Il quinto e ultimo capitolo del reportage inedito di Jo Meg Kennedy, selezionato dalle giurie di Meglio di un romanzo per uscire a puntate sul sito del Festival e su “Q Code Magazine”
Questa è la storia di Radio Fresh Fm, nata a Kafranbel, Idlib, in Siria nel 2013. Ad accompagnare il lettore nella costruzione ed evoluzione della radio e nei processi di trasformazione dovuti alla rivoluzione e alla guerra saranno le voci dei fondatori della radio e il controcanto della giornalista Zaina Erhaim. I presupposti con cui Raed Faris, Hammoud Jounin e Khaled al Essa avevano fondato la radio e si sono battuti per difenderne l’esistenza, sono gli stessi per cui avevano aderito alla rivoluzione. Nelle parole di Raed Fares “le rivoluzioni sono idee e le idee non possono essere uccise con le armi”. La radio rappresentava queste idee e si poneva a disposizione e a rappresentanza della cittadinanza. Sono stati diversi i tentativi, del regime come di altri attori, di mettere a tacere la radio, ad oggi però continua ad emettere e a rappresentare la voce del popolo della rivoluzione siriana.
CAPITOLO QUINTO: UN NUOVO INIZIO
Raed Fares, Hamoud Junaid, insieme ad un giovane collega, Ali Dandoush, erano appena usciti dagli uffici di Radio Fresh, montando in macchina assieme. Il direttore era al volante e, dopo poco, notò un furgone argentato alle loro spalle. Prese una sterrata per allontanarsi, ma era già tutto deciso. Li stavano aspettando. All’angolo, il furgone accelerò, bloccando loro il passaggio e le portiere si aprirono di colpo. Scesero in quattro, mascherati e armati di mitragliatrici. Si udì una raffica di spari e un’istante dopo la vettura si era già allontanata.
Era il 23 novembre 2018.
Kafranbel era sotto l’influenza quasi totale di Hayyat Tahrir al-Sham (Hts), gruppo estremista, seppur in misura minore rispetto all’Isis, guidato da Abu Mohammad al-Jawlani, figura che, dopo anni di attività jihadista tra Iraq, Libano e Siria, ha progressivamente allontanato il gruppo dall’Isis e dalla rete di Al-Qaida, cercando di ridefinirsi politicamente. Il direttore di Radio Fresh era accusato di aver violato la linea editoriale imposta dal gruppo, ignorando i ripetuti avvertimenti a sostituire cinquanta giornaliste con altrettanti giornalisti. La radio, imperterrita, non si era piegata alle imposizioni dei gruppi armati che controllavano la città, e di conseguenza le minacce di morte nei confronti del direttore erano aumentate—soprattutto a partire dal 21 settembre 2018, giorno in cui l’avvocato per i diritti umani Yasser al-Saleem, al quale Raed aveva dedicato diversi post chiedendone il rilascio immediato, fu arrestato.
“Continuate con questo odio. Continuate con queste sedizioni. Ma vi metto in guardia contro Kafranbel. È tollerante e paziente, ma quando esplode, è una leonessa che difende i suoi figli e le braci del fuoco. Yasser Al-Saleem è stato arrestato a casa sua semplicemente perché ha parlato ed espresso un’opinione. Non è né un criminale né un assassino. Yasser Al-Saleem è stato arrestato solo perché ha parlato.” (dal post Facebook di Raed Fares)
Per questo però sia Fares che Junaid avevano scelto di vivere nell’edificio dell’Urb, sede della radio, rendendosi irreperibili. Il direttore aveva programmato di recarsi in Turchia sabato 24 novembre, cercava di essere il più cauto possibile. Ma neanche ventiquattro ore prima per le strade correva una voce: “Hanno ucciso Raed e Hamoud!”
I residenti erano accorsi subito per soccorrerli e riuscirono a salvare Ali Dandoush che, trovandosi sul sedile posteriore, si era raggomitolato per proteggersi dietro quello anteriore. Hamoud Junaid era morto sul colpo. Raed Fares invece, ancora vivo, era stato trasportato all’ospedale. I medici fecero il possibile per salvarlo, ma le sue ferite erano troppo gravi.
Circa due ore dopo, centinaia di residenti e amici di Raed Fares e Hamoud Junaid si riunirono all’ospedale per accompagnare i loro corpi in un’ultima parata per le strade di Kafranbel, prima verso la moschea principale, e infine al cimitero della città, dove sarebbero stati sepolti come martiri.
A livello internazionale arrivò solo un post su X, allora ancora Twitter. Lo scrisse il Presidente francese Emmanuel Macron:
“Raed al-Fares e Hamoud Junaid sono stati uccisi in modo vigliacco. Erano la coscienza della rivoluzione e si sono opposti pacificamente ai crimini del regime e dei terroristi. Non dimenticheremo i resistenti di Kafranbel.”
Intanto Hts avrebbe dovuto denunciare gli omicidi e avviare le indagini. Non lo fece. Sosteneva di proteggere i residenti ma nella pratica aveva smantellato la polizia locale, sostituendola con i propri combattenti e imponendo il loro regime alla città, in conflitto con la visione nazionalistica di Radio Fresh. Allora, il giorno dopo il delitto, gli attivisti siriani lanciarono una campagna sui social media contro l’uso delle maschere nella provincia di Idlib, utilizzando l’hashtag #remove_masks. L’indomani ancora venne organizzata una prima manifestazione, espressione della rabbia dei tanti cittadini. Molti dei partecipanti erano gli amici e i famigliari di Hamoud Junaid e Raed Fares, ma arrivarono anche diverse altre persone dai villaggi circostanti e dalle cittadine più vicine. Tuttavia, il numero di partecipanti non superò i cinquecento.
