Con Il Grande Re di Cecilia Fasciani, il lavoro inedito scelto nel 2022 dalle giurie dei pitching di Meglio di un romanzo per essere sviluppato sul sito di Festivaletteratura e sulla rivista Q Code Magazine, navigheremo lungo il corso del Po fino alla tarda primavera del 2023, attraversando quattro regioni italiane alla scoperta delle realtà che vivono oggi sugli argini del grande fiume. Sarà un viaggio in cinque puntate, dalle terre alte al delta, tra memorie d’acqua, crisi ambientali e storie di adattamento. Dopo aver raccontato l’attività dell’Alpine Stream Research Center ai piedi del Monviso ((leggi qui la prima puntata), oggi seguiamo il corso del Po fino alla pianura piacentina, dove vengono condotti studi sull’agricoltura di altissimo livello scientifico presso i laboratori del CREA, un centro di ricerca Genomica e bioinformatica che rappresenta un’eccellenza nello studio dei cambiamenti climatici in rapporto alla genetica delle piante.


L’ADATTAMENTO
di Cecilia Fasciani

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Nella pianura piacentina, a una quindicina di chilometri dalla riva destra del grande fiume, si trovano dei fabbricati biancastri degli anni Novanta posti tra dei campi coltivati distanti dalle zone abitate, come un’isola di cemento in mezzo a un mare di terra scura. La struttura è modesta, composta da tanti laboratori, serre e uffici: chi si trova a passare lungo la strada, vicino Fiorenzuola d’Arda, non noterebbe nulla di particolare, essendo un’area produttiva dove di campi, capannoni e vecchi edifici ce ne sono in abbondanza. L’orizzonte è una linea retta che corre tra il marroncino delle coltivazioni e il cielo azzurro, interrotta qui e lì da altri edifici isolati o qualche traliccio. A soli sessanta metri sopra il livello del mare, le montagne occitane sono lontane, e il Po da fiume alpino si è trasformato in un enorme corso d’acqua che attraversa lentamente la Pianura Padana, graffiato da numerosi ponti autostradali e veicoli che lo attraversano a gran velocità senza prestarci troppa attenzione.

Per avere accesso a quelle costruzioni bisogna percorrere una stretta strada che serpeggia in mezzo ai campi e conduce ad un basso cancello rosso. È qui che si trova il CREA, il Centro di ricerca Genomica e bioinformatica, dove si portano avanti studi sull’agricoltura di altissimo livello scientifico, che ruotano attorno al genoma delle piante coltivate e la sua interazione con l’ambiente, al fine di comprendere i meccanismi molecolari che possono determinare lo sviluppo e la qualità delle piante, e quindi dei prodotti di origine vegetale che arrivano sulle nostre tavole. Quando si arriva si può subito intuire che tra quei capannoni ci sono molte persone a lavoro, che passano da un edificio all’altro, da un campo a una serra, con dei vasetti in una mano o un sacchetto pieno di semi da portare nel laboratorio accanto. Il Direttore del centro, Luigi Cattivelli, è una persona pacata e cordiale, un uomo di scienza.

Quando inizia a raccontare del CREA, sottolinea immediatamente quanto sia importante capire l’eredità a cui fa riferimento la ricerca che oggi viene portata avanti tra quelle mura, che riporta indietro alle prime ricerche genetiche in agricoltura sviluppate in Italia, all’inizio del Novecento. Più precisamente, nell’Italia degli anni Venti, quando il regime fascista lancia la “battaglia del grano” allo scopo di perseguire l’autosufficienza produttiva di frumento nel Paese. Il 4 luglio del 1925 viene costituito con regio decreto il Comitato permanente del grano, presieduto da Benito Mussolini e di cui faceva parte anche un agronomo di nome Nazareno Strampelli. In quegli anni, il Regno d’Italia risultava importatore di circa un terzo del consumo totale di frumento, che si attestava attorno ai 75 milioni di quintali. L’urgenza del regime era quindi quella di aumentare il rendimento medio di grano per ettaro.

