Cambia la mobilità delle persone, il loro lavoro e la loro salute. Quando riusciremo a cambiare anche noi nel modo in cui la affrontiamo? La crisi climatica, unita al turismo, sta sconvolgendo l’intero Nepal. Oltre che meta di trekking, questo Paese è un esempio di un’urgenza che non possiamo più ignorare.
Né le “bandierine”, né i templi, né il trekking rendono il Nepal esente dall’impatto della crisi climatica. Anzi, lo complicano, lasciando che si intrecci con dinamiche socio economiche interne e di osmosi turistica globale che ci consegnano il ritratto di un Paese che scivola in basso, ma ha diverse possibili vie di risalita. Alcune sono contenute nel nuovo report IOM (International Organization for Migration) dedicato alle migrazioni e alle dinamiche di genere. Altre sono nei racconti di chi vive in questa terra sognata dagli appassionati di montagna e troppo trascurata da quelli di diritti umani. Eppure, non è una novità: il Nepal è un Paese fragile. Lo affermava già nel 2011 la Banca Mondiale, definendo l’impatto della crisi climatica subito come «particolarmente forte, a causa del suo delicato ecosistema, delle variazioni topografiche e della dipendenza dai settori sensibili al clima, come l’agricoltura, l’acqua e la silvicoltura». Oggi, più di 10 anni dopo e con un grado in più di temperatura media annuale, la situazione non è migliorata, anzi.

Il report IOM si focalizza sulle due province di Karnali e Sudurpashchim, particolarmente ma diversamente vulnerabili perché geograficamente e socialmente peculiari, per andare in profondità e rendere tangibile come e quanto la crisi climatica stia ridisegnando le tante forme tradizionali di migrazione. Sia quelle interne che quelle verso l’esterno. Ne emerge un Nepal nuovo, aggiornato, con inedite dinamiche che spingono le persone in basso e all’esterno, ma regalano anche nuove opportunità. Seppure ancora ignorate, esse permangono sul territorio come le specie autoctone più resistenti, nonostante le frane e una crescente condizione di insicurezza alimentare, esacerbata dalla povertà e dal limitato accesso ai servizi di base.
Secondo IOM, il degrado dei terreni agricoli e l’intensificarsi di eventi meteorologici estremi stanno spingendo sempre più abitanti a migrare in cerca di condizioni di vita migliori. Questo comporta una doppia dose di nuove sfide: tante sono quelle per chi parte, sperando in un’occupazione nella capitale Kathmandu e in India, o definitivamente più lontano, negli Emirati Arabi, in Qatar e in Malesia. Altrettante ne emergono per chi resta e, ogni giorno, prova a coltivare un terreno che non è più lo stesso, sotto un cielo ormai del tutto inaffidabile.
Migrando, le persone portano con sé tante profonde e urgenti necessità, ma anche competenze, conoscenze e opportunità. IOM non manca di sottolinearlo, anzi, fa leva su questa evidenza ignorata per suggerire una serie di interventi che potrebbero alleviare parte delle sofferenze del Paese.
Per supportare e valorizzare chi parte, chiede «meccanismi di sostegno specifico per una migrazione più sicura, regolare e ordinata, come programmi di sviluppo delle competenze, campagne di informazione e opzioni di micro finanziamento». Per agevolare l’integrazione degli sfollati, chiede «non solo assistenza immediata, ma sostegno a lungo termine che crei opportunità di sostentamento e soluzioni di integrazione o ricollocazione. Per prendersi cura di chi resta, chiede “forti e innovative misure di riduzione del rischio di disastri».

Queste potenziali strategie di mitigazione e adattamento non possono promettere effetti a pioggia, e non sarebbe nemmeno opportuno lo facessero.
Non siamo tutti uguali di fronte alla crisi climatica, la sua ferocia accentua le differenze di genere, costringendo molte donne a portare fardelli più pesanti. Ciò accade “solo” perché sta cambiando il clima? No, l’attuale società nepalese (come molte altre nel mondo) presenta tutti i presupposti perché ciò accada, lasciando le donne con un limitato accesso all’educazione e vincolate dal punto di vista socio economico, oltre che da retaggi culturali mai sradicati.
In Nepal, il deficit di istruzione femminile raggiunge il suo picco massimo tra le donne Dalit che nel 73% dei casi non ne riceve alcuna, ma questa percentuale non è un outlier, un dato anomalo, visto che quella media non supera il 50%. IOM si riferisce alle sole donne delle aree considerate nel report, ma quando si tratta di giustizia climatica di genere, non c’è zona che non ne abbia bisogno.
La voce di Birendra Mahato lo conferma, invitandoci a spostare lo sguardo sul Distretto di Chitwan, noto per i suoi elefanti e la mostarda, meno per le sue sfide. Indigeno Tharu e direttore del Tharu Cultural Museum and Research Center, Mahato racconta come la crisi climatica «colpisca le donne in maniera accentuata, perché ha sconvolto le pratiche agricole tradizionali e ridotto notevolmente le possibilità di sostentamento di intere famiglie. Famiglie che già erano sulle loro spalle». Parla di picchi di caldo estivo di 42-43°C che rendono impossibile stare nei campi e farli produrre, e di coltivatrici costrette a usare spray e pesticidi per continuare a ricevere sostentamento dalla terra che da sempre le ha naturalmente nutrite. «Questa ondata di prodotti chimici dannosi, unita a condizioni di lavoro già molto pesanti per la mancanza di attrezzature all’avanguardia troppo costose, si trasforma in una concreta minaccia per la salute delle donne indigene. Siamo una popolazione povera, non resta molta altra scelta e i terreni che stiamo coltivando, spesso non sono o non saranno presto più nostri».
Sono “dei senza terra”. Non sono gli unici indigeni a definirsi così, ma la condivisione di una condizione di ingiustizia provante e ingiustificata non crea sollievo. Mahato insiste a raccontare quanto accaduto alla sua comunità, «perché la povertà e gli spostamenti ci rendono più che mai fragili. Tutti se ne accorgono, tutti mi chiedono e si chiedono cosa faremo per il prossimo anno, perché il problema del riscaldamento globale aumenta velocemente, ma non abbiamo scelta. Il governo non si impegna a sostenere realmente le popolazioni indigene anche quando colpite dal cambiamento climatico». Poi parla di numerose associazioni, «ma centralizzate nelle grandi città», di fondi internazionali, «che restano in mano a chi gestisce i programmi, senza arrivare a chi ne ha bisogno». E fa sempre riferimento a un “prima del Parco”. «Prima che fosse istituito, intendo: dopo molte comunità sono state spostate fuori, diventando ‘senza terra’ e povere», spiega.
Istituito nel 1973, primo parco nazionale Nepal, quello di Chitwan è spesso citato come un buon esempio di conservazione. Sophie Grig è andata a visitarlo di persona proprio per quello: «Stavo cercando un esempio positivo», ricorda. Come direttore delle campagne per l’Asia di Survival International, Grig ha approfondito l’evoluzione di questo parco ed è la persona giusta per ricostruire quanto accaduto. «Inizialmente non c’erano restrizioni, le attività della comunità indigena proseguivano regolarmente. Man mano hanno poi iniziato a vietarle di scavare, raccogliere, coltivare… le hanno reso impossibile vivere sul proprio territorio – racconta – raccontano di essersi sentiti come in gabbia, in una prigione aperta, senza poter dare da mangiare alle proprie famiglie. Così hanno chiesto di uscire, non volevano ma non avevano altra scelta. Ecco perché il messaggio che è stato trasmesso è che se ne sono andate volontariamente».
Lasciato il terreno protetto dal parco, alcuni hanno scelto di lasciare anche il Nepal, i giovani continuano a farlo, anzi, lo fanno sempre più spesso, e Mahato si dice fortemente preoccupato per il futuro della propria comunità indigena. «Alcuni guadagnano bene, riescono a comprare nuovi terreni e costruire case di proprietà. Ma altri restano dei senza terra, lavorano con salari giornalieri nelle case dei grandi proprietari, negli alberghi o come guide turistiche», racconta, lasciando la frase sospesa. Poi aggiunge un finale che chi ha visitato il Nepal potrebbe aver già intuito: «Solo nella mia zona ci sono oltre 200 alberghi e più di 60 ristoranti, ma la comunità indigena ne gestisce massimo una decina, e sono molto piccoli. Gli altri sono di persone straniere. Hanno venduto il nostro nome, hanno venduto la nostra cultura, hanno venduto il patrimonio naturale del Paese: si presentano come indigeni e ci usano per fare marketing».
Aumentando di quota, il turismo lascia più respiro agli abitanti del Nepal?
Difficile dirlo, anche se le immagini e numeri delle salite alle sue cime più note non lasciano immaginare notizie positive. A confermarlo personalmente sono Alok Sunuwar e Vijay Rai, entrambe guide della Nepal mountaineering association. «Quando non è ben gestito, anche nelle aree di trekking il turismo diventa causa di fenomeni come l’abbandono dei rifiuti e l’inquinamento acustico, entrando in chiaro conflitto con gli obiettivi di conservazione», spiega Rai. Sunuwar annuisce, descrivendo il forte degrado ambientale degli ultimi anni. «In un Paese come il nostro, il turismo può diventare un fattore positivo, se resta sostenibile dal punto di vista ambientale, culturalmente rispettoso, economicamente inclusivo e ben regolamentato – aggiunge – chi arriva non deve mancare di rispetto a costumi, tradizioni e pratiche religiose locali, ma creare un legame con l’ambiente naturale, la fauna selvatica e le comunità indigene».
Entrambi parlano di sfida: il turismo può portare molti profitti, ma a chi? La loro risposta è chiara: «La priorità va data alla conservazione dell’ambiente locale e ai diritti di chi ci vive. Le attività turistiche vanno pianificate di conseguenza, in modo scientifico, per garantire che non si arrechino danni. Anche per chi vuole fare solo affari, sarebbe più vantaggioso coordinarsi con gli abitanti e creare un piano d’azione comune, piuttosto che alimentare continuamente una competizione malsana».
Vale la pena di evitarla, quella con altre persone, perché con la crisi climatica la competizione nemmeno esiste: il riscaldamento globale sta mettendo in ginocchio tutto il mondo, turismo compreso. «In 14 anni da guida di trekking, mai visto un clima così imprevedibile. È sempre più difficile accompagnare persone ad alta quota e fornire aggiornamenti meteo accurati – racconta Vai – nei punti panoramici, in autunno e in primavera, ci troviamo spesso ad affrontare condizioni difficili, con venti forti e freddo estremo, il tempo cambia rapidamente e i percorsi ad alta quota possono diventare pericolosi». Sunuwar fa poi notare che «la tradizionale stagione del trekking è stata sconvolta da inverni precoci e prolungati, da monsoni tardivi e prolungati e da eventi climatici sempre più estremi. Come guide, non possiamo più affidarci allo stesso vecchio schema di sempre».
Ci vorrebbero corsi annuali di aggiornamento sulla crisi climatica studiati apposta per guide, al fianco di iniziative già in corso come quella di monitoraggio dei ghiacciai dell’ICIMOD (Centro Internazionale per lo Sviluppo Integrato della Montagna) e quella anti-degrado “Carry Me Back”, per invitare i turisti a riportare i rifiuti dal percorso di trekking del campo base dell’Everest a Lukla. Scendendo a quote più basse, ma allargando lo sguardo sull’intero Paese, quello che invece emerge è la necessità di iniziative maggiormente corali. Servono programmi che includano le comunità indigene e integrino le loro preziose competenze nelle linee guida sempre ancora imposte dall’alto e da fuori. E la crisi climatica non va affrontata ad hoc, non è un problema a parte ma pervasivo. Oggi fioccano programmi dedicati, illudono che si stia facendo il possibile, ma anche dal report IOM emerge chiaramente quanto restino separati da quelli “core” che il governo e le amministrazioni locali portano avanti, lasciando che si proceda su binari paralleli con una dispersione di forze e tempo che il Nepal, e in generale la Terra, non si può più permettere.