla fisica sembrano coincidere man mano che Melinda riprende confidenza con il suo corpo, anche grazie all’attività sportiva. Ma la scelta non a caso ricade sul tennis, che non prevede contatti con altre persone.

Il ritorno di Melinda alla vita segue metaforicamente il ciclo delle stagioni, ma l’arrivo della primavera non basta a restituirle la parola. C’è un ultimo ostacolo da superare prima di poter dire, finalmente, «Ora posso parlare». Now I can speak.