Mentre in questa “battaglia” le armi non avrebbero portato ad un aumento della produzione, il segreto del successo che si riuscì ad ottenere appartiene alle ricerche scientifiche che durante i due decenni precedenti erano state portate avanti da Nazareno Strampelli. È in quegli anni infatti che il professore riesce ad ottenere alcune varietà di frumento cominciando a fare degli incroci tra diverse varietà, che vennero poi definite “Sementi Elette” e che furono largamente introdotte in molti paesi del mondo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Ventesimo secolo. Per questo è oggi considerato il primo grande genetista che c’è stato al mondo. Le sue ricerche, oltre che di alto valore scientifico, hanno a che fare direttamente con il problema del cibo e di quanto si riesca a produrne per una popolazione che al livello mondiale è in continua crescita e che si trova ad affrontare repentini cambiamenti climatici che vanno ad impattare in maniera profonda il modo di fare agricoltura.

A livello nazionale, il CREA è un ente che si occupa della ricerca nel settore agricolo in maniera complessiva, è organizzato in dodici centri e ogni centro ha una sua missione. “Qui ci occupiamo di genomica. Studiamo come la capacità di selezionare le piante ha un impatto sull’agricoltura ed è in grado di renderle idonee al cambiamento climatico, al clima di domani. Ma prima lasciami dire cos’è il cambiamento climatico nell’agricoltura, iniziamo da qua”: nel suo ufficio Cattivelli mostra diverse diapositive, immagini e dati che conserva per divulgare gli studi che portano avanti, mentre la sua attività di ricerca si concentra sulla genetica e sulla biologia molecolare dei cereali.

Al CREA cominciano a studiare i cambiamenti climatici nel 2012, attraverso un esperimento svolto in un campo in cui la concentrazione di CO2 viene tarata a circa 550-570 parti per milione, la concentrazione attesa nel 2050: “l’obiettivo era capire cosa succede a una pianta di frumento quando cresce in quelle condizioni. Il trend generale era positivo, c’era un aumento della produzione stimabile a circa il 10%. Di per sé infatti un aumento di CO2 nell’aria non è un male per la pianta, che ha a disposizione una maggiore fonte di carbonio per fare la fotosintesi. A meno che non ci siano altri fattori limitanti, che però oggi ci sono eccome”. Soprattutto la mancanza d’acqua, l’aumento di temperatura e le onde di calore.

“Molte volte mi capita di parlare con le persone di cambiamento climatico, ma non ho l’impressione che la gente sia consapevole di cosa sia. Perché è facile pensare che sia l’uragano a New York oppure l’alluvione da qualche parte in Italia quando piove tanto. In realtà il cambiamento climatico è qualcosa di molto più penetrante e pervasivo. Basta guardarsi intorno e i suoi effetti si vedono, nelle piante che hai davanti. È evidente che le piante che coltiveremo domani, non potranno essere quelle che coltiviamo oggi. Se domani è più caldo di oggi, e oggi c’è più caldo di ieri, allora non c’è nessuna base logica per usare le varietà di ieri o di oggi, domani”. Mentre l’aumento della CO2 risulta più o meno uniforme in tutto il mondo, l’aumento di temperatura si presenta in maniera diseguale: ci sono in particolare due regioni del pianeta dove questo incremento sarà più elevato e significativo. La prima è quella del sud Polare, ossia la regione del nord Europa e della fascia siberiana: “queste sono zone in cui la temperatura aumenterà più che in nessun’altra parte del pianeta, e ha come conseguenza lo scioglimento della massa di ghiaccio del Polo Nord.

