Safe Havens

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15 Novembre 2018

Corridoi umanitari, la risposta alle stragi in mare e alla tratta di esseri umani

 

foto di Francesco Malavolta

Il 4 febbraio 2016, Falak e la sua famiglia sono atterrati a Fiumicino per evitare che la bambina a 7 anni perdesse la vista. Nel dicembre 2015, era stata operata per un tumore all’occhio in Libano, dove viveva in un garage con i genitori e il fratello dopo la fuga da Homs (Siria).

Dopo l’intervento doveva essere sottoposta alla chemioterapia e grazie alla Comunità di Sant’Egidio sono arrivati tutti in sicurezza con un aereo e la promessa delle cure mediche. Fino al settembre 2018, secondo l’UNHCR oltre 950mila siriani erano registrati in Libano e si calcola che dall’inizio dell’anno almeno 50mila siano rientrati nel paese di origine, incoraggiati dal governo libanese che lamenta l’impossibilità di fronteggiare un numero così elevato di rifugiati.

Nel 2017, si sono registrati 68.5 milioni di sfollati, con una media di una persona ogni due secondi e una maggiore incidenza nei paesi in via di sviluppo. Rispetto al 2016, 2.9 milioni di persone in più sono state costrette ad abbandonare il proprio paese: secondo l’UNHCR si tratta del dato più alto mai riportato in un solo anno. Inoltre, la maggior parte degli sfollati, circa 40 milioni, erano sfollati all’interno del proprio paese.

Benché la migrazione faccia parte della storia stessa dell’umanità, negli ultimi anni ha assunto proporzioni enormi a causa dell’aumento dei conflitti a livello globale che si aggiungono a crisi non risolte e recrudescenze in varie aree del pianeta. Attualmente, sono in corso gravissime crisi umanitarie: l’Europa, ad esempio, sta di fatto vivendo la crisi più grave dal Secondo Dopoguerra col più alto numero di sfollati mai registrati ma è del tutto incapace di trovare soluzioni umane ed efficaci alla questione.

Le ragioni che spingono alla migrazione sono moltissime e non si limitano alla violenza armata: si fugge da persecuzioni, marginalizzazioni, discriminazioni di varia natura e cambiamento climatico.

Proprio quest’ultimo è direttamente o indirettamente responsabile di un numero crescente di sfollati che lasciano povertà estrema, siccità, carestie o catastrofi naturali. Nonostante l’espressione “rifugiati ambientali” sia comparsa per la primissima volta già nel 1985, non è stata trovata nessuna tutela specifica per queste persone.

I tragici effetti del cambiamento climatico sono visibili ovunque e nel continente africano aggravano una situazione di instabilità diffusa. Inoltre, l’uccisione di Gheddafi nel 2011 ha segnato un ulteriore punto di svolta in Libia che per anni aveva rappresentato la meta di molti migranti in cerca di migliori opportunità lavorative.

Prima della caduta di Gheddafi, infatti, la Libia era il paese che nella regione accoglieva il maggior numero di migranti e i cosiddetti migranti economici costituivano la fetta più grande fra gli stranieri presenti nel paese, mentre quelli in transito erano una minoranza. In seguito alla sua caduta la situazione si è capovolta: in assenza di un governo centrale stabile, gruppi di milizie armate hanno iniziato a controllare varie aree del paese, creando il caos.

Coloro che ci vivevano si sono quindi trovati intrappolati in un paese allo sbando senza possibilità di rientrare nel luogo di provenienza. L’unica alternativa era pagare dei trafficanti per imbarcarsi e affrontare la traversata del Mediterraneo nella speranza di toccare terra vivi.

Anche in Medio-Oriente la situazione non ha fatto altro che peggiorare: il conflitto siriano va avanti da sette anni senza nessuna soluzione in vista, lo Yemen è devastato da cinque anni di guerra che insieme a colera e malnutrizione ha colpito la popolazione civile in modo irreversibile, l’Afghanistan continua a generare flussi di migranti diretti verso l’Europa che talvolta lo vede come un “paese terzo sicuro”.

