Il libro pubblicato da Tamu Edizioni è nella cinquina dei finalisti del Premio Inge Feltrinelli
La disabilità questa sconosciuta. Nonostante lo sviluppo sociale abbia portato alla implementazione di leggi e normative che prendono atto dell’esistenza della disabilità e quindi di bisogni che necessitino strumenti per essere esauditi, la nostra società è basata su una idea di normalità standardizzata alla quale fare riferimento.
Se da “vicino nessuno è normale” come recita il principio nato dal movimento che portò nel 1978 all’approvazione della legge 180, la cosiddetta legge Basaglia, l’idea di una separazione di vita tra disabile e abilista rimane presente nella vita quotidiana. La costruzione separatista di categorie umane, disabili, immigrati, anziani, giovani, donne, persone a basso reddito, disoccupati, ci mostra quotidianamente come i parametri di riferimento dominanti siano sempre gerarchici, dove in cima ci sia il mercato, la produttività il patriarcato, riferiti alla efficienza ed edonismo funzionali a questa scala gerarchica.
Se nel 2024 la questione femminile nei suoi diversi aspetti di mancanza e rivendicazione necessita del femminismo – ovvero “l’idea radicale che le donne sono persone” come dice Angela Davis – questo dà la misura di come l’apparenza inganna. E a sua volta la disabilità come si diceva all’inizio è ancora sconosciuta ed emarginata. In linea di principio “la disabilità è un tema che non divide. Nessuno direbbe di essere a favore della discriminazione delle persone disabili”, eppure questa condizione umana non è al centro della costruzione sociale. Anzi. Continua a generare pratiche culture implicite ed esplicite a parametri abilisti.
La disabilità definita come categoria sociale riduce e nega allo stesso tempo la pluralità delle persone e dei bisogni che la vivono. Si può essere disabili dalla nascita o divenire in un determinato momento della vita. La centralità della persona e dei suoi bisogni è la questione sine qua non, è la misura attraverso la quale valutare la natura e l’indirizzo culturale sociale e economico nella nostra società. Qualsiasi condizione umana definita in termini categoriali rischia di ridurre l’unicità delle persone e dei suoi bisogni, la persona disabile lo vive quotidianamente, con il rischio di forzare una serie di interventi affinché gli spigoli si smussino, i movimenti si sintonizzino, i linguaggi vengano tradotti, i comportamenti si adeguino alla norma.
La lotta nel riaffermare la dignità del vivere non deve essere a carico solo della persona disabile la cui condizione imposta la costringe quotidianamente volenti o nolenti a viverla, ma di chiunque creda che una civiltà si misura in termini di umanità nella costruzione di uno spazio e di un tempo che sia alla portata di tutte le persone.
Ilaria Crippi nel suo libro “Lo spazio non è neutro. Accessibilità, disabilità, abilismo” Tamu Edizioni, 2024, affronta la disabilità attraverso una lettura delle leggi, della ricerca scientifica della costruzione “abilista” su cui è basata la nostra società.
Una lettura vissuta in prima persona nella quotidianità di persona disabile, al bar, in vacanza, al lavoro, nell’urbanismo che ci interroga su come la visione abilista neghi l’esistenza della pluralità dei bisogni Per esempio basta osservare come le città siano in gran parte luoghi dove la/il disabile trovi difficoltà se non ostacoli insormontabili per usufruire degli spazi. Leggendo il libro di Ilaria Crippi si apprendono visioni ma anche interrogativi sul nostro vivere quotidiano segnato dall’abilismo. Un’implicita richiesta di verificare nelle pratiche quotidiane che le “norme” e la “normalità” sono convenzioni imposte e come tali possono essere superate solo se si considera che la dignità di vivere non può dipendere dal caso da una condizione imposta. “Gran parte delle discriminazione verso le persone disabili, ad analizzarle bene – scrive Ilaria Crippi – possono essere lette come effetti. E non solo quelle più dirette e palesi (dal genocidio al bullismo) ma anche quelle che, ammantandosi di una apparente normalità, costituiscono l’ossatura del nostro sistema sociale. L’insufficienza del sistema del welfare che non garantisce
l’assistenza personale necessaria alla vita indipendente, l’esistenza di strutture residenziali segreganti che limitano le libertà di base delle persone disabili, l’inadeguatezza di contesti scolastici, lavorativi, e così via, sono tutte situazioni che si sono create grazie all’idea che sia normale, di base, organizzare la società per rispondere alle esigenze di un certo tipo di persone e non di altre. Per le “altre” – la cui alterità è socialmente costruita proprio grazie al paradigma abilista – è accettabile aspettarsi una vita “altra”, più limitata, un pò meno umana”.