L’altra area che è considerata un hot spot del cambiamento climatico è quella mediterranea”. Anche qui, la temperatura aumenterà più della media del pianeta. Questo provoca a sua volta un’altra variazione importante che si può notare nella distribuzione diseguale della piovosità, con un trend molto chiaro: “ci sono diversi modelli previsionali coerenti con il fatto che nella regione mediterranea si avrà una diminuzione della piovosità e un aumento della siccità. Questo è quello che è atteso nei prossimi 40-50 anni”. Quindi l’inverno è più corto, la primavera inizia prima e le piante corrono più velocemente. “Non ti devi aspettare, almeno da me, risposte semplici a problemi complicati. Un politico dà questo tipo di risposte. Uno che si occupa di scienza valuta il problema e dà una risposta che sia reale rispetto ad esso. Se il problema è difficile e tu hai un sistema dove tante cose sono collegate, ogni volta che tocchi un aspetto, hai degli effetti collaterali sull’altro. Il trend climatico è evidente e non ci sono dubbi su questo, e a partire da questo bisogna lavorare”. A prima vista le tante stanze che compongono i laboratori possono sembrare un po’ caotiche, piene di cassette con dentro buste stracolme di semi, barattoli, bilance, penne e quaderni, calcolatrici, microscopi e fogli di calcolo, provette, e tante diverse piante poste dentro grandi frigoriferi. Ma guardando la sicurezza di chi si muove lì dentro trovando rapidamente ciò che serve, è chiaro che il caos diventa una forma molto ordinata di oggetti che i lavoratori e le lavoratrici della scienza conoscono a menadito. Si passa dal silenzio delle sale dove misurano diversi semi su delle bilance, prendendo appunti su fogli di calcolo, a laboratori rumorosi dove ci sono macchinari all’opera.

Se si guardano i dati sulla disponibilità d’acqua negli ultimi anni, è chiaro che quello di cui parla il Direttore lo stiamo già vivendo qui ed ora: dal 2021 la primavera, soprattutto nel nord Italia, è stata estremamente secca, con circa un 40% in meno di acqua a disposizione. “In alcune zone si è arrivati a irrigare il frumento, una cosa che non si faceva mai tradizionalmente, ed è stata fondamentale per aumentare la produzione; questo sarebbe un cambiamento della consuetudine agricola che chiaramente ha delle implicazioni: immagina di dover irrigare tutto il frumento della Pianura Padana, ti serve un sacco di acqua. Un altro problema fondamentale di conseguenza è quanto è efficiente il sistema agricolo a non sprecare acqua? E su questo c’è un investimento possibile enorme”.

Alla fine dell’Ottocento, gli agricoltori in Italia coltivavano il frumento che c’era a disposizione, che oggi vengono definite popolazioni locali. Strampelli capisce che questa miscela eterogenea non era la soluzione più conveniente per migliorare la produttività, e si rende conto che le piante che coltivate in Italia non sono per nulla adatte al clima del Paese: “non so se il concetto di cambiamento climatico, del clima, risuona”. Il cambiamento climatico, infatti, lo si può vedere in termini storici, come il clima di un posto che cambia, dove il posto può essere inteso come l’intero pianeta o una particolare regione. Ma lo si può anche vedere come cambiamento del clima in termini spaziali: “il frumento nasce nella Mezzaluna Fertile, tra Iran, Siria, Turchia, Azerbaigian, dove c’è un certo clima. Quando poi il frumento viene portato in Italia, in Germania, in Francia, il clima non era mica lo stesso. Quindi già 10.000 anni fa hanno dovuto adattare il frumento al cambiamento climatico, che non era legato al fatto che cambiava il clima di un posto, ma il fatto che si spostava la pianta da un posto a un altro, dove il clima era diverso.

Quindi la storia di tutte le piante coltivate è un continuo adeguamento al cambiamento climatico”. Strampelli individua diversi problemi nelle varietà che aveva sotto gli occhi. Il primo, che fiorivano molto tardi: morendo per il troppo caldo non arrivavano a riempire bene il seme. Il secondo, erano tutte molto alte, con la pianta di frumento alta circa centocinquanta, centottanta centimetri: al primo utilizzo la pianta concimata cadeva inesorabilmente a terra. Poi c’era un terzo problema: la forte sensibilità ad alcune malattie. Osservando dei frumenti che venivano dal Giappone, Strampelli aveva anche in mano una possibile soluzione: comincia a prendere il polline da una pianta e portarlo su un’altra, una fecondazione artificiale con delle piante che portavano dei caratteri che il professore riteneva fossero interessanti. E così, a partire dagli anni Venti, comincia a selezionare nuove varietà, che rappresentano una rivoluzione incredibile: fioriscono dieci o quindici giorni prima, sono alte un metro e dieci, in alcuni casi sono resistenti alle malattie e cambiano radicalmente il modo di fare agricoltura, diventando molto diffuse in Italia. “Quindi si passa da una popolazione eterogenea a una varietà singola, riducendo la diversità, scegliendo la migliore”.