L’assenza di alternative sicure e legali ha avuto come uniche conseguenze il moltiplicarsi delle reti della tratta di esseri umani e l’aumento delle morti lungo le rotte migratorie via mare e via terra.

Negli ultimi anni, la rotta mediterranea ha conquistato il triste primato di rotta migratoria più letale al mondo a causa dell’elevatissimo numero di decessi e sparizioni registrate. Stando ai dati del progetto Missing Migrants, su 2806 migranti morti a livello mondiale fino al 13 ottobre 2018, 1783 sono morti sulla rotta del Mediterraneo dove nel 2016 si è toccato il record di oltre 5mila decessi.

In altri casi, invece, come per la rotta delle Andamane usata principalmente dalla minoranza apolide e musulmana dei Rohingya -storicamente perseguitata in Myanmar- è ad oggi impossibile stimare con certezza il numero dei decessi che si sospettano ben più alti del tasso di mortalità stimato intorno all’1.2% (dati OIM). Ai dati ufficiali, si devono aggiungere i decessi di cui non si sa nulla, ma che avvengono nel corso dei viaggi via terra.

Inoltre, chi percorre le rotte migratorie è sempre più esposto a violenze, estorsioni, schiavitù e abusi sessuali, lavoro forzato, detenzioni arbitrarie e trattamenti degradanti. In Libia in particolare negli ultimi anni c’è stata una escalation senza precedenti di violenze.

A farne le spese sono soprattutto donne e bambini che costituiscono i gruppi più vulnerabili, specialmente quando viaggiano da soli, e in base a questa vulnerabilità sarebbero i primi a beneficiare dell’apertura di canali umanitari per consentire loro di raggiungere un luogo sicuro senza rischiare la vita.

Le radici storiche dei corridoi umanitari, intesi come canali sicuri e legali per evacuare da zone di guerra gruppi vulnerabili di persone e portarle al sicuro, risalgono alla nozione di “aree sicure” (letteralmente “safe zones” e “safe havens”) create durante gli anni 90 durante le guerre balcaniche e la guerra del Golfo.

Nel 1993, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite espresse grande preoccupazione per la situazione di violenza diffusa nei villaggi situati nella regione orientale di Bosnia e Erzegovina e dovuta alla presenza di truppe paramilitari. In ottemperanza al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite “Azioni rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione”, il CdS varò una risoluzione per creare “un’area sicura al riparo da attacchi armati o ostilità” a Sebrenica e nell’area circostante.

Inoltre, “qualsiasi presa o acquisizione di territori tramite il ricorso a minacce o atti di forza va considerato illegittimo e inaccettabile” (S/RES/819; 1993)[1]. Tuttavia, nessuna delle misure adottate si rivelò in grado di tutelare la popolazione civile che, al contrario, si trovò interamente concentrata in un’area che fu facilmente attaccata: in pochi giorni circa 8000 uomini e ragazzi furono massacrati, mentre donne e ragazze furono vittime di stupri.

Visti i risultati negativi, Karin Landgren[2] (UNHCR Division of International Protection) nel 1996 sottolineò la discrepanza fra teoria e pratica, scrivendo che nonostante “il nocciolo della questione sia la creazione di un luogo neutrale e privo di atti belligeranti all’interno del territorio contestato in cui sia garantito l’accesso alle organizzazioni umanitarie”, di fatto non c’è nessun accordo fra le parti e ciò provoca inevitabili violazioni. Simili insuccessi si sono ripetuti in Iraq dopo la Guerra del Golfo e la creazione nella parte settentrionale del paese di una “safe area” che ospitasse la minoranza curda e che fu percepita come “uno strumento punitivo e fazioso” [3].

Nel maggio 2017, in seguito alla proposta di creare delle “de-escalation zones” in Siria, furono avanzate le medesime preoccupazioni in merito alla loro sicurezza e il piano rimase in stand-by per un certo periodo. Lo stesso giorno in cui vennero istituite[4] queste aree nella provincia di Hama[5] vennero attaccate dai ribelli che non riconobbero l’accordo e le misure in esso contenute. Va anche tenuto presente che la creazione di aree sicure presuppone come requisito essenziale la presenza di risorse alimentari, acqua potabile e servizi igienici che, ad esempio, la guerra in Siria ha compromesso quasi ovunque.