Per molti, Hts era il responsabile diretto degli omicidi. Anche la Rete Siriana per i Diritti Umani, in un documento successivo, suggeriva che Hts fosse quantomeno complice. Ahmad Jalal condivideva questa posizione e, dopo qualche giorno dalla perdita dei suoi colleghi e amici, decise di denunciare il gruppo tramite Facebook. La conseguenza fu immediata: il giorno dopo Hts perquisì la sua casa. Ma Ahmad Jalal non c’era. Era riuscito a fuggire nell’estremo nord di Aleppo, fuori dal controllo del gruppo. Anche le minacce di arresto e di morte non erano tardate ad arrivare – seppur non arrivassero da fonti ufficiali di Hts, ma da alcuni membri affiliati.
Abbiamo conosciuto Ahmad Jalal a partire dal primo capitolo come il fumettista della radio, ma ha fatto molto di più. Per Radio Fresh aveva lavorato su diversi programmi che si occupavano di trasmettere notizie e quando era necessario lavorava anche sul sito web Fresh Online. Lui stesso ha chiarito:
“Mi sono specializzato nella carta stampata e sono stato a lungo caporedattore della rivista locale Al-Mantara. Ho anche lavorato come istruttore di Photoshop presso il centro di formazione istituito da Urb.”
Aveva conosciuto Raed Fares, Hamoud Junaid e Khaled al-Issa dopo il 4 luglio 2011 quando l’esercito di Assad aveva occupato Kafranbel. Chi prima aveva partecipato alle manifestazioni lasciò la città, perché passibile di arresto, trovando rifugio nei frutteti delle campagne e nei villaggi circostanti. Ahmad ricorda:
“Con l’aumentare della frequenza delle manifestazioni, iniziarono ad apparire striscioni ma al tempo si trattava ancora di iniziative individuali dei singoli manifestanti. Tra di loro c’ero anch’io, che andavo sempre con un gruppo di miei amici, e c’era Raed che si avvaleva dell’aiuto del suo gruppo di amici per scrivere gli striscioni, ma ancora non ci conoscevamo” – nel primo capitolo trovate il link alla pagina Facebook di Raed dove in una fotografia Hamoud e Khaled stanno lavorando su uno dei famosi striscioni – “Ho conosciuto Raed, Hamoud e Khaled quando ci siamo riparati nelle campagne. Non eravamo più di centro e siamo diventati il nucleo del movimento rivoluzionario civile e militare successivo.”
Secondo Ahmad, Hamoud Junaid aveva uno spiccato senso dell’umorismo.
“Gli abitanti di Kafranbel sono generalmente caratterizzati dal senso dell’umorismo e da uno stile sarcastico nelle loro conversazioni quotidiane. Questo si rifletteva nel black humor degli striscioni. Hamoud aveva la capacità di portare un sorriso sui volti di tutti anche nelle circostanze più difficili. Khaled era sempre sorridente ed era coraggioso nonostante la sua giovane età. Raed era una persona unica. Era un oratore eloquente, con uno stile logico e forte nelle discussioni e nella presentazione delle idee. Aveva una forte capacità di lettura della realtà e una visione chiara del futuro.”
A distanza di una settimana dal delitto, venne organizzata una seconda manifestazione. Questa volta i partecipanti erano pochi, appena trenta persone tra parenti e amici più intimi, perché era girata la voce che le forze di sicurezza affiliate a Hts sarebbero state presenti. Nonostante ciò, i manifestanti si fecero sentire: diedero voce alla loro rabbia e alcuni accusarono apertamente Abu Muhammad al-Joulani, incolpandolo del crimine. Quel giorno, insieme ai manifestanti, c’erano anche dieci corrispondenti locali per documentare l’evento. Ahmad Jalal, che non era presente visto il rischio che correva da quando aveva pubblicamente denunciato Hts, aveva però chiesto loro di girargli i materiali della giornata. Molti però gli risposero dicendo:
“Nessuno di noi osa pubblicare foto della protesta sulle nostre pagine personali. Ti invieremo via e-mail le foto e potrai pubblicarle se lo desideri.“
La loro paura era giustificata. I materiali fotografici includevano gli striscioni che erano stati creati da Ahmad Jalal per l’occasione che a differenza di quelli della prima protesta, erano forti e diretti. Il fumettista aveva dichiarato a Syria Untold che:
“Sfortunatamente, non mi hanno inviato nulla via e-mail per paura che Jabhat al-Nusra potesse scoprirlo, se fossi stato arrestato. Quindi, ho usato le foto scattate da un amico e le ho pubblicate. Ho creato il mio ultimo disegno il 30 novembre 2018, una settimana dopo che Jabhat al-Nusra ha assassinato Raed Fares and Hamoud al-Juneid. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo mentre ci stavo lavorando. Anche se non fossi stato arrestato o assassinato, sarei stato sfollato e non avrei potuto più fare disegni per le proteste. […] Il regime di Assad, lo Stato islamico (Isis) e Jabhat al-Nusra mi hanno ripetutamente minacciato per lo stesso motivo. È stato perché ho criticato e denunciato i loro crimini attraverso caricature e striscioni. Le minacce di Jabhat al-Nusra erano diverse perché non mi prendevano di mira direttamente. […] Mi nascondevo a Kafranbel a casa di un conoscente. Non uscivo mai di casa perché è troppo rischioso. E il pericolo è reale. Posso dire di vivere in una buca che ho scavato per me stesso. Poiché al momento non ci sono manifestanti che osano alzare i miei striscioni, sono ricorso ai social media per criticare Jabhat al-Nusra. Ho dovuto lasciare Kafranbel qualche giorno fa perché Jabhat al-Nusra ora ha più tempo per inseguirmi, con la sua battaglia con le fazioni dell’Esercito siriano libero (Fsa) conclusa. Ora mi trovo in aree al di fuori del loro controllo.”