È il caso del famoso frumento Cappelli, una varietà selezionata da Strampelli nel 1915 all’interno di una popolazione di frumenti duri che, originaria del Nord Africa, viene portata in Italia alla fine dell’Ottocento. “Alla metà degli anni Trenta, quando l’Italia diventa un paese autosufficiente per il frumento, Mussolini sembra sbaragliare tutto perché dice ‘sono io che ce l’ho fatta!’, rivendicandolo come risultato della sua situazione politica, ma va ben al di là di questo: è dimostrato che l’elemento chiave di questo successo è il fatto che c’erano delle nuove varietà che avevano una potenzialità produttiva molto superiore a quelle precedenti. Si passa dalla produzione di uno, due tonnellate all’ettaro, alla produzione di tre tonnellate all’ettaro: un raddoppiamento della produzione, che su scala nazionale è una quantità enorme”. Passeggiando accanto ai campi, passando attraverso le serre e da una stanza all’altra, Cattivelli spiega a cosa servano quei macchinari, cosa fanno le persone che scambiano provette, si confrontano, scrivono nomi su delle etichette e portano avanti degli esperimenti. Un mondo pieno di scienza che lavora costantemente per trovare soluzioni a quanto sta accadendo là fuori, dove la posta in gioco è evidentemente molto alta.

Nonostante ne avesse già diverse, uno degli ultimi desideri di Strampelli era di avere una nuova stazione di ricerca nella pianura Padana. Il professore muore nel 1941, e nel 1942 il governo decide di aprire una nuova stazione di sperimentazione vicino Piacenza, che verrà trasferita a Fiorenzuola nel 1958, per poi arrivare a quello che oggi è il CREA. “Quindi il centro nasce come un’eredità sull’eredità. Questo istituto di per sé precedentemente si occupava di cereali e soprattutto di orzo. Poi, a partire dagli anni Novanta, abbiamo cominciato a fare una ricerca il più avanzata possibile, fino ad arrivare a quella che oggi ci hanno riconosciuto come missione di genomica e bioinformatica su tutte le specie coltivate. Quindi come i geni contribuiscono a costruire una pianta, e quali geni si vorrebbe idealmente avere nella pianta per avere un prodotto sano, salubre e possibilmente sostenibile”.

La storia di Strampelli racconta di un passato che vive nel presente, nelle ricerche che vengono portate avanti, negli sviluppi scientifici che si inseriscono nella storia dell’agricoltura come innovazioni straordinarie. Come nell’ottobre 2020, quando la Royal Swedish Academy of Sciences assegna il premio Nobel per la chimica alla biochimica francese Emmanuelle Charpentier dell’Istituto Max Planck di Berlino e alla chimica americana Jennifer Anne Doudna dell’Università di Berkeley in California, per il loro lavoro in merito al complesso meccanismo biomolecolare del Crispr/Cas9. Dal 1901, anno del primo Premio Nobel, solo sette donne hanno ricevuto questo riconoscimento nel campo della chimica. La scoperta delle due scienziate consente di mettere a punto il genome editing, in assoluto la più evoluta tra le tecnologie di evoluzione assistita. “Questo strumento genetico”, ha commentato Claes Gustafsson, presidente del Comitato per il Nobel per la chimica, “ha un enorme potenzialità che riguarda tutta l’umanità”. In medicina, oltre allo sviluppo di nuove terapie contro il cancro, il grande obiettivo sarà quello di riuscire a curare le malattie ereditarie. In agricoltura, invece, sta consentendo di sviluppare varietà innovative, che potrebbero assumere un ruolo ancora più significativo alla luce dei repentini cambiamenti causati dal riscaldamento globale.

