Tra etica e finanza

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13 Febbraio 2021

Interrogarsi su come operano gli istituti bancari e finanziari è importante per sapere orientare le proprie scelte – 2^ parte

Seconda puntata del viaggio su principî e meccanismi della finanza etica e dell’impact investing. La prima puntata è disponibile qui.

 

Stefano Barazzetta è un ingegnere ambientale, e dopo un’esperienza in una ONG in Sri Lanka ai tempi dello tzunami, approda al mondo della finanza, occupandosi principalmente di investimenti nel settore delle energie rinnovabili per conto di un fondo di investimento.

La sua intuizione è proprio quella che il mondo della finanza potesse essere – e dovremmo dire, debba essere –  intimamente legato al mondo dello sviluppo. Così dopo un MBA, inizia a lavorare per Opes, una Fondazione che si occupa di impact investment in paesi dell’Africa orientale, un piccolo fondo che investe in piccole e medie imprese africane, in particolare in Kenia, Tanzania e Uganda.

Successivamente la sua esperienza lo porta a lavorare per a|cube, un incubatore che organizza focus di innovazione sociale e ambientale, la cui idea era proprio quella di far partire un fondo di investimento che investisse in imprese ad alto impatto sociale in Italia (fondo poi partito, chiamato a|impact e finanziato proprio da Banca Etica).

Attualmente Stefano lavora come consulente per le Nazioni Unite, e in particolare per UNCDF, un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa in maniera specifica di investimenti in imprese che operano in paesi in via di sviluppo, dunque “impact investing”.

Come già Simone aveva avuto modo di sottolineare e come Stefano ricorda, dire “impact investing” può voler dire tutto o niente, è attualmente un megatrend, spinto molto anche dalla finanza tradizionale per ragioni spesso più di marketing che di reale applicazione.

Occorre dunque fare attenzione a quanto ci sia veramente di “impact” e quanto invece sia solo “impact washing”, cercando di dare un taglio di “impatto” a investimenti che magari ne hanno poco tramite questi asset marginali per i grandi finanziatori. Rimane certamente il dato di fatto che sia aumentata la curiosità da parte del mondo della finanza mainstream per questi temi, e le ragioni non sono solo di marketing e comunicazione, ma anche l’eccesso di liquidità nei mercati.

UNCDF è un fondo di sviluppo delle Nazioni Unite il cui motto è making finance work for the poor. L’obiettivo è avere un ruolo catalizzatore; ci sono infatti paesi e settori nei quali gli investitori privati non investono i propri soldi perché rischioso e difficile. UNDF fa quindi “in avanscoperta”, facendo prima gli investimenti restando denaro a queste aziende, con l’idea di mostrare che anche in quei mercati si possono fare gli investimenti che rendono e che creano un impatto positivo.

A questo punto, una volta dimostrato che l’azienda è in grado di sostenere il prestito e restituirlo, essa può risultare appetibile anche per altri investitori. UNCDF si prende in carico il cosiddetto derisking con capitali propri. Gli investimenti sulle aziende non superano i 2-300.000 dollari ad azienda.

Proprio in questi giorni sta nascendo un nuovo progetto, ovvero la creazione di un fondo di investimento vero e proprio, nel quale asset manager tradizionali [gestori di portafoglio, NDR] investiranno i propri soldi. UNCDF metterà a disposizione la sua expertise, i suoi tecnici e le persone che conoscono i diversi paesi e vanno ad analizzare le aziende da finanziare, mentre gli investitori metteranno il capitale finanziaria. Il messaggio è interessante, “voi ci date i soldi, noi li investiamo e vi garantiamo ritorno finanziario e impatto sociale”.

Dal punto di vista tecnico, la creazione di questo fondo di investimento ha visto il reclutamento da parte di UNCDF di una società di gestione del risparmio che potesse cercare investitori. Ciò che cambierà con l’istituzione del fondo sarà la possibilità non solo di poter garantire prestiti più elevati alle imprese, arrivando a circa 2-3 milioni di dollari di prestito, ma anche la possibilità di seguire le aziende più strutturate con prestiti nel tempo.

I settori principali di investimento da parte di UNCDF, come racconta Stefano Barazzetta, sono principalmente quattro: l’accesso all’energia (con priorità per le rinnovabili), l’agricoltura, il settore fintech e la municipal finance (volta a progetti di sviluppo di natura infrastrutturale a livello locale).

Il principale settore di investimento è certamente quello dell’energia. Specialmente in Africa subsahariana, sono molto utili e utilizzati gli small solar systems, piccoli sistemi fotovoltaici che si possono facilmente mettere in casa, a batteria o a pannelli solari, associati a meccanismi di pagamento cosiddetto PAYGO.

Essi funzionano a ricarica come i telefonini, ovvero l’utente paga e accede all’energia che gli serve; il fatto che gli utenti non acquistino direttamente il sistema, ma lo paghino solo con l’attivazione di volta in volta, comporta il fatto che le aziende produttrici debbano fare una sorta di finanziamento e spesso necessitino di liquidità nell’immediato, oltre che di prestiti. Questa è una delle ragioni per le quali proprio il settore energetico sia tra i più finanziati.

Il meccanismo di ricarica dei sistemi solari funziona tramite una rete GSM, un segno delle potenzialità dell’Africa subsahariana dal punto di vista della finanza digitale. Ultimamente sta si sta facendo strada anche il “PAYGO gas”, che applica lo stesso meccanismo di ricarica per i fornelletti a gas.

Altro settore di grande interesse è il fintech per il credito al consumo. La popolazione, avendo difficilmente accesso alle banche, è spesso molto “digitalizzata”; esistono inoltre una serie di aziende che si occupano proprio di vendere ogni possibile bene di consumo nei villaggi più sperduti, con pagamenti digitalizzati. Finanziare queste aziende di credito al consumo è tra i settori maggiormente consolidati, probabilmente anche appetibili in futuro per la finanza tradizionale.

Ma come vengono scelte le aziende da finanziare da parte di UNCDF?

Stefano mi racconta di come vengano aperti veri e propri vertical funds per specifici settori, in modo da individuare tutte le aziende su un territorio che si occupano di un settore e che sono interessate a ricevere un finanziamento. Successivamente si apre un colloquio con le varie aziende, cercando di capire cosa fanno e che necessità hanno.

Il lavoro di analisi necessario a comprendere se un’azienda abbia la capacità non solo di restituire il prestito, ma anche un impatto sociale, è complesso e molto costoso. Questa è una delle ragioni per cui è cosi difficile che investitori comuni diano prestiti a questo tipo di imprese. UNCDF può permettersi di fare questa operazione in perdita in quanto parte della sua mission, ma chiaramente ciò è raramente possibile per un investitore.

UNCDF non offre equity (ovvero non compra quote societarie) ma solo prestiti. Il metodo di scelta delle aziende finanziate si basa pertanto in maniera prioritaria sullo studio del bilancio delle aziende, per capire principalemente se siano in grado di ripagarlo. Si analizzano quindi il settore, i progetti per il futuro, il team, il management, cercando di capire se le prospettive di investimento.

Anche dal lato dell’azienda, essere sottoposta a una “due diligence” implica l’inizio di un percorso di analisi interna e un investimento in tempo. Al di là della capacità finanziaria, si tenta inoltre un’analisi di impatto, per quanto definire l’impatto di un’azienda sia molto complesso, difficile da definire e misurare.

Fare uno studio di impatto infatti non solo ha dei costi  altissimi, ma comporta l’utilizzo di parametri che per ovvie ragioni dovrebbero cambiare da territorio a territorio e a seconda delle aziende.

Si sceglie spesso quindi di  individuare per ogni azienda un quadro di indicatori di impatto che poi vengono monitorati nel tempo. La difficoltà di UNCDF a reperire informazioni e costruire indicatori di impatto per le aziende origina dal fatto che queste non sono quotate in borsa – in cui i parametri sono già raccolti. In molti casi, infatti, si tratta di aziende che non hanno capacità di raccogliere i dati necessari, che presentano bilanci spesso non redatti “a regola d’arte”. Tra gli indicatori presi in esame vi sono anche le condizioni lavorative, anch’esse difficili da monitorare nel quotidiano.

Stefano mi racconta inoltre di come uno dei grandi temi sul finanziamento riguardi la decisione in merito agli investimenti su aziende di imprenditori espatriati. Anche in questo caso, se da una parte è certamente più semplice lavorare con gli expat, dall’altra è sempre difficile valutare quanto l’imprenditore straniero possa rimanere sul territorio, quanto valore aggiunto produca nel tempo, e soprattutto in che rapporti l’imprenditorialità straniera si colloca con il governo dei singoli paesi.

Altrettanto controverso è il tema del finanziamento per agevolare l’accesso all’acqua, alla sanità, all’istruzione. Si tratta di temi etici e dal profondo risvolto  politico ed economico con i quali l’impact investing deve confrontarsi.

Come già detto in precedenza, il prestito viene erogato una sola volta, poiché la finalità è quella di  dimostrare che l’azienda funzioni e che possa dunque ripagare i prestiti, al fine di consentirle di essere finanziabile in futuro. I tassi di interesse applicati sono inferiori ai tassi altissimi che vengono richiesti da alcune banche (in Uganda ad esempio si parla di un tasso medio delle banche che può arrivare anche al 18%), ma si tratta comunque di tassi di interesse in conformità col mercato, proprio per confermare la sostenibilità finanziaria del prestito, magari chiedendo meno garanzie.

È ancora molto presto per valutare se questi tipi di finanziamenti saranno utili per creare nuove aziende oppure sostenere le aziende esistenti, dando loro le risorse necessarie per poter successivamente collocarsi nel mercato autonomamente. Non c’è ancora uno storico per capire come questo trend si delinerà.

Ciò che risulta però chiaro è una rinnovata curiosità e attenzione al settore, da parte di investitori tradizionalmente attenti, come investitori impact o investitori istituzionali (si pensi in particolar modo ai paesi nordici, in cui molti fondi di agenzie governative di sviluppo investono già in questi settori), ma anche da parte di nuovi investitori