Dispacci dalla frontiera

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12 Luglio 2019

Intervista a Francisco Cantù, che ha lavorato nella Border Patrol al confine tra gli Stati Uniti e il Messico e ora racconta la sua esperienza in un libro

Quando aveva 22 anni (oggi ne ha 34) decise di entrare nella Border Patrol, la polizia che controlla la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico. Non accadde per caso. Perché Francisco Cantù, di origini (anche) messicane, ma cresciuto da statunitense, ha sempre sentito forte il richiamo della frontiera. E dopo aver pattugliato il confine per quattro anni – esperienza che lo ha segnato più di quanto immaginasse (sebbene sua madre lo mettesse continuamente in guardia dai rischi emotivi che correva) – si è iscritto all’università per approfondire le tematiche legate alla migrazione e ha scritto un libro potente su ciò che accade lungo il confine meridionale degli Usa. Un testo in cui intreccia esperienza personale, ricordi di famiglia, riflessioni sull’identità e sul concetto stesso di confine. Si intitola Solo un fiume a separarci – Dispacci dalla frontiera, è tradotto da Fabrizio Coppola e pubblicato da Minimum Fax (euro 16).

Dichiari spesso di esserti sempre sentito attratto da quello che chiami il “panorama culturale” della frontiera. Come mai?

Sono cresciuto in Arizona, a circa 5 ore dal confine: abbastanza lontano perché esso non fosse un pensiero costante (come accade dove abito oggi, a Tucson, che dista meno di un’ora), ma abbastanza vicino perché non si trattasse di un concetto astratto. Inoltre mia madre era una ranger e il suo lavoro mi ha portato spesso, da ragazzino, a vivere vicino al deserto ed entrare in contatto con le storie degli immigrati messicani e dei nativi americani. Ho iniziato a comprendere che la narrazione mediatica del confine non rispecchiava del tutto la realtà con cui venivo a contatto ogni giorno. E questo mi ha incuriosito.

Ma cos’è esattamente il “panorama culturale” di una frontiera?

Sono i nomi delle strade, dei fiumi, delle montagne, le storie che appartengono a quel luogo, che vi vengono narrate. Anche se oggi la cultura bianca nordamericana cerca di dominare la frontiera con il Messico, sostituendosi a quella locale, quest’ultima è incisa nel territorio, nel panorama. Non si può cancellare, fa parte dell’inconscio collettivo.

Mi fai venire in mente la sorpresa che provai, la prima volta che visitai Los Angeles, nel verificare che strade principali della città avevano nomi come La Cienega, parola che in spagnolo significa “palude”…

Esatto: quel nome indica che lì, prima che vi fosse costruito un boulevard, c’era altro, c’erano persone che vi abitavano. Il fatto stesso che il nome Los Angeles – spagnolo – si costantemente abbreviato in L.A. è un tentativo di americanizzarlo. Ma più si studia la storia, più si acquisisce la nozione della reale complessità della frontiera.

Quanto hanno influito le tue vicende familiari nelle scelte che hai fatto, dal lavorare per la Border Patrol fino alla scrittura di questo libro?

Credo che la famiglia ci condizioni sempre, magari inconsapevolmente. Mio nonno materno veniva dal Messico, ma lui e mia nonna – che invece era statunitense – si sono separati quando mia madre era piccola e lei non solo è stata tenuta a distanza dalle sue origini messicane, ma è stata indotta a vergognarsene. Finché, da adulta, se n’è riappropriata. Per quanto riguarda me, mio padre era un bambino quando è arrivato e quindi il viaggio non l’ha segnato. In ogni caso, anche i miei si sono separati presto e io sono cresciuto senza legami particolari con il Messico. Però il mio nome parlava chiaro, così alle superiori ho deciso che era arrivato il momento di imparare lo spagnolo.

Leggendo il tuo libro mi hanno colpito alcune similitudini tra la frontiera messicana e quella mediterranea. Tu racconti di come il deserto venga usato, da decenni, come un’arma naturale contro la migrazione, in quella che viene chiamata la politica della “prevenzione attraverso la deterrenza”. Ovvero: tenendo sotto stretto controllo le zone urbane di confine, si lascia come unica via quella – ostile – del deserto, immaginando che costituisca un deterrente all’attraversamento. In Italia si sta delineando una strada simile: chiudere i porti e rendere più difficili gli sbarchi, auspicando che questo faccia diminuire le partenze. Ha funzionato negli Usa?

No, la politica della deterrenza non funziona: gli attraversamenti continuano. Ma poiché avvengono in zone sempre più pericolose e remote, aumentano i decessi. Ciò che mi inorridisce del parallelo con il Mediterraneo è che le probabilità di morte durante una traversata in mare sono maggiori, dato che sull’acqua non si può camminare. Quindi, se anche il numero delle partenze in barca dovesse diminuire, non scenderà quello delle vittime. E il peggio è che – l’ho visto succedere negli Usa – l’attenzione dell’opinione pubblica potrebbe invece scemare.