“Oggi quello che è tradizionale è buono, quello che è nuovo è cattivo per definizione. Ma le piante che coltiviamo non sono le piante selvatiche, cioè come natura le crea, che è un noto slogan pubblicitario degli anni Ottanta. Non è vero. L’essere umano non coltiva nulla di come la natura crea e nel supermercato non si trova nulla del genere, quantomeno sono piante rese domestiche. Una pianta selvatica di frumento ha un piccolo problema: i semi, quando sono maturi, si staccano e cadono a terra. Se una mutazione interviene nel gene che determina il distacco del seme maturo, il seme non si stacca più, rimane attaccato alla spiga, e questo è molto comodo se tu sei un agricoltore che vuole raccogliere i semi con un secondo di mietitrebbia. Questo è il passaggio dalla forma selvatica alla forma coltivata, un evento che è avvenuto a seguito di una mutazione naturale, selezionata dall’essere umano migliaia di anni fa”. Proprio perché i semi rimanevano attaccati alla spiga e si aveva la certezza di poterli raccogliere, che nasce l’agricoltura, e con l’agricoltura nascono le civiltà. “Penso che la storia del passato ci insegna che solamente adattando le piante al clima riusciremo a continuare a coltivare secondo le necessità della società in cui viviamo”. Questi problemi rimandano direttamente ad un discorso globale, che non può essere delimitato nei confini di uno stato nazione. “Al livello mondiale la distribuzione del cibo non è affatto uniforme, e anche l’Italia, in questo momento, importa il 60% del frumento tenero che consuma, quello che si usa per fare il pane, la brioche, la pizza, e lo prende principalmente dalla Francia”. Mentre a livello europeo l’autosufficienza alimentare è stata raggiunta, su base italiana non esiste. “Ci sono posti in cui il gap tra la produttività potenziale e quella reale è enorme, e c’è tantissimo spazio per investimenti in ricerca per migliorare questa situazione”.

Un altro effetto collaterale di questi cambiamenti climatici è quello che investe patogeni delle piante, anch’essi esseri viventi, funghi, batteri, virus, che conseguentemente cambiano, soprattutto in merito alla loro distribuzione nel mondo: “qui in Italia abbiamo malattie che vent’anni fa erano rarissime, adesso stanno diventando comuni. Abbiamo una pressione patologica sulle varietà che coltiviamo oggi. E se le varietà non cambiano, non si adeguano, alla fine i patogeni hanno il sopravvento, diventano capaci di infettare le varietà in modo molto semplice”. Se si pensa di mantenere un’alimentazione analoga a quella di oggi, nonostante le conseguenze prodotte dal riscaldamento globale, allora è evidente che non si può tornare alle varietà di una volta o lasciare che avvenga l’evoluzione naturale delle piante nel campo: “un aspetto molto discusso anche a livello mediatico, non tanto a livello scientifico dove le idee sono molto chiare.

Questo perché il sistema naturale non ha la capacità e la velocità di reagire al clima, come può avere un sistema guidato dall’essere umano. Negli ultimi cento anni la capacità del genere umano di mangiare su questo pianeta è stata legata al lavoro del miglioramento genetico, cioè al fatto che sono state cambiate le piante, e non al fatto che le piante sono state lasciate evolvere naturalmente. Ma pensare di fermarsi al passato, pensare che l’evoluzione delle piante di per sé sia sufficiente a garantire il futuro alimentare del pianeta è qualcosa che non ha alcuna base scientifica”. Le varietà di piante coltivate nei campi continuano a cambiare per rispondere alle esigenze della società. Quasi tutti i prodotti che si trovano al supermercato hanno un’origine genetica molto recente, come la nota pasta italiana tradizionale Voiello, o il pomodoro ciliegino, che è un’invenzione genetica degli anni Novanta. Per il pomodoro da industria oggi la raccolta meccanica viene fatta ovunque: “hanno inventato le macchine per la raccolta meccanica? No, hanno inventato i pomodori per la raccolta meccanica. Perché un pomodoro per essere raccolto a macchina deve avere delle caratteristiche particolari, deve essere estremamente duro. In realtà la genetica cambia quello che noi mangiamo, e lo cambia decisamente in meglio.

