La brutalità della polizia colpisce ancora. La maxi operazione contro il narcotraffico a Rio de Janeiro è il peggior massacro della storia del Paese
“Eu só quero é ser feliz, andar tranquilamente na favela onde eu nasci” cantano Cidinho e Doca nel Rap da felicidade. Due versi: il desiderio più grande di chiunque sia nato e cresciuto in una delle 813 favelas di Rio de Janeiro. Vivere felici, senza dover contare gli amici e i fratelli caduti. Andarsene in giro tranquilli per le strade della favela, senza pensare che il prossimo morto sull’asfalto consunto potresti essere tu.
Un desiderio disatteso per l’ennesima volta martedì 28 ottobre, quando 2500 agenti di polizia, con 32 mezzi blindati e 12 mezzi di demolizione, hanno fatto irruzione nei complexos di Alemão e Penha, due aree che comprendono ventisei favelas nella zona nord della città.
Una maxi operazione che sulla carta doveva bloccare l’espansione territoriale del Comando Vermelho, una delle tre organizzazioni criminali che operano a Rio, ma che rimarrà nella storia per essere stata il peggior massacro perpetrato dalle forze di polizia nella storia del Paese.
Politiche di sterminio
Le favelas di Rio de Janeiro non sono nuove alla brutalità dello Stato. Fin dalla loro prima apparizione, alla fine del XIX secolo, sono state oggetto di politiche di rimozione e annientamento da parte di governi che le consideravano solo un problema, di volta in volta abitativo, sociale, igienico, estetico, di sicurezza. Macchie da eliminare sulla facciata scintillante della cidade maravilhosa. Territori dove si intrecciano diverse forme di marginalità, economica, sociale, razziale, che rendono chi li abita, almeno agli occhi di una politica bianca e borghese, sacrificabili.
Nelle favelas di Rio de Janeiro vivono circa 1,3 milioni di persone e di queste solo una piccolissima parte è effettivamente legata ai gruppi criminali, ma martedì mattina gli agenti che sono entrati nei complexos di Alemão e Penha erano equipaggiati come per andare in guerra.
È difficile dire con certezza quante siano le vittime totali perché i numeri continuano ad aumentare. Dopo che le autorità avevano comunicato una stima ufficiale di 64 morti, tra cui quattro poliziotti, nelle prime ore di mercoledì hanno iniziato ad apparire altri cadaveri nella foresta che divide i due complexos.
Ora il conteggio si aggira attorno ai centotrenta. I media brasiliani, privi del pudore nei confronti della morte che caratterizza l’informazione nostrana, da due giorni fanno circolare foto e video non censurati. Nei feed dei social e dei siti web delle maggiori testate del Paese rimbalzano le immagini di una fila di oltre sessanta cadaveri allineati in praça São Lucas, nel quartiere di Penha. Coperti alla bell’e meglio da sudari di fortuna, tovaglie a fiori, lenzuola insanguinate, teloni, vecchi vestiti. Un’accozzaglia colorata che potrebbe avere qualcosa di artistico, se non fosse per le decine di piedi lividi che sbucano dalla stoffa.
Intorno ai corpi si stringono gli abitanti della zona. Cercano di riconoscere qualcuno, sperano di non doverlo fare. Gli obiettivi dei fotografi immortalano rabbia e disperazione.
Un successo
Il governatore dello Stato di Rio de Janeiro, Cláudio Castro (del Partito Liberale, lo stesso dell’ex presidente Jaír Bolsonaro) si è dichiarato soddisfatto dell’esito dell’operazione durante la quale, secondo le fonti ufficiali, sono state sequestrate 90 armi da fuoco, 200 chili di droga e compiuti 81 arresti (il capo del Comando Vermelho, Edgar Alves de Andrade, soprannominato Doca, è però riuscito a fuggire).
«Siamo molto tranquilli, e difendiamo ciò che è successo. Vorrei offrire la mia solidarietà alle famiglie dei quattro guerrieri che hanno dato la vita per liberare la popolazione. Sono loro le uniche vere vittime. Di vittime, ieri, ci sono stati solo i poliziotti», ha affermato il giorno seguente all’operazione.