In un’intervista hai dichiarato: “Le persone continueranno ad attraversare il deserto, per quanto si possa rendere il loro viaggio infernale”. Perché lo fanno, secondo te? Molti di coloro che lasciano il Messico, come tanti migranti che partono dall’Africa per arrivare in Italia, non fuggono la povertà estrema: semplicemente cercano un’esistenza migliore. Basta, per rischiare la vita?

È vero che a partire dal Messico sono quasi sempre persone che appartengono alla fascia bassa della classe media e hanno abbastanza denaro per pagare un trafficante. Ma ultimamente è aumentato tantissimo il numero dei richiedenti asilo che lasciano Paesi dell’America Centrale come Guatemala, El Salvador e Honduras per sfuggire alla violenza delle gang e dei cartelli della droga. In ogni caso, che una persona abbia la consapevolezza di dover convivere – restando nel proprio Paese – con una violenza diffusa, o che desideri progredire economicamente, l’idea del tutto astratta di un viaggio pericoloso non riuscirà mai a fermarla. Dobbiamo inoltre ricordare che i Paesi occidentali – in generale, ma soprattutto gli Usa con Hollywood e il sogno americano – hanno diffuso una narrazione mitologica del proprio stile di vita, che da molto tempo attrae migranti. Ed è troppo tardi per pensare di spegnere l’interruttore e dire: il mito è nostro, non vogliamo più condividerlo con il mondo.

In effetti, se pensiamo che nei Paesi africani sotto dominio coloniale a scuola si studiavano la storia, la cultura e la lingua dei colonizzatori appare chiaro come anche il mito dell’Europa sia stato ben nutrito…

L’intera struttura del colonialismo è costituita dall’idea che la cultura di un popolo sia superiore a quella di un altro, il quale – proprio a causa della sua inferiorità – deve essere sottomesso. Il colonialismo è finito, ma il sogno europeo è sopravvissuto. E gli ex colonizzati desiderano, finalmente, prendervi parte. Come? Emigrando.

 

Questo libro ti è servito per rielaborare emotivamente la tua esperienza nella Border Patrol?

Mentre lo scrivevo molti mi domandavano se non soffrissi di stress post traumatico, patologia di cui si è iniziato a parlare diffusamente dopo il rientro dei soldati dall’Iraq. A me non sembrava, però informandomi sull’argomento sono incappato nel concetto di “ferita morale”: una condizione che non scatena risposte fisiche a sollecitazioni come luci o rumori improvvisi, ma è caratterizzata da una sofferenza più sottile, con incubi ricorrenti e dubbi esistenziali. Era quello che stava succedendo a me, come conseguenza della violenza che avevo sperimentato durante quei quattro anni. Sì, scrivere mi è servito per portare alla luce ciò che avevo vissuto, capirlo e superarlo. In seguito ho iniziato a interrogarmi su come le “ferite morali” possano riguardare non solo un individuo, ma tanti. Che si tratti di una cittadina come Ciudad Juarez o di un’intera Nazione, ci sono avvenimenti che si depositano nell’inconscio di tutti.

Non a caso scrivi: “Il numero dei decessi sul confine, come quello degli omicidi di narcoguerra, o quello delle vittime della Rivoluzione messicana e della guerra d’indipendenza, non dice nulla del modo in cui la violenza attraversa e squassa una società, la vita e la mente dei suoi membri”.

Quando una società è attraversata da periodi di estrema violenza c’è l’idea – consapevole o meno – che escludendola dal dibattito pubblico se ne possano minimizzare gli effetti. È successo anche in Europa. Lo scrittore tedesco W. G. Sebald racconta di come il dramma degli abitanti di città come Dresda e Amburgo, bombardate dagli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, sia stato ignorato dai libri di scuola: dato la Germania aveva perpetrato l’Olocausto e perso la guerra, era meglio non parlarne. Queste memorie, però, rimanevano sepolte ai margini della coscienza collettiva. Lo stesso avviene con la migrazione. Chi ha affrontato il viaggio non ne parla mai in famiglia: tace sugli abusi subìti. La frontiera diventa quella zona dove è necessario sopportare di tutto pur di arrivare dall’altra parte. Ma quanto influisce questa memoria rimossa su una persona, una famiglia, un popolo?

Tu pensi che la violenza scritta nella storia del Messico influenzi la scelta di lasciare il Paese?

Non intendo dire questo. Nel Primo Mondo parliamo di migrazione come se interi popoli stessero bussando alle nostre porte. La verità è che la maggior parte delle persone resta a casa propria, in Messico o altrove. Convive con la violenza e, quando la subisce, cerca di superarla senza guardarsi indietro. La violenza non appartiene a una cultura più che a un’altra, fa parte della natura umana. Il motivo per cui la storia si ripete è che non abbiamo ancora trovato un modo per gestirla. Nel passaggio che hai citato, in cui faccio riferimento ai tanti morti della storia messicana, intendo sottolineare quanto sia importante portare alla luce questa violenza al fine di gestirla e, magari, eliminarla. Il mio libro vuole essere anche una preghiera affinché su scala nazionale – da un lato e dall’altro della frontiera – si parli di quanto accade.

