Radio Fresh FM: la radicalizzazione del conflitto

Il terzo capitolo del reportage inedito di Jo Meg Kennedy, selezionato dalle giurie di Meglio di un romanzo per uscire a puntate sul sito del Festival e su “Q Code Magazine”

Questa è la storia di Radio Fresh Fm, nata a Kafranbel, Idlib, in Siria nel 2013. Ad accompagnare il lettore nella costruzione ed evoluzione della radio e nei processi di trasformazione dovuti alla rivoluzione e alla guerra saranno le voci dei fondatori della radio e il controcanto della giornalista Zaina Erhaim. I presupposti con cui Raed Faris, Hammoud Jounin e Khaled al Essa avevano fondato la radio e si sono battuti per difenderne l’esistenza, sono gli stessi per cui avevano aderito alla rivoluzione. Nelle parole di Raed Fares “le rivoluzioni sono idee e le idee non possono essere uccise con le armi”. La radio rappresentava queste idee e si poneva a disposizione e a rappresentanza della cittadinanza. Sono stati diversi i tentativi, del regime come di altri attori, di mettere a tacere la radio, ad oggi però continua ad emettere e a rappresentare la voce del popolo della rivoluzione siriana.


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CAPITOLO TERZO: LA RADICALIZZAZIONE DEL CONFLITTO
di Jo Meg Kennedy

Il 2013 fu un anno di svolta. Come spiegato da Ahmad Jalal in un’intervista per SyriaUnold, la corruzione dilagante, sia nell’esercito regolare sia nel Fsa, e il profondo malessere sociale ed economico dopo due anni di guerra, favorirono l’ascesa di gruppi radicali che già avevano iniziato ad espandersi nella regione da anni.

Il loro discorso pubblico e le loro promesse – caratterizzati da un forte sentimento anti-occidentale rispetto al fatto che non avevano aiutato i ribelli contro i massacri di Assad e di tono socialista rispetto alla distribuzione della ricchezza – garantirono loro un appoggio popolare motivato da questo molto più che dall’aspetto religioso. Ben presto, tuttavia, si notò come tra gli obiettivi primari ci fossero le voci della società civile più che obiettivi militari governativi, svelando il loro vero volto.
Nel 2014, Daesh riuscì a egemonizzare il jihadismo radicale e transnazionale all’interno di un progetto di creazione statuale tangibile fondato sul rifiuto dell’accordo Sykes-Picot (1915-1916). Il video sottostante contiene delle riprese in cui alcuni affiliati del gruppo spiegano proprio questo e così, il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamò la nascita dell’Islamic State of Iraq and Syria precedentemente Islamic State of Iraq.

L’opposizione all’Occidente affondava le sue radici anche in tempi più recenti. Le torture inflitte ai prigionieri nelle carceri di Guantanamo e Abu Ghraib, istituite dopo l’11 settembre 2001, hanno contribuito alla loro radicalizzazione – tra questi, al-Baghdadi, che fu detenuto ad Abu Ghraib.
Nell’immaginario collettivo, però, questi aspetti sono spesso marginali o del tutto ignorati. Ciò che emerge con maggiore forza sono gli attacchi compiuti sul suolo europeo, rivendicati dallo Stato Islamico, o le immagini diffuse sui loro canali mediatici, che coinvolgevano individui occidentali tra cui i giornalisti statunitensi James Foley e Steven Sotloff. Questa rappresentazione parziale rivela una lacuna nell’analisi mainstream delle cause profonde che hanno alimentato tali fenomeni.

In questo senso, bisogna riconoscere che, la tecnologia, come strumento, si presta a molteplici usi. Nei capitoli precedenti, abbiamo esplorato come gruppi civili e neo-giornalisti abbiano sfruttato i nuovi media per promuovere trasformazioni politiche dal basso, sfidando i modelli tradizionali di transizione politica. Come osserva Billie Jeanne Brownlee nel suo libro New Media and Revolution: Resistance and Dissent in pre-Uprising Syriai nuovi media sono diventati parte integrante della moderna strategia di contro-insurrezione, grazie alla capacità di ridurre i costi di partecipazione e facilitare la concentrazione di agency.

Abbiamo anche visto come un governo autoritario possa strumentalizzare le informazioni per conquistare i cuori e le menti dei propri concittadini come della comunità internazionale. Inoltre, può monitorare le comunicazioni via cellulare e Internet per identificare i oppositori politici e attivisti– un fenomeno che, quando scrivevo la tesi magistrale nel stava proliferando in Iran e che oggi abbiamo osservato anche in Italia con il caso Paragon.