Tutte le altre persone rimaste uccise sono state classificate senza battere ciglio come criminali. Per il governatore il fatto che il grosso degli scontri e delle morti non si sia concentrato nelle aree edificate ma nella porzione di foresta a cavallo tra Alemão e Penha, roccaforte del Comando Vermelho dove i leader svolgevano la maggior parte delle loro attività e tenevano il cosiddetto tribunal di tráfico, è una prova sufficiente.
Un discorso problematico in ogni suo aspetto che lede le fondamenta dello stato di diritto, elimina la presunzione di innocenza e che riporta in auge la retorica del bandido bom è bandido morto.
Il governo Castro del resto, al potere dal 2021, ha autorizzato tre delle quattro operazioni di polizia più letali della città. Oltre a quella del 28 ottobre scorso anche quella del maggio 2021, che uccise 28 persone nella favela di Jacarezinho, e quella del maggio 2022, 23 morti a Vila Cruzeiro, e dovrà rispondere davanti alla Commissione per i diritti umani della Camera.
Nel frattempo organizzazioni della società civile e cittadini di Alemão e Penha hanno iniziato a protestare contro quello che, ormai appare chiaro, è uno sterminio di stato.
Senza armi
Per il sociologo Daniel Hirata un’operazione di polizia che abbia veramente successo dovrebbe essere frutto di un solido lavoro di indagine, mantenersi nei limiti della legge, portare ad arresti e sequestri di droga e armi e non causare nessuna vittima. Un’operazione come quella di Rio, ha spiegato Hirata alla Folha de São Paulo, non serve ad arginare l’espansione dei gruppi criminali e la storia lo insegna.
Il Comando Vermelho, nato nel carcere Cândido Mendes alla fine degli anni ’60, mantiene il controllo sulle favelas di Rio da oltre cinquant’anni e nessuno dei tentativi di debellarlo, neanche la parentesi delle Unidades de Polícia Pacificadora, è riuscito nel suo intento.
Ben equipaggiato e organizzato il gruppo ha dimostrato di sapersi difendere da qualsiasi attacco delle forze di polizia. In risposta all’operazione di martedì, grazie alla mobilitazione di cellule presenti in altre favelas, con barricate e roghi il Comando Vermelho è riuscito a paralizzare parte della città. Uno scenario niente affatto nuovo: nel 2009 durante uno scontro con la polizia nel Morro dos Macacos l’organizzazione aveva abbattuto un elicottero della Polizia Militare.
Inoltre, come sottolinea Hirata, eliminare fisicamente i membri dei gruppi criminali non ha nessun effetto, neanche quando a essere colpiti sono i leader. “Per ogni sessanta che spariscono dalla scena ne appaiono altri centoventi”.
Molto più efficaci sono misure che, con arresti e sequestri mirati, riescono a spezzare la rete criminale colpendo gli intermediari tra le organizzazioni “di strada” e i loro interlocutori politici e finanziari. Un sistema che è stato seguito con successo a São Paulo, in un’altra mega operazione per smantellare uno schema di corruzione, riciclaggio di denaro e di produzione e distribuzione di combustibili illegali nel quale era coinvolto il Primeiro Comando da Capital. Il colpo assestato al gruppo criminale è stato durissimo. Ci sono stati arresti e sequestri ed è stata mobilitata una grande forza di intelligence, ma non è stato sparato neanche un colpo.
«Il controllo del territorio non si basa solo sulla presenza di armi», spiega Hirata, «ma dipende dalla struttura delle reti criminali» che agiscono anche, e a volte soprattutto, sui mercati legali. Ad esempio, nel caso delle favelas, quelli dei servizi basilari come acqua ed elettricità.
Andare a colpire questi introiti e intaccare i loro rapporti con la politica e la finanza causa molto più danno alle organizzazioni criminali che non un migliaio di mitra spianati. E risparmia alla collettività decine di cadaveri da archiviare come “effetti collaterali”.