Hai citato Ciudad Juarez, località dove il tasso di violenza è elevatissimo e negli anni Novanta furono uccise migliaia di donne. So che non è una domanda semplice, ma da dove ha origine tanta ferocia?

È dalla fine dell’Ottocento che quanto accade alla frontiera sembra non riguardare nessuno, non esigere soluzioni. Si tratta di aree ignorate dal potere centrale, che esso si trovi a Washington o a Mexico City. Da sempre il pensiero implicito è: “Non ci si può aspettare altro da una zona dove due Stati si incontrano. Ciò che avviene lì non ci definisce, né come statunitensi, né come messicani”. Quando il tasso di omicidi ha iniziato ad aumentare, gli abitanti dell’una e dell’altra Nazione si sono posti meno domande e hanno fatto meno richieste alle rispettive autorità, di quanto non avrebbero fatto se gli stessi avvenimenti si fossero svolti altrove. Susan Sontag parla di questo genere di fenomeno nel libro Davanti al dolore degli altri. Racconta di un gruppo di donne che, durante la guerra dei Balcani, viveva in una cittadina fuori dalla Bosnia e ogni sera ascoltava notizie riguardanti la distruzione di villaggi che si trovavano prima a 100, poi a 50 chilometri di distanza: e sempre come se la faccenda non le riguardasse, perché accadeva “da un’altra parte”. Allo stesso modo, la cultura dominante ha fatto sì che la frontiera tra Stati Uniti e Messico venisse considerata un luogo fuori dalla realtà. Le persone che ci vivono (e ci muoiono) sono state deumanizzate, in modo che nessuno fosse ritenuto responsabile della loro sorte. La scomparsa di migliaia di donne a Juarez è stata sminuita dai governi di entrambe le Nazioni con frasi tipo: “Erano solo prostitute” oppure “Uscivano troppo la sera, andavano nei locali sbagliati”. Questo ha consentito di non avviare indagini serie. Lo stesso avviene con i migranti. La conseguenza è che, da decenni, le organizzazioni criminali sentono di avere la totale impunità. Per questo occorre accendere i riflettori sulla frontiera: perché quanto avviene lì riguarda tutti. E qualcuno deve assumersene la responsabilità: a nord come a sud del Rio Grande.

In che modo la politica di Trump è davvero diversa e peggiore di quella dei suoi predecessori?

La sua retorica è solo più evidente. È una versione più urlata, più messa a nudo, delle precedenti. Molte persone si stanno interessando alla frontiera solo perché il Presidente ne parla di continuo ed è ossessionato dal muro. Ma se gli stessi americani avessero guardato verso sud qualche anno fa, avrebbero osservato politiche e ingiustizie simili. Obama ha deportato più persone di ogni presidente prima di lui. E le barriere hanno iniziato a essere costruite con Clinton, che era un democratico.

Perché i media non ne parlavano?

Diciamo che con Trump è diventato impossibile ignorare la questione. Certamente i media avrebbero potuto indignarsi anche prima: credo non lo abbiano fatto per ignoranza e sostanziale disinteresse. Oggi siamo tutti così oltraggiati dalle parole del Presidente che siamo costretti a occuparcene. La situazione con lui è peggiorata, ma è in linea con quanto iniziato da chi lo ha preceduto.

Verso la fine del libro ricordi di aver nuotato nel Rio Grande, fiume che segna il confine naturale tra Usa e Messico. Scrivi: “Per un breve istante dimenticai in che nazione mi trovassi. Intorno a me, il paesaggio vibrava e respirava come una cosa sola”. Mi è sembrata un’immagine bellissima per ricordare che le frontiere sono artificiali: esistono perché imposte dall’uomo.

È una riflessione che ho fatto anch’io quando ho scelto il titolo del libro. Oggi negli Usa quando pensiamo alla frontiera abbiamo in mente un muro, una barriera, un segno sulla sabbia: ma per metà, il confine tra i due Paesi è tracciato da questo fiume. Ho lavorato per quattro anni in un contesto, quello della Border Patrol, in cui tutti gli sforzi erano concentrati a proteggere una linea nel deserto. Poi però c’è questo fiume, che è esso stesso confine, in cui puoi immergere i piedi, nuotare. Puoi entrare e uscire dai suoi canyon. Esistono tantissimi angoli remoti, senza barriere né telecamere, dove si cammina liberamente e dopo mezz’ora non si sa più in quale Paese ci si trova. Chi non prova questa meravigliosa esperienza concepisce la frontiera solo come un’imposizione. Ma essa è anche un luogo naturale, che si può attraversare in piena libertà. E senza nemmeno averne consapevolezza.

(Per approfondire il tema della migrazione al confine tra il Messico e gli Stati Uniti: Cercare la speranza, trovare la morte di Mauro Morbello, su Q Code Magazine).