E questo cambiamento è anche quello che servirà per guardare al futuro”. Se pensiamo al netto delle situazioni estreme, “si può fare tanto per adattare le piante o per selezionare quelle più idonee alle condizioni climatiche di domani”. La resistenza alle malattie è una priorità nel miglioramento genetico, che consentirà di ridurre l’uso dei fitofarmaci. “Quando tu inserisci un seme in un campo, non metti un seme in sé, ma un pacchetto di geni, il DNA, e questi geni determineranno come la pianta crescerà, a quali malattie la pianta è resistente, come la pianta gestirà l’acqua, quanto cresceranno le radici, e così via. L’innovazione genetica è qualcosa che la gente non conosce molto, ma che in realtà è uno degli elementi essenziali dell’agricoltura e in generale della società”.

Si stima che nel mondo esistano circa mezzo milione di forme diverse di frumenti; a fronte di questa enorme biodiversità, le varietà che si coltivano in Europa sono alcune centinaia, una cinquantina in Italia. Il lavoro di incrocio e di selezione è andato avanti per tantissimi anni. Negli anni Sessanta invece si è cominciato a indurre nuovi caratteri, attraverso agenti mutageni chimici, processo che viene definito mutagenesi: “ovviamente questo sistema è casuale, prendi del DNA a caso e poi speri che muti quello che ti interessa, e non è molto semplice”.

Ma negli anni Ottanta-Novanta, quando arrivano le conoscenze sul DNA, si comincia a capire qual è l’esatta sequenza di DNA che determina un certo carattere. E arriva quella tecnologia che sfrutta un meccanismo naturale di un batterio che si trova nel suolo, e che infetta le piante creando grossi tumori: “ci si rende conto che questo batterio, per infettare una pianta, non fa altro che prendere un pezzo del suo DNA e rimetterlo dentro il DNA della pianta. Questo principio suscita l’attenzione di alcuni ricercatori, perché questo batterio rappresenta un meccanismo di trasferimento. Se io prendo questo meccanismo e anziché metterci dentro il DNA che vuole il batterio, ci metto dentro quello che voglio io, il batterio agisce trasferendolo alla pianta”. Questo meccanismo della trasformazione genetica è alla base dei cosiddetti Ogm, cioè piante in cui è stato inserito un pezzo di DNA esterno. Negli ultimi quindici anni però le conoscenze in merito hanno avuto un enorme sviluppo legato alle nuove tecnologie che chiamano genome editing, di evoluzione assistita: “il Premio Nobel per la chimica assegnato a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna è cruciale proprio per tutto questo. Loro hanno scoperto questa tecnica che consente di indurre una mutazione in un modo predefinito, un meccanismo che è stato scoperto nei batteri, che hanno sviluppato dei procedimenti per riconoscere il DNA dei virus e di tagliarlo, quindi di distruggerlo.

Quando questi meccanismi sono stati scoperti qualcuno ha capito subito che potevano essere utilizzati anche per tagliare il DNA di un essere eucariote, ossia di un essere superiore”. Qual è la differenza tra un virus e un essere superiore? “Se taglio il DNA di un virus, il virus è morto. Se taglio il DNA di un essere superiore, ha la capacità di riparare i danni del DNA. Tuttavia questa riparazione può indurre delle mutazioni, attraverso degli errori di riparazione, che sono esattamente quelli che si vogliono per cambiare un carattere. Questa è una tecnologia che, ne sono tutti convinti, sta rivoluzionando il modo di fare miglioramento genetico già oggi”, un intervento di estrema precisione che consente di riscrivere il codice della vita. “Ci vogliono strumenti. E bisogna fare in fretta, perché il cambiamento climatico va velocissimo”. Le persone che lavorano in questo centro hanno bene in mente l’importanza delle loro ricerche, dei loro studi, e una leggera sensazione di sollievo arriva mentre si va via attraversando nuovamente quei campi: c’è chi è perfettamente consapevole della gravità della situazione, e non vuole perdere nemmeno un minuto del proprio tempo a far finta che non sia così.