Come nasce la tua scelta di impegno sociale soprattutto nel mondo della disabilità,femminista e transfemminista?
«Per me impegnarmi nell’attivismo non è stata in realtà una scelta. Una mia conoscente un giorno mi parlò di “attivismo obbligatorio”, e l’ho trovato un termine azzeccatissimo. Muovendomi in carrozzina in un mondo inaccessibile, ho dovutolottare per guadagnarmi ogni spazietto di libertà. Faccio attivismo per riuscire ad andare a cena fuori, a frequentare circoli associativi, ad andare in vacanza, aprendere il treno. Lo devo fare per forza, tutte le volte che queste attività mi sono precluse per mancanza di accessibilità: o rinuncio, o lotto per renderle accessibili. Non è necessariamente un’attività che mi piace: spesso penso che ne farei volentieri a meno, e invidio chi non ha bisogno di fare l’attivista per guadagnarsi le libertà di base. Quindi, il mio attivismo è iniziato mandando mail per richiedere questo o
quell’adattamento, o scrivendo ai media o agli avvocati per denunciare una discriminazione. Dopo un po’ di anni ho avuto la fortuna di scoprire che c’è un’intera comunità di persone che fa questo e molto di più, e ho capito che l’attivismo poteva cercare anche soluzioni più strutturali, più collettive: non solo risolvere questo o quel singolo problema che mi tocca, ma lavorare affinché problemi simili non si ripetano, né per me né per altri. Questo è un lavoro più lungo che richiede (almeno) tre attività: lo studio dei problemi e delle normative, il rapporto con la rete di altre attiviste e associazioni, l’interlocuzione con le istituzioni o, più in generale, con chi detiene il potere di generare i cambiamenti che ci servono. Per me l’attivismo è soprattutto questo: generare cambiamenti concreti, dalla rimozione di una singola barriera all’aggiornamento di una legge o di una politica sociale. So che esistono altre forme di attivismo assolutamente utili e legittime, come quelle più centrate sulla promozione di consapevolezza. In un certo senso mi è capitato di farlo attraverso il libro, ma non la considero la mia core mission, ecco.
Non mi definirei, invece, un’attivista transfemminista; sostengo la battaglia ovviamente, ma ammetto che l’attivismo obbligatorio sulla disabilità non mi lasciaspazio per un impegno puntuale su altre lotte»
Nel tuo libro evidenzi la contraddizione tra coscienza della disabilità e realtà abilista. Quali sono a tuo avviso i tratti salienti dell’abilismo come cultura dominante ?
«La cultura abilista ci porta a dare per scontato che esista un modello “normale” di essere umano, ovviamente “abile”, la cui esistenza è prevista e i cui diritti sono ovvi. Fa sembrare naturale, atteso, inevitabile che chi non rientra in questo modello acceda a qualche fettina in meno dell’esperienza umana. Salvo sparute eccezioni, le persone non si scandalizzano, le piazze non si mobilitano perché le persone disabili non hanno sufficiente assistenza personale, sostegno scolastico o accesso ai luoghi pubblici. Anche a livello più “micro” e individuale, basta chieder conto della mancanza di accessibilità a un qualsiasi interlocutore per sentirsi sciorinare una serie di giustificazioni – tranquilla, ti aiutiamo noi a salire il gradino; ci spiace, ma non avevamo i fondi per l’accessibilità – che rappresentano il problema come un po’ ovvio, endemico, irrisolvibile, e di certo non un’emergenza o una priorità. L’abilismo fa sembrare normale che, in quanto persone disabili, la nostra libertà sia limitata; che altri soggetti, tendenzialmente non disabili, possano decidere se e a quali condizioni “concederci” accesso, nonché quanti soldi sono disposte a spendere per questo e a quali dei loro privilegi (spoiler: di solito nessuno) potrebbero eventualmente rinunciare.