In effetti, il suo ultimo disegno realizzato a Kafranbel e sfoggiato dai suoi cittadini in una manifestazione risale al 30 novembre 2018. Da allora però ha continuato a disegnare e a pubblicare i suoi lavori sulla sua pagina Facebook.
Inviava ad alcuni lavori ad amici di Kafranbel che partecipavano ancora alle manifestazioni, soprattutto a quelle contro le politiche di Hts a Idlib. Questi stampavano i suoi disegni per poi esporli alle manifestazioni.
Un pensiero che iniziava ad essere sempre più condiviso dalle persone di Kafranbel era che il destino dei territori controllati dall’opposizione (quale che fosse l’opposizione) non dipendeva dalla lotta pacifica o armata, ma dagli accordi internazionali. Infatti, la perdita di Raed, Hamoud e Khaled, non era stata solo la perdita amici o di colleghi, ma di figure rivoluzionarie significative che hanno influenzato il movimento civile e il suo declino in gran parte della regione. Le proteste pacifiche avviate dai ribelli nel 2011 non è che avessero perso la loro incisività, ma la realtà dei fatti era che, nel 2018, chi aveva creato questi movimenti se non arrestato/a o sfollato/a era martire.
“Ciò ha in gran parte influenzato il movimento. Oggi serve una categoria coraggiosa di persone in grado di prendere posizione e di dare una svolta. Ma, alla fine, le proteste pacifiche falliscono, ma non muoiono. Ci saranno sempre persone coraggiose e puntiamo sulle giovani generazioni.“
Per quanto riguarda Radio Fresh, sebbene l’ufficio stampa avesse cessato di essere attivo e l’organizzazione Urb, dopo la morte di Raed e Hamud, fosse stata sottoposta a restrizioni riducendo al minimo il personale nei suoi progetti e attività, la perseveranza della radio si è basata sugli insegnamenti dati dai fondatori, che erano stati in grado di crescere una generazione di attivisti, professionisti dei media e giornalisti che avrebbero potuto seguire le loro orme. Mohammad al-Setif, entrato a far parte del team di Radio Fresh nel 2014 come redattore ed emittente, a seguito dell’uccisione dei suoi colleghi nel 2018, in un’intervista aveva dichiarato di voler “continuare a diffondere le preoccupazioni della gente, servire le idee della rivoluzione, e parteciparvi attivamente”.
Eppure il momento non era dei migliori. Kafranbel e più in generale il governatorato di Idlib nel 2019 stavano per entrare in un periodo drammatico, soprattutto perché la Pace di Sochi lasciava il posto a una escalation di violenza. Inizialmente, Russia e Turchia si contendevano il controllo del governatorato, ma nel corso dell’anno si arrivò a vedere pattugliamenti congiunti, segnale di una convergenza di interessi tra le due potenze. Inoltre, sebbene la parabola dell’Isis fosse ormai giunta al termine in questa regione, Mosca continuava a lanciare bombardamenti, affiancata da Damasco, che intensificava gli attacchi aerei. Questi raid costrinsero i civili a spostarsi, aggravando la crisi umanitaria in un territorio già sovraccarico di sfollati provenienti da più zone del Paese (Response Coordination Group). Di conseguenza la redazione di Radio Fresh, diretta da Abdullah Kalidou, decise di implementare alcune misure di precauzione, spostando la maggior parte dell’attrezzatura e del personale in un luogo più sicuro, segreto, fuori da Kafranbel, anche su consiglio di Abdulwarith Al-Bakour, Direttore di Urb e supervisore di Radio Fresh.
La sede ufficiale di Radio Fresh era già stata colpita da un barile bomba all’inizio di maggio del 2019, poi a seguire il 23 maggio con missili a lungo raggio e anche il 7 dicembre da ben due barili bomba. Rispetto al primo attentato subito il vice direttore della radio, Faris Ali Al Sheikh, spiegò come nella sede della stazione quel giorno fossero presenti ancora alcuni impiegati che trasmettevano con un’attrezzatura minima. Gli Osservatori del territorio però, affiancati dalla protezione civile siriana, riuscirono a salvarli svolgendo perfettamente il loro lavoro, avvertendoli per tempo dell’attacco in modo che potessero evacuare l’area. L’attacco provocò ingenti danni ai mobili, alle telecamere, alle attrezzature per l’addestramento, ai materiali per l’ufficio e al generatore principale della stazione. Gli Osservatori svolsero un lavoro prezioso anche prima dell’attacco del 7 dicembre 2019 perché fecero evacuare l’edificio in modo che la stazione potesse comunicare via radio che elicotteri, presumibilmente del regime, stavano sorvolando la zona. In questo caso però, i due barili bomba resero del tutto inagibili il palazzo dell’Urb, costringendo quindi non solo Radio Fresh ma anche le altre organizzazioni della società civile a trasferirsi nella città di Salqin, nel governatorato di Idlib. Subito dopo l’attacco moltissimi video di giornalisti – tra cui Hadi Al Abdullah -, attivisti e cittadini mostrarono i gravi danni subiti dall’Urb, confermarono l’ora dell’offensiva e mostrarono anche i danni ad una scuola che affiancava l’edificio dell’Urb. In questa occasione venne istituita una squadra investigativa che visitando il luogo dell’incidente, documentò la presenza di un cratere largo un metro e mezzo e profondo sessanta centimetri. Gli uffici di Radio Fresh erano coperti di macerie con le pareti distrutte, come il resto degli uffici del palazzo. Le indagini non riuscirono a identificare con certezza i responsabili dell’attacco, sebbene le dichiarazioni dei testimoni e i dati di osservazione dei voli indicassero il regime siriano come probabile responsabile.
Nonostante tutto ciò, il lavoro svolto dai giornalisti e lavoratori dei media in Siria quell’anno stavano assumendo una piega diversa nelle percezioni della società civile. A otto anni dalla loro nascita, Enab Baladi, un media indipendente nato a Darayya nel 2011, stava conducendo un progetto di autoanalisi, con l’obiettivo di confrontarsi attraverso un sondaggio rivolto alla società civile. Il 21% dei cittadini dichiarava che l’effettività e l’incisività dei media indipendenti fosse irrilevante, il 29% li considerava positivi, mentre il 49% li giudicava negativi. Il punto significativo è che, dopo aver somministrato il medesimo sondaggio anche ai giornalisti, i risultati e le opinioni non erano poi tanto diverse da quelle della società civile. Il 23% riteneva che i media indipendenti avessero avuto un’influenza positiva, un altro 33% ne riconosceva un impatto neutrale, mentre il 42% lo valutava negativamente. Anche Zaina Erhaim scrisse un articolo in cui esprimeva preoccupazione per la traiettoria che i media indipendenti stavano assumendo. Se nel 2011 il loro avvento aveva rappresentato una svolta, otto anni dopo, tra pressioni politiche e una crescente frammentazione interna, i media indipendenti apparivano indeboliti. Enrico De Angelis in merito sostiene che “a un certo punto coprire una guerra, quando diventa chiaro che quella copertura non riuscirà a fermarla, scatena una serie di conflitti etico-professionali”. Un esempio particolarmente emblematico riguarda i fotoreporter e il loro rapporto con la società civile. Se all’inizio molti siriani accettavano di condividere il proprio dolore, sperando che la loro testimonianza potesse contribuire a fermare la guerra o a innescare processi di accountability, con il tempo, quando quella speranza si è spenta, il rapporto tra fotografi e cittadini si è fatto sempre più altalenante. Enab Baladi ha evidenziato questo aspetto anche per i giornalisti, in un articolo del 2022, Syrian detainees’ coverage highlights state and alternative media opportunism, nel quale si analizzavano le dinamiche di opportunismo legate alla copertura mediatica dei detenuti. Zaina Erhaim sottolineava inoltre due fattori principali che hanno contribuito a questo distacco: il primo riguarda il mutamento della percezione pubblica degli attivisti – inizialmente elogiati per il loro coraggio, poi accusati di fomentare la violenza; il secondo è legato alla disparità economica, aggravata dalla retribuzione in valuta estera di molti professionisti del settore, che ha acuito le tensioni di classe con il resto della popolazione. Tuttavia, Zaina concludeva con una nota di speranza, invitando i media indipendenti a recuperare la loro missione originaria: raccontare la verità, resistere alle manipolazioni politiche, riallacciare il contatto con il pubblico e mettersi al servizio del popolo, denunciando tutte le violazioni, non solo quelle del regime, ma anche quelle delle forze di opposizione.
A livello nazionale e internazionale quell’anno, il 2019, è stato l’anno in cui la normalizzazione del conflitto si è maggiormente radicata. Diversi elementi lo dimostrano: innanzitutto si è iniziato a discutere della riapertura delle ambasciate. Gli Emirati Arabi riaprirono la propria ambasciata mentre Arabia Saudita e Italia iniziarono a valutare questa possibilità. Ciò significava accettare e normalizzare la presidenza di Assad, abbandonando il concetto “no alla ricostruzione senza transizione”, nato negli anni precedenti – idea alla quale l’Europa era stata legata ma che progressivamente aveva perso forza davanti all’incapacità di concretizzare la transizione auspicata da Bruxelles. Di conseguenza, si iniziò a discutere della riammissione della Siria nella Lega Araba, poiché era ormai evidente che Assad sarebbe rimasto al potere grazie al sostegno di Russia e Iran. Questi Paesi, insieme alla Siria, avrebbero inoltre goduto della decisione statunitense di ritirarsi dal paese, il che gli avrebbe consentito di esercitare una maggiore influenza territoriale, tanto è vero che viene rievocatal’Intesa di Adana del 1998 in funzione antiturca. Questi sviluppi davano l’impressione che la guerra in Siria fosse vicina alla conclusione; tuttavia, la realtà sul terreno raccontava una storia ben diversa. A partire da Kafranbel dove i bombardamenti erano diventati talmente tanto violenti che a detta di Ahmad Jalal “l’intera popolazione di Kafranbel è stata sfollata prima che l’esercito del regime la ri-occupasse per la seconda volta il 25 febbraio 2020” – sebbene il 2020 sia stato un anno segnato da una relativa stabilizzazione militare, frutto del consolidamento dell’intesa tra Mosca e Ankara attraverso il negoziato di Astana. Il negoziato prevedeva la suddivisione di Idlib: il nord sarebbe passato sotto l’influenza turca, tuttavia gestito da milizie filo-turche, tra cui Hts – che aveva deciso di allinearsi con Ankara – e il sud, invece, sarebbe stato posto sotto il controllo congiunto di Damasco e Mosca. A contribuire alla stabilizzazione militare c’era anche la consapevolezza che Assad avrebbe mantenuto il potere in assenza di alternative al suo governo. La sua rielezione alle elezioni del 2021 appariva inevitabile (come poi è stato del resto), tanto che il Presidente è rimasto immune all’indagine condotta dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opac), che per la prima volta attribuiva al suo governo la responsabilità di tre attacchi chimici nel 2017 – condanna che conferma la teoria di al-Haj Saleh, che abbiamo visto nel precedente capitolo.
Il Paese però, nel contempo, affrontava una crisi economica senza precedenti e l’arrivo del Covid-19. La crisi economica era dovuta a tre fattori principali, a partire dalla drastica svalutazione della lira siriana: un dollaro valeva 3.000 lire nel 2020, quando qualche anno prima ne valeva appena 50. Il secondo elemento è stato il crollo del sistema finanziario libanese, storicamente “il polmone economico per la Siria”, come sottolineato da Massimiliano Trentin, che ha spiegato come il collasso del sistema bancario di Beirut abbia bruciato milioni di dollari di risparmi siriani depositati nelle sue istituzioni finanziarie. Il colpo di grazia infine è stato dato dalle sanzioni internazionali, in particolare dal Caesar Act. La legislazione statunitense mirava a bloccare la ricostruzione della Siria senza una soluzione politica accettata da Washington, nel tentativo di riequilibrare la sua influenza sul territorio. Tuttavia queste sanzioni hanno avuto l’effetto di interrompere il processo di normalizzazione diplomatica con alcuni Paesi che erano invece interessati a investire nella ricostruzione post-bellica, ostacolando quindi una stabilizzazione economica che avrebbe potuto alleviare le sofferenze della popolazione. Nelle parole del professor Trentin, “dal 2020 le condizioni di vita nella Siria, anche quella Siria direttamente governata da Damasco, sono peggiorate in maniera violentissima, come mai era accaduto dall’inizio della guerra, sfociando in un vero e proprio stallo”, con la conseguenza che si sono sollevate nuove ondate di proteste in varie regioni tra cui Suwayda, Jaramana e Idlib.
Sei milioni di persone avrebbero avuto bisogno di aiuti umanitari, soprattutto nei campi informali del nord-ovest. A Idlib in particolare le Nazioni Unite avevano documentato una nuova ondata di sfollati, il cui arrivo però si è interrotto a causa della mancanza di sicurezza nel governatorato provocata dei bombardamenti governativi. Nel frattempo, il Covid-19 era arrivato nel Paese, colpendo duramente le regioni più vulnerabili. Inizialmente, Assad negava la presenza del virus sul territorio, sebbene avesse adottato misure precauzionali come la chiusura di scuole, università e attività pubbliche. Tuttavia, queste misure si sono rivelate insufficienti e la mancanza di strutture sanitarie adeguate soprattutto nel nord-ovest, ha aggravato la crisi. Molti ospedali infatti erano stati bombardati negli anni precedenti lasciando il sistema sanitario al collasso. Anche questo aspetto a mio avviso si collega alla teoria di al-Haj Saleh. Durante la guerra, le strutture sanitarie sono state sistematicamente prese di mira, come documentato nel film For Sama della regista Waad Al-Kateab. Oltre alla distruzione degli ospedali e alla mancanza di rifornimenti essenziali per garantire la sopravvivenza dei pazienti, il personale sanitario è stato preso di mira, come accennato nel primo capitolo. Questa strategia è proseguita nel tempo, come dimostra il bombardamento di un ospedale a Idlib riportato da Al Jazeera il 3 dicembre 2024, a pochi giorni dalla caduta del regime. Tale pratica, lasciata impunita, è slittata anche fuori dai confini siriani. Infatti, giusto qualche mese prima, il 10 ottobre 2024, le Nazioni Unite avevano pubblicato un report sui crimini di guerra commessi da Israele, tra cui attacchi deliberati agli ospedali. Evento che sebbene sia stato riportato mediaticamente come una novità, ha avuto innumerevoli precedenti fino a che si è arrivati alla normalizzazione di questa pratica permettendo che il limite venisse superato senza conseguenze reali.
Nel corso del 2020, Radio Fresh era diventata un fantasma: pochi finanziamenti e una redazione ridimensionata. Ma la voce non si spegneva, continuava a trasmettere. Il direttore, Abdullah Kalidou, l’aveva detto chiaramente: “La radio è la voce del popolo”. Era naturale, dunque, che continuassero. E a due anni dal suo assassinio, a Raed Fares venne assegnato i l“Premio per il Coraggio Giornalistico”. Né Hammoud Junaid, né Khaled al-Issa, né tantissimi altri giornalisti e media workers caduti nel conflitto ricevettero alcun riconoscimento. Nelle parole di Iyad El-Baghdadi:
“Non lasciatevi dire che non ci sono brave persone in Siria. Ci sono, ma il mondo sceglie di ignorarle mentre sono in vita, per poi celebrarle solo dopo la loro morte” (Iyad el-Baghdadi sul “Washinghton Post”)
A istituire il premio era stato il Legatum Institute, un think-tank con sede a Londra. Il “Premio per il Coraggio Giornalistico” era nato nel 2018 dopo l’uccisione della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia—assassinata con un’autobomba nell’ottobre 2017.
“Il premio viene assegnato postumo a un reporter la cui morte, nell’ultimo anno, sia stata una diretta conseguenza del suo lavoro.”
Mi ricordo che alla notizia di questo premio reagii con un sentimento di rabbia e amarezza: quale criterio utilizzano per scegliere a chi assegnare il premio tra decine di giornalisti uccisi sul campo? Perché non vengono commemorati tutti? Perché premiare un giornalista solo dopo la sua uccisione? Il suo lavoro non aveva già un valore in vita? Ma soprattutto: perché si premia il coraggio del singolo, costringendolo a farne una garanzia per la propria sopravvivenza in mancanza delle condizioni di sicurezza necessarie a svolgere il suo mestiere? Invece di assegnare premi per il coraggio perché non mobilitarsi per restituire dignità a quel lavoro? Com’è possibile che abbiamo sostituito a un processo di accountability un premio per il coraggio?
E la criticità non sta nella consegna di un premio – il riconoscimento e la celebrazione del loro lavoro è doveroso – ma nell’elemento temporale. Tutt’oggi si continua a sostituire l’accountability con un premio, e questo, a mio avviso, si lega di nuovo a quanto detto da Yassin al-Haj Saleh, e dunque alla nostra attualità. Basti pensare che lo scorso 5 maggio, il poeta gazawi Mosab Abu Toha ha vinto il Premio Pulitzer. E ancora una volta, viene da chiedersi: c’era bisogno di un genocidio in corso per riconoscere il valore del suo lavoro?
Il 2021 ha segnato il decennale dall’inizio del conflitto e, dopo dieci anni, i fattori di instabilità restavano presenti. Tuttavia Idlib si era trasformata in un centro politico, economico e culturale di grande rilevanza. A influire era stato anche il ruolo della Turchia – reso in parte possibile dal tacito consenso di Russia e Iran – con la guida di Hts. Il gruppo aveva progressivamente avviato un processo di cambiamento interno:
“hanno instaurato un governo civile a Idlib e hanno gradualmente rimosso la maggior parte degli estremisti. Il gruppo ha adottato la bandiera della rivoluzione siriana e il discorso nazionalista della rivoluzione,”
ha spiegato Ahmad Jalal, che ha aggiunto:
“Personalmente, credo in questo cambiamento perché chi ha vissuto quegli eventi ne comprende la portata e la profondità”.
Anche il processo di normalizzazione del regime proseguiva, in particolare nel 2022, il presidente siriano Bashar al-Assad si recò negli Emirati Arabi Uniti, segnando un passo significativo verso la normalizzazione diplomatica tra Damasco e il mondo arabo. La visita riaprì il dibattito sulla riammissione della Siria nella Lega Araba. A sostenerne il ritorno furono Algeria, Egitto e Emirati, mentre Qatar e Turchia si opposero. Quando la Siria venne ufficialmente riammessa nel 2023, il significato politico fu evidente: una riabilitazione internazionale del governo di Assad.
Il processo di normalizzazione proseguiva lungo la sua traiettoria anche all’interno dei confini statali. Un esempio emblematico del 2022 furono le fotografie di Bashar al-Assad e la sua famiglia mentre camminavano per le strade di Aleppo che non avevano frequentato dal 2011, dando l’impressione di una città che non aveva conosciuto la guerra.

Visita della famiglia Assad alla città di Aleppo. Foto tratta dalla gallery dell’articolo “Syria’s Assad tours once rebel-held Aleppo city, power plant”, Syrian Presidency Facebook Page via AP, 08/07/2022. © Tutti i diritti riservati.
Il Presidente pubblicava su Twitter i luoghi simbolici della città che visitava, tra questi, la storica moschea Omayyade di Aleppo, gravemente danneggiata dai bombardamenti. L’agenzia di stampa governativa Sana riportò che, dopo aver recitato le preghiere presso la moschea Sahabiy Abdallah bin Abbas, Assad inviò un messaggio di auguri per le celebrazioni dell’Eid ai siriani e ai soldati.
Il 2022 fu anche l’anno in cui la guerra in Ucraina iniziò ad avere effetti sulla Siria. Il conflitto irrigidì le posizioni sul territorio sia per gli Stati Uniti che per la Russia, interrompendo bruscamente i negoziati per la stabilizzazione. Se prima Mosca e Washington cercavano un accordo tattico per garantire la fornitura di aiuti militari e facilitare il ritorno dei profughi, la guerra in Ucraina fece definitivamente saltare l’intesa. Inoltre, la fornitura degli aiuti umanitari nel paese finì per essere ulteriormente distribuita a singhiozzi a seguito del terremoto del 2023. Essendo che il contesto internazionale era caratterizzato da tensioni preesistenti e sanzioni ciò non ha fatto altro che ostacolare maggiormente un intervento coordinato e collaborativo in Siria. Nel nord-ovest, il terremoto ha fondamentalmente distrutto quelle poche infrastrutture già compromesse da anni di guerra – com’è stato per Kafranbel – e qui, più in generale nel governatorato di Idlib gli aiuti umanitari provenivano principalmente dalla Mezzaluna Rossa e dai Caschi Bianchi, ma la loro distribuzione era gestita da diverse milizie e gruppi armati, tra cui Hts. Idlib è stata una delle regioni più colpite dal sisma, ma questo non ha impedito alla Russia, nel corso dell’anno, di intensificare i bombardamenti sulla provincia, questa volta mirati specificamente contro Hts.
Nonostante le difficoltà nel far arrivare soccorsi nelle aree più colpite, il terremoto ha paradossalmente rafforzato il governo centrale, accelerandone la reintegrazione diplomatica. Tanto è vero che si sono verificati in questo caso interventi coordinati e collaborativi per effettuare il rimpatrio dei siriani, processo che ha effettivamente preso forma nel 2024. In Libano, la questione dei rifugiati è diventata un tema altamente politico e mediatico, alimentando tensioni interne che hanno accelerato tale processo. Per la prima volta, il 14 maggio, 200 siriani – un numero esiguo rispetto ai quasi due milioni presenti sul territorio libanese – sono stati riportati, nonostante l’azione fosse stata definita come “volontaria”, attraversando il valico informale di Zamrani. L’episodio è stato gestito dalla Sicurezza generale libanese, mentre sul lato siriano il controllo è stato affidato a un’entità chiamata Sicurezza nazionale, di cui si conoscono pochi dettagli.
Anche in Europa, la questione del rimpatrio ha suscitato dibattito, nonostante fosse evidente che la Siria non fosse ancora un paese sicuro. Per l’Italia però la Siria lo era, tanto da riaprire l’ambasciata italiana a Damasco nel luglio 2024. Ristabilire un dialogo con la Siria era senza dubbio importante, anche per ragioni umanitarie, come sottolineava Massimiliano Trentin, in quanto “c’è una dimensione umanitaria che è costante a tutte queste crisi”. Tuttavia, ignorare i crimini di guerra e non avviare un reale processo di accountability rendeva questo riavvicinamento inefficace. La Siria continuava a essere un paese insicuro per il rientro dei suoi connazionali. A dimostrarlo è la vicenda di Mazen al-Hamada, originario di Deir ez-Zor, arrestato dopo aver partecipato alle proteste del 2011. Dopo anni di prigionia e torture nelle carceri del regime, riuscì a fuggire trovando asilo nei Paesi Bassi, dove raccontò gli abusi subiti dai detenuti siriani come spiega il giornalista Shady Hamadi. Nel 2021, con il processo di normalizzazione in corso, alcune persone vicine all’ambasciata siriana a Berlino gli promisero che, rientrando in Siria, avrebbe ottenuto un’amnistia in cambio del suo silenzio. Nel 2024, Mazen si fidò. Fu nuovamente arrestato e ucciso: non gli fu concesso di vedere il giorno della caduta del regime di Assad. Quella mattina, migliaia di siriani hanno circondato la prigione liberata di Sednaya, cercando i propri familiari e cari. Sednaya è l’immagine degli ultimi 14 anni. Nelle parole di Shady Hamadi, questo si lega profondamente al discorso di al-Haj Saleh:
“Sono d’accordo con al-Haj Saleh e credo che la sua affermazione trovi una rappresentazione perfetta in Sednaya. Un carcere di cui tutti conoscevano l’esistenza e le pratiche. I report testimoniavano da anni ciò che accadeva all’interno, ma si è fatto finta di nulla. Nessuno è mai intervenuto, nemmeno politicamente, per fermare gli abusi. Neppure quando il carcere è stato liberato e sono emerse tutte le verità nascoste, tra cui quanto è stato riportato dal cosiddetto ‘becchino’.
Nonostante fosse ormai sotto gli occhi di tutti, non c’è mai stato un mea culpa da parte della comunità internazionale. Mai un’ammissione definitiva: ‘Sì, sapevamo, e ora non possiamo più negarlo.’ E così, neanche ora, neanche dopo tutto questo tempo, è stato attribuito a questo evento il giusto peso.“
Il corpo di Mazen al-Hamada è stato rivenuto insieme ad altri di alcuni detenuti di Sednaya come scritto da Shady Hamadi nel suo articolo Siria, ecco chi ha venduto l’attivista Mazen al Hamada al regime di Assad: “È stato un commerciante olandese pagato 800mila euro. Sebbene non abbia potuto assistere alla caduta del rais, i cittadini l’hanno accompagnato per l’ultima volta lungo le strade di Damasco finalmente liberate, prima di seppellirlo come martire.
Il processo che ha portato al crollo del regime aveva avuto inizio il 27 novembre, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele. Poche ore dopo, le forze jihadiste filoturche di Idlib hanno lanciato un’offensiva su vasta scala, conquistando Aleppo nella notte del 29 novembre e spingendosi fino a Hama e Homs. “Kafranbel è stata liberata il 30 novembre 2024”, ha raccontato Ahmad Jalal:
“Mi sono recato lì poche ore dopo la sua liberazione. Avevo portato con me uno striscione che avevo disegnato molto tempo prima, sperando che la città in futuro sarebbe stata liberata. Il disegno mostrava un’immagine della città, con la Grande Moschea al centro, la bandiera rivoluzionaria a forma di arcobaleno e i volti dei martiri: Khaled al-Issa, Raed Fares e Hamoud al-Junaid. In fondo allo striscione c’era la scritta ‘Kafranbel liberata’ al posto della versione precedentevche leggeva ‘occupata’.”
Intanto, la ritirata delle forze russe aveva indebolito la difesa governativa, mentre la presenza iraniana si è dissolta nel caos del conflitto. Il governo di Assad è crollato, abbandonando Damasco, mentre i gruppi ribelli avanzavano verso la capitale. La notte della caduta del regime, Ahmad Jalal si trovava a nord di Aleppo, dove tutt’oggi vive perché Kafranbel è inagibile a causa della distruzione che ha subito.
“Quella sera ero rimasto sveglio fino a tardi con mia moglie per seguire le notizie. All’alba, abbiamo appreso dell’arrivo nella capitale delle forze di opposizione e della fuga del criminale Bashar. È stato un momento di straordinaria emozione. Dopo 14 anni di sofferenze e immensi sacrifici, dopo sentimenti di tradimento, impotenza e disperazione, la rivoluzione ha finalmente trionfato. All’alba mia moglie ed io siamo subito usciti per andare in centro a festeggiare con migliaia di altre persone. Nell’aria c’erano spari celebrativi, accompagnati da canti, slogan, e ancora altri canti ma anche pianti. È stato un insieme senza precedenti di gioia, stupore e altre emozioni.”
Nelle parole di Abdulwarith Al-Bakour, Direttore di Urb e supervisore di Radio Fresh:
“L’annuncio della caduta del regime siriano era sempre stato un sogno che coltivavamo fin dallo scoppio della rivoluzione. Era un momento che attendevamo con impazienza e per il quale ci siamo sacrificati completamente, tanto che il suo impatto su di noi ci è sembrato un miracolo. Tuttavia, nonostante la gioia travolgente, è stato un momento venato di profonda tristezza, poiché coloro che avrebbero dovuto essere in prima linea nelle celebrazioni erano assenti: Raed Fares, Hamoud Junaid e Khaled al-Issa. Erano compagni d’armi, sostenitori della libertà di parola e tra i primi a intraprendere questo percorso mediatico rivoluzionario con sincerità e coraggio.“
L’8 dicembre Abu Muhammad al-Jawlani, leader di Hts e attuale Presidente, ha pronunciato la sua dichiarazione dalla Moschea degli Omayyadi, e così il 2024 ha chiuso un’epoca, ma le fratture restano. La Siria di oggi è un cantiere aperto: nel nuovo assetto, la riorganizzazione politica ha visto HTS estendere il proprio modello di governance da Idlib a Damasco, mantenendo intatte molte delle istituzioni statali, ma sostituendo governatori e funzionari locali con esponenti apertamente anti-Assad. In questo contesto, attori statali, regionali e internazionali continuano a muoversi e a ridefinire i nuovi confini politici. All’interno di questi processi di trasformazione anche la società civile ha un ruolo da giocare perché la Siria di oggi è anche un laboratorio politico. E i laboratori, si sa, possono aprire nuovi orizzonti e pratiche. Mi viene in mente Fouad Roueiha, che a febbraio del 2025 scriveva su Facebook:
“L’impressione è che nei prossimi mesi si stabilirà in Siria uno stato che per molti versi non mi piacerà, avrò da ridire e anche parecchio. Sarò sicuramente all’opposizione, mi arrabbierò e baccaglierò (per dirla in romano) ci sarà da lottare. Il fatto che esista uno spazio di agibilità politica e democratica per poter essere opposizione, per poter contestare duramente le scelte dei governi e delle istituzioni e di poterne influenzare le decisioni e la composizione, questo è il principale risultato che mi aspetto, che pretendo, per me e per tutti gli altri e le altre cittadine. Non mi aspetto che domani la Siria sia l’avanguardia del progressismo, della libertà, la punta avanzata della lotta al patriarcato eteronormato e al capitalismo estrattivista. Mi aspetto di poter lavorare perché lo diventi dopodomani e che come me possano lavorare e lottare tutti gli altri e le altre, anche quelle persone che sostengono idee drasticamente divergenti dalle mie. Voglio vincere nella società, nelle menti e nei cuori, non voglio che qualcuno possa occupare le istituzioni, imporre una visione (per quanto bella e condivisibile possa essere).“
E io, mentre chiudo questo capitolo, ripenso alle sue parole proprio perché oggi, qui in Italia il decreto sicurezza è diventato legge, e l’altro ieri a votare al referendum del 8 e del 9 giugno eravamo solo il 30% dei cittadini. Contesti diversi, certo, ma c’è un filo. Chi ha lavorato a Radio Fresh, chi si è opposto al regime di Assad, ci mostra cosa significa resistere, cosa significa difendere un diritto. Ci insegna che certe cose vanno difese.
In un articolo, purtroppo censurato dalla rete, leggevo recentemente una citazione di Hamoud Junaid che diceva: “Voglio solo avere la libertà di poter esprimere liberamente il mio pensiero, poter parlare liberamente.”
Parole che pesano. Parole che chiedono una riflessione, non solo sulla Siria, su questi anni, ma anche su quello che stiamo costruendo qui.
Se desiderate approfondire e vedere la pagina di Radio Fresh, questo è il loro sito, tuttora attivo. A seguito della caduta del Rais, Abdulwarith Al-