Da un punto di vista giuridico, il concetto di zone sicure rimanda alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai Protocolli seguenti che sanciscono l’assoluta necessità di proteggere la popolazione civile durante i conflitti, ma “se non ci sono adeguate misure di salvaguardia, la sicurezza è pura illusione e le aree sicure possono essere deliberatamente messe sotto attacco.

Inoltre, possono esserci pressioni affinché le organizzazioni umanitarie collaborino con le forze militari che ne controllano l’accesso così da compromettere i principi di neutralità, imparzialità e indipendenza”[6].  Di fatto, queste aree hanno le stesse criticità dei campi per rifugiati e sfollati: il livello di sicurezza è talmente basso da non poterci fare alcun affidamento.

Fallita anche l’ipotesi di poter confinare i civili in aree specifiche e non belligeranti, l’unica soluzione rimane l’evacuazione dalle zone a rischio ricorrendo a canali sicuri e legali che risponderebbero a varie esigenze: sradicamento delle reti della tratta di esseri umani, fine dei viaggi mortali per mettersi in salvo, selezione a priori dei beneficiari sulla base del criterio della vulnerabilità, migliori chance di integrazione nel paese di arrivo che sarebbe responsabile della decisione ultima in merito allo status da accordare ai nuovi arrivati.

In breve, i corridoi umanitari sono la scelta più efficace per rispondere alle preoccupazioni relative alla sicurezza sia dei paesi ospitanti che delle persone interessate e agevolerebbero il percorso di integrazione con la partecipazione attiva della società civile.

*Nel dicembre 2017 ho discusso una tesi sui corridoi umanitari come alternativa sicura e legale ai mortali viaggi via mare. Invece di farla scivolare nel dimenticatoio, ho deciso di riprenderla, aggiornarla, espanderla e modificarla per renderla fruibile. L’obiettivo è sottolineare che gli strumenti per mettere al sicuro le persone esistono e, quando applicati, danno ottimi risultati. Di fronte alla più grande crisi di sfollati su scala mondiale, l’umanità si sta chiudendo dentro soffocanti egoismi, ripiegando su un razzismo intollerabile. Rifugiati, richiedenti asilo, semplicemente donne e uomini in cammino in cerca di ciò che chi li respinge dà per scontato: pace, futuro, libertà. Il progetto parte da considerazioni sui flussi migratori a livello globale per concentrarsi su alcune delle conseguenze peggiori della migrazione forzata fuori controllo fra cui matrimoni e gravidanze precoci, assenza di istruzione o cure mediche, reti criminali in espansione. A partire dalle cosiddette “aree sicure” e dalla Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato, si arriverà agli esempi più attuali di corridoi umanitari da quelli gestiti da Sant’Egidio ai programmi del governo canadese. Si tratta di un viaggio circolare che inizia e finisce con l’idea che “In origine, nessuno vantava più diritti di altri su una parte del pianeta” (Kant, Terzo Articolo Definitivo sulla Pace Perpetua).

NOTE
[1] https://www.icrc.org/en/document/geneva-conventions-1949-additional-protocols

[2] K. LANDGREN, Refugees Magazine Issue 103 (IDPs) – Danger: safe areas, UNHCR, 1 March 1996 (http://www.unhcr.org/publications/refugeemag/3b5547d64/refugees-magazine-issue-103-idps-danger-safe-areas.html)

[3]  K. LANDGREN, Refugees Magazine Issue 103 (IDPs) – Danger: safe areas, UNHCR, 1 March 1996 (http://www.unhcr.org/publications/refugeemag/3b5547d64/refugees-magazine-issue-103-idps-danger-safe-areas.html)

[4] http://www.aljazeera.com/news/2017/05/russia-syrian-safe-zones-plan-takes-effect-midnight-170505185444598.html

[5] https://www.theguardian.com/world/2017/may/06/syria-safe-zones-hit-by-clashes-on-first-day

[6] https://www.hrw.org/news/2017/03/16/q-safe-zones-and-armed-conflict-syria