Questa normalizzazione dell’esclusione è, a mio avviso, la conseguenza meno visibile dell’abilismo ma forse la più grave: infatti, bloccando sul nascere la consapevolezza del problema getta una pietra tombale sulle possibilità di cambiamento».
Le normative sulla disabilità hanno avuto un evoluzione . siamo passati dalla classificazione del 1980 che ancora guardava ai “corpi” al quella del 2001 che guarda all’interazione tra individuo e contesto. A tuo avviso le normative italiane hanno recepito questa evoluzione?
«In linea teorica le normative possono anche recepire questi principi: in fondo la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è legge anche in Italia. Il punto è purtroppo l’azionabilità e la concreta effettività di queste norme. Una legge è solo il primo passo di un processo molto complesso che dovrebbe portare dalla scrittura di una norma alla sua applicazione. Nel mezzo ci sono le persone, con la loro cultura, tendenzialmente abilista, che purtroppo ostacola».
Tra i diversi aspetti che tu evidenzi nella condizione della persona disabile ti riferisci “abilismo psicoemotivo, abilismo interiorizzato”. Cosa intendi?
«Si tratta di due concetti diversi. Abilismo psico emotivo è un’espressione coniata da Carol Thomas per indicare gli effetti psicologici della discriminazione delle persone disabili. Cioè: se vivo in una casa con le scale la conseguenza pratica è che non posso uscire, quella psicologica può essere la tristezza che deriva dall’isolamento, e così via. Anche il fatto di dover continuamente negoziare per avere accesso ai posti, perdere un sacco di tempo a gestire la burocrazia eccetera (il cosiddetto “lavoro invisibile della disabilità”) alla lunga incide sul benessere psicologico.
L’abilismo interiorizzato, invece, è l’abilismo che le stesse persone disabili hanno assorbito e che proiettano su di sé e sulle altre persone con disabilità. Molte ad esempio crescono aderendo alla convinzione di avere meno diritti, di non poter “pretendere” più di tanto, di dover essere “grate” per quel poco che la società concede loro, di non potersi lamentare o di doverlo fare senza “disturbare troppo”: questi sono tutti effetti dell’abilismo interiorizzato».
Quando si parla delle lotte per la difesa dei diritti umani e civili in generale si riferisce a immigrazione questione di genere, donne LGTBQ +, lavoro, più in generale stato sociale versus privatizzazione dell’economia e della vita. La disabilità spesso non appare. Qual è la tua opinione a riguardo?
«La disabilità soffre da sempre di una grande invisibilizzazione, sia come tema in generale che come questione sociale: è raro che la lotta antiabilista sia inquadrata come, appunto, una lotta contro le discriminazioni. Si parla ancora dei problemi delle persone disabili come di sfortune individuali, con una concezione che deriva dal modello medico della disabilità: ti è accaduta questa disgrazia, il tuo ruolo può essere o sfidare i tuoi limiti ammazzandoti di fisioterapia finché non vai alle paralimpiadi, o contare sulla solidarietà altrui e ringraziare molto se ti danno un lavoretto in cui incarti pacchettini a due euro l’ora. Non si visualizza il fatto che una bella fetta delle limitazioni che incontriamo deriva da un contesto inaccessibile ed escludente, che non ci prevede. Spesso non lo vedono neanche le persone disabili stesse, o certe organizzazioni che promuovono discorsi pietisti anziché basati su una richiesta di diritti. Finché manca questa consapevolezza, la questione non sarà oggetto di una lotta sociale al pari delle altre che hai citato. I movimenti attualmente un po’ più noti, come quello transfemminista, lgbtq+ e così via, sono fatti di persone cresciute anche loro in un contesto intriso di abilismo, per cui non sono necessariamente più consapevoli del resto della società. Negli ultimi anni ho visto comunque parte di questi movimenti iniziare a interrogarsi sul tema, e mi pare un bel segnale».