Parallelamente, gruppi armati come l’Isis hanno creato team mediatici per documentare il conflitto, reclutare seguaci, diffondere la loro ideologia, attirare finanziatori, richiedere riscatti (Dollet S., 2015) e, soprattutto, ergersi a interlocutori riconosciuti dai media e dai governi. Le immagini prodotte da questi team hanno contribuito a costruire il gioco incrociato degli specchi, descritto nel libro L’ultimo Califfato a cura di Massimiliano Trentin. Un concetto utilizzato per descrivere un rimando tra l’auto-rappresentazione dell’Isis e la percezione che ne ha l’Occidente. Si sottolinea come queste due narrazioni siano interdipendenti e si auto-alimentino, creando una sorta di ciclo di riflessione che complica la comprensione della realtà. Un esempio del gioco è la distruzione di reperti archeologici nei musei di Mosul. Sebbene i media abbiano riportato la distruzione di opere d’arte, si è scoperto in seguito che molti reperti erano repliche e molti degli originali erano stati venduti sul mercato nero arrivando proprio in Europa. Questo episodio ha contribuito ad alimentare la narrazione neo-orientalista dello scontro di civiltà, rafforzata dagli attacchi al Museo Ebraico di Bruxelles (2014), a Charlie Hebdo (2015) e al Bataclan (2015). Questi fenomeni avrebbero dovuto essere contestualizzati e analizzati, ma la volontà di generalizzare ha spesso prevalso. Si è universalizzato un fenomeno che ha invece delle coordinate storiche e geografiche molto precise, come spiegato dagli autori de L’Ultimo Califfato. Ciò ha avuto un impatto trasformativo nelle dinamiche dei conflitti in corso e in particolare sulle percezioni di queste situazioni, che attraverso immagini incomplete e infondate hanno generato un’idea anche razzista delle persone coinvolte. Non solo, ma queste percezioni hanno avuto delle conseguenze tangibili nel nostro Paese e nell’Europa più in generale.

Tuttavia, come sottolineato dalla giornalista Leila Belhadj Mohamed, l’islamofobia e arabofobia non sono nate con gli eventi del 2014-2015. Affondano le loro radici nella guerra al terrorismo lanciata da George W. Bush e hanno creato delle dinamiche senza precedenti:


  • “Il momento in cui c’è stato il cambio di paradigma me lo ricordo molto bene. Avevo 9 anni e stavo guardando la Melevisione come praticamente tutti i miei coetanei, quando l’11 settembre ci fu l’attacco alle Twin Towers. Non pensavo però che a differenza della vita dei miei compagni bianchi, la mia e quelle delle persone come me sarebbe cambiata in maniera radicale. Io sono passata dall’essere Leila la vicina di banco ad essere: la figlia del terrorista, la moglie di Bin Laden, l’araba di merda che doveva tornare a casa sua.”

Nel 2001 avevo appena 4 anni e ho dei vaghi ricordi di quanto stesse accadendo. Mi ricordo bene invece una notte d’estate del 2017 in cui ero appena atterrata all’aeroporto di Amman insieme a un gruppo di coetanei che non erano mai stati in Giordania. Dovevamo raggiungere Madaba e c’era un autobus che ci avrebbe portati. Dopo neanche venti minuti di tragitto una ragazza esclamò: “Oddio! Stiamo deviando dalla strada principale! Ma se spunta un pick-up con persone armate di kalashnikov?” In quel momento mi resi conto di quanto la narrazione dominante avesse radicato paure e stereotipi a distanza di anni anche in chi era in ‘buona fede’ e di quanto avevamo la responsabilità di continuare a decostruire queste credenze. Questo lavoro non poteva che essere un processo di auto-interrogazione quotidiana.
Mentre la narrazione dominante si consolidava, contro-narrazioni iniziarono a emergere. Opere come L’Islam spiegato ai nostri figli di Thar Ben Jelloun e Sotto il velo di Takoua Ben Mohamed offrirono strumenti per comprendere meglio questi fenomeni. Radio Fresh si mosse in parallelo a loro, contribuendo alla costruzione di una memoria collettiva alternativa. Per Raed Fares, era fondamentale trasmettere un messaggio chiaro dalla radio: L’islam è una religione di amore e di pace.”

Tra il 2013 e il 2014, Kafranbel continuò a perdere cittadini, mentre accoglieva un ampio flusso di sfollati provenienti da altre aree (Thompson M., 2017). Le difficoltà nell’approvvigionamento idrico, l’inflazione dei beni di prima necessità e la riduzione delle ore di fornitura elettrica giornaliera continuavano ad aggravarsi.
Il 28 dicembre 2014, Daesh fece la sua prima incursione nella sede della radio. Mahmoud Al Suwaid, membro della redazione, raccontò che il gruppo fece irruzione rapendo alcuni colleghi e confiscando l’attrezzatura, costringendoli a interrompere le trasmissioni per un periodo significativo. La radicalizzazione del conflitto bussò così alla porta di Kafranbel e i lavoratori della radio temevano che i giovani, immersi in un ambiente di guerra e instabilità, potessero perdere la fiducia nelle voci politiche pacifiche e democratiche. Per la radio promuovere messaggi di non violenza era imprescindibile per evitare che una nuova generazione potesse imbracciare le armi e perpetuare il ciclo di violenza formando “la seconda e la terza edizione di Daesh” come spiegato dal direttore.

I neo-gruppi mediatici, attivisti e scrittori però erano sotto il tiro dell’Isis fin dal loro arrivo. Finivano per essere sequestrati o ammazzati, dimostrando che Charlie Hebdo non era un caso isolato. La giornalista Zaina Erhaim infatti, nel suo articolo A Syrian Activist as I Knew Himdel 2022, ha spiegato come la radicalizzazione del conflitto abbia influito sul modo in cui i giornalisti si muovevano all’interno del governatorato di Idlib. Se un anno prima dichiaravano di essere “dei media” per evitare di essere interrogati e passare liberamente attraverso un’area, dalla fine del 2013 molti neo-giornalisti nascondevano la propria attrezzatura, dichiarandosi gente del posto per lo stesso motivo. Inoltre, Erhaim sottolinea che le prime a essere colpite da quelle trasformazioni furono le giornaliste. Le donne.


  • “Indossavo il velo su richiesta di un amico, Omar, che mi accompagnava (durante una visita al governatorato di Idlib). Ma quando siamo arrivati in piazza, Raed mi ha chiesto perché lo indossavo. Gli ho detto che ero stata costretta da Omar, al che egli ha espresso forte sorpresa. «Asho!Non ascoltarlo! Toglilo e quelli che osano mettere in discussione le tue libertà personali qui devono vedersela con me. Sono un’arsa; non mi conosci ancora!»
    Mi sono tolta il velo e ci siamo fermati per una foto ricordo che mostra Omar imbarazzato e Raed che ridacchia.”

Uno tra gli ultimi attacchi di Daesh colpì il direttore. Alle prime ore del mattino del 29 gennaio 2014, dopo aver terminato il turno di lavoro, Raed Fares parcheggiò la macchina nel vicoletto di casa. Due uomini armati si avvicinarono e spararono una cinquantina di colpi di Ak57, lasciando la sua auto e il muro alle sue spalle crivellati di colpi. Tre pallottole lo colpirono, frantumandogli diverse ossa della spalla e alcune costole, oltre a perforargli il polmone destro. Il direttore, ricordandosi di quel momento, prima di essere soccorso dalla moglie e dai figli e portato d’urgenza in ospedale dal fratello, scrisse:


  • “Mentre giacevo sanguinante, ho sentito la morte abbracciarmi. Non ho chiesto aiuto, per paura che gli uomini armati tornassero, ma mentre sanguinavo, mi chiedevo che tipo di individui deviati avrebbero avuto bisogno di uccidere per dimostrare che avevano ragione. No, ho pensato, solo Dio ha il diritto di togliermi la vita – e Dio alla fine mi ha salvato dal loro tradimento.”

Zaina Erhaim in quel periodo si trovava ancora in Siria, in una città vicina a Kafranbel, Maarat al-Numan. Andò a visitare Raed Fares in ospedale dove dozzine di uomini si erano ammassati dentro e fuori dall’edificio per vederlo.


  • “Quando mi ha visto, ha riso, con un po’ di dolore che si manifestava nei suoi lineamenti, e ha detto: “Ora mi sono ripreso. La giornalista più importante di Idlib mi sta visitando. […] Cosa vuoi bere?” Ho provato durante tutta la visita a convincerlo a lasciare la Siria, anche per un breve periodo, ma è stato invano” (Erhaim Z., 2022).

Dopo l’attentato, Raed Fares ha impiegato quattro mesi per riprendersi.


  • “Ho ancora difficoltà a respirare – ha detto in seguito – ma il mio medico dice che i miei polmoni non dovrebbero avere problemi grazie alle dimensioni del mio naso” (Thompson M., 2017).

Successivamente, in due occasioni alcuni terroristi hanno nascosto delle bombe sotto l’auto del direttore. Nel 2014 però la parabola di Daesh a Kafranbel giungeva a termine, lasciando spazio al Fronte di Al Nusra. Tuttavia, l’Isis raggiungeva il culmine della sua espansione nel resto della Siria e la sua presenza iniziava a distogliere l’attenzione internazionale dalle motivazioni politiche e sociali alla base della rivoluzione del 2011. Tanto è vero che il regime di Bashar al-Assad veniva sempre più visto come un “male minore”, oscurato dallo Stato Islamico percepito come un “male maggiore”.
Questo contesto favorì l’emergere del fenomeno dei foreign fighters e l’intervento diretto di diverse potenze internazionali. Nel 2014 la coalizione guidata dagli Stati Uniti iniziò a bombardare Daesh, sostenendo le forze YPJ e YPG del Rojava. Queste forze, rappresentative dell’amministrazione democratica autonoma nel nord-est della Siria (Danes), già da anni lottavano contro lo Stato Islamico e si battevano per una rivoluzione sociale più ampia, che includeva curdi, assiri, yazidi, circassi, ceceni, turcomanni e arabi. Il new beginning del Presidente Obama si dissolse definitivamente con l’intervento contro quella che egli stesso aveva definito “una minaccia globale”, implicando che il regime di Assad non fosse considerato tale, nonostante le ripetute violazioni sia del diritto internazionale sia della linea rossa che Obama aveva tracciato con tanta determinazione. E mentre gli Stati Uniti sostenevano le forze del Danes, la Turchia, membro della Nato, dirigeva il proprio intervento militare contro di loro, intensificando gli attriti tra attori coinvolti. In soccorso del regime di Bashar al-Assad invece arrivarono l’Iran, Hezbollah e la Russia (Trombetta L., 2014).
Per completare un quadro già drammatico, nel 2015 anche la Russia iniziò a lanciare bombardamenti contro Daesh, in nome di una “guerra santa”. Tuttavia, a Kafranbel Daesh si era ritirato già dal 2014 e dunque queste operazioni andavano a colpire per lo più ospedali, aree civili e persino campi profughi. Raed Fares, commentando la situazione nel suo articolo “Why is Russia bombing my town?” del 2015 scrisse:


  • “Il presidente Vladimir Putin afferma di bombardare i ‘terroristi’ dello Stato islamico a Kafranbel, questo non può essere vero, altrimenti non potrei muovermi liberamente.”

Tuttavia, l’approccio militare si rivelò inefficace nel risolvere le radici profonde del conflitto, configurandosi piuttosto come un’operazione performativa, utile ai leader politici per ottenere consenso elettorale. Per i siriani costretti a convivere con la presenza dello Stato Islamico sul territorio, non ha prodotto un beneficio duraturo. Questo fallimento richiama l’esito della guerra al terrore post-11 settembre. Lo stesso Barack Obama, nel 2015, ammise che l’ascesa dello Stato Islamico fu una ‘conseguenza indesiderata’ delle politiche adottate dall’amministrazione Bush. Tuttavia, anche le sue scelte non si discostarono significativamente da quelle repubblicane del 2001, portando a risultati analoghi: il prezzo più alto delle guerre fu pagato dalla società civile e l’ideologia dello Stato Islamico come detto anche dalle Forze Democratiche Siriane nonostante la vittoria militare del 2019 restava intatta. Come del resto anche la loro presenza sul territorio.

Ciononostante, tra il 2014 e il 2015, l’Europa in merito alla guerra in Siria mostrava segni di disimpegno. Ai suoi occhi il conflitto era diventato così cronico da sembrare ormai distante. Gli aiuti umanitari europei, già da qualche anno, erano progressivamente diminuiti, aggiungendo problema su problema per la popolazione siriana. Le famiglie dovevano affrontare il quarto anno di guerra con meno risorse ancora. Le scuole disponevano di meno strumenti per proseguire gli insegnamenti in sicurezza, il potere d’acquisto per i beni di prima necessità era diminuito e molti dovevano far fronte al rischio di essere sfollati al quarto inverno dall’inizio della guerra. Non è un caso allora che nel 2015 migliaia di siriani abbiano attraversato l’itinerario, diventato noto con il nome di rotta balcanica, in costante mutamento tra Turchia, Grecia, Bulgaria, Macedonia, Serbia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Austria e Germania. Così l’attenzione dell’Europa venne ripristinata, a partire da quella tedesca per mano della cancelliera Angela Merkel che avviò la politica della porta aperta. Tuttavia si trattava di una attenzione limitata perché l’Unione non applicò la Direttiva 55 del 2001, rendendo l’accoglienza ancora più complessa. Secondo l’Unhcr le richieste di asilo si erano triplicate rispetto al 2014, raggiungendo quota 3.132. Tuttavia, questo numero rappresentava solo una minima parte della diaspora siriana: dal 2011 al 2015 le richieste complessive ammontavano a 235.000, pari però solo al 6% di chi aveva deciso di lasciare il Paese. La maggior parte di chi partiva transitava l’Europa meridionale per raggiungere il nord del continente. Le domande di asilo qui rappresentavano appena il 3% delle richieste totali. A complicare ulteriormente la situazione il 18 marzo 2016 venne approvata la Dichiarazione Ue-Turchia. Un modello di quella che sarebbe diventata la politica di esternalizzazione delle frontiere Ue. In cambio di una quantità enorme di denaro pagato dalle istituzioni europee, il Presidente turco Erdoğan si impegnava a bloccare i flussi di rifugiati siriani in fuga dalla guerra.

In un’intervista al Wall Street Journal, il presidente Bashar al-Assad attribuì l’esodo dei siriani ai ‘terroristi’ che, a suo dire, avevano destabilizzato la Siria e trascinato il Paese in guerra.

L’Occidente piange per i rifugiati e, parallelamente, sostiene i terroristi dall’inizio di questa crisi. Prima hanno detto che si trattava di una rivolta pacifica, poi che il regime aveva soffocato l’opposizione. Ora dicono che ci sono terroristi come al-Nusra e Isis, ma la colpa sarebbe dello Stato siriano o del Presidente siriano. Se sei preoccupato per i rifugiati, smettila di sostenere i terroristi.
La narrazione, in cui i cittadini mobilitati contro il regime erano definiti terroristi, servì a disumanizzare i manifestanti e a ritrarre il regime come baluardo contro il fondamentalismo. Contrariamente a questa immagine, al-Assad contribuì direttamente alla diffusione dei gruppi estremisti, che iniziavano a formarsi e crescere già dal 2003. Rilasciando prigionieri radicalizzati, in un momento in cui la sua posizione interna si indeboliva, il presidente ebbe un ruolo cruciale sia nel plasmare le dinamiche del conflitto, favorendo l’ascesa dell’Isis e di al-Nusra, sia nel ristabilizzare la sua stessa posizione come sopramenzionato (Trombetta L., 2014).

Consolidati i nuovi equilibri di forza all’interno del Paese, il regime proseguì nel suo intento di contenere e reprimere le voci della società civile e dei neo-giornalisti, attraverso il Syrian Journalists Union, un sindacato controllato dal governo e contrapposto alla neo-nata Syrian Journalist Association, che invece sosteneva l’indipendenza dei media (Richter, C.; Kozman, C., 2021).
Intanto la società civile di Kafranbel continuava a scendere in strada, sfidando le oppressioni del regime e dell’esercito russo. Con striscioni e manifestazioni, gli attivisti denunciavano ipocrisie e documentavano eventi cruciali. Tra gli episodi emblematici figurano la protesta della cittadinanza a fianco dei combattenti dell’Esl e la manifestazione contro i bombardamenti russi. Quest’ultima fu ripresa Raed Fares e pubblicato sul suo canale YouTube. All’inizio del video si intravede Hammoud Jounin dare fuoco a una bandiera russa come simbolo di prostesa e alle sue spalle si vede il caratteristico striscione di Kafranbel.

Questa forte presenza della società civile era preziosa ma non scontata, come sottolineò a più riprese Raed Fares. Se in futuro, rifletteva il giornalista, l’attivismo a Kafranbel fosse scemato, la responsabilità sarebbe stata dell’esercito russo:


  • “Uno dei motivi della nostra fiorente società civile è che siamo difesi dai combattenti dell’Esl, cresciuti in città e fermamente impegnati per la democrazia. Questi combattenti, che hanno ricevuto assistenza dagli Stati Uniti, fungono da controllo su eventuali gruppi estremisti che cercano di creare problemi. La Russia sta bombardando pesantemente i combattenti pro-democrazia di Kafranbel, quasi volesse che gli estremisti si rafforzassero. Per questo motivo, qui la Russia è emersa come nemica della società civile. Gli americani non dovrebbero essere così passivi di fronte alla farsesca campagna anti-Stato islamico di Putin. La fiorente società civile di Kafranbel è per molti versi modellata su quella degli Stati Uniti, e in alcuni casi ha persino ricevuto finanziamenti statunitensi. Putin ha chiarito molto tempo fa che non è un gran sostenitore della società civile in generale, quindi quando attacca il popolo libero di Kafranbel (o l’Ucraina), gli americani dovrebbero prenderne atto. Spero che il popolo americano si erga in difesa di Kafranbel e di tutti i siriani che stanno lottando per la democrazia, perché l’attuale comportamento del loro paese, in qualità di spettatore di atrocità contro le persone libere, non può essere un vero riflesso di ciò che gli Stati Uniti rappresentano.”


Nel frattempo, i gruppi di neo-giornalisti di Idlib e del resto della Siria si riunivano per difendere le conquiste ottenute, come la creazione di Radio Fresh. Dopo cinquant’anni di assenza di un’informazione indipendente, culminati con la rivoluzione del 2011, il bisogno di strutture, metodi e riferimenti etici era imperativo. Fu questa consapevolezza a portare alla nascita della Carta etica per i media siriani nel 2015, firmata da 26 media emergenti. Due delegati di Radio Fresh parteciparono alla firma della Carta in Giordania. Fouad Rouehia, giornalista presente all’evento, li descrisse come giovanissimi entusiasti non solo per la Carta ma anche perché per la prima volta nella loro vita avevano messo piede fuori da Kafranbel.


  • Immagine di copertina:
  • Immagine di Raed Fares, Kafr Nabl – Idlib, 16 ottobre 2014, consultabile sulla pagina Facebook dell’autore. Per eventuali richieste scrivere a info@festivaletteratura.it.
  • Bibliografia:
  • – Badran Y., Syria: A Fragmented Media System, in «Arab Media Systems», Global Communications, Open Book Publishers, 2021.
  • – Brownlee B. J., New Media and Revolution: Resistance and Dissent in Pre-uprising Syria, McGill-Queen’s University Press, 2020.
  • – Dollet S., The Syrian New Press. Appraisal, challenges and outlook, in «CFI Media Cooperation», Settembre 2015.
  • – Trentin M., L’ultimo califfato, il Mulino, 2017.
  • – Trombetta L., Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Education, Milano, 2014.

L’AUTRICE:
Jo Meg Kennedy si è laureata all’Università di Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche nel marzo del 2023 dove ha approfondito studi di area per le regioni del Sud Ovest Asiatico e dell’America Latina. Attualmente sta completando uno stage giornalistico a Roma per Il Fatto Quotidiano.


IL PROGETTO:
Meglio di un romanzoè un progetto nato a Festivaletteratura nel 2013. È coordinato dal giornalista e condirettore di Q Code Magazine Christian Elia ed è rivolto a giovani autori di età compresa tra i 18 e i 30 anni che vogliano presentare al Festival un’opera inedita di giornalismo narrativo, tanto individuale che collettiva, in forma di reportage tradizionale, podcast o videoracconto. A partire dal 2017, dopo il lancio del bando annuale e la proposta dei temi, la selezione delle candidature e la discussione dei lavori al Festival in occasione delle pitching session, uno dei progetti partecipanti viene scelto per essere sviluppato a puntate sul sito e sui canali social di Festivaletteratura e della rivista Q Code Magazine. Negli anni sono nate produzioni originali capaci di raccontare realtà poco note del nostro Paese e non, talvolta completamente trascurate dalla stampa mainstream: città in rovina, universi lavorativi, eremi di silenzio, sanatori e sentieri dimenticati, quartieri difficili, paesaggi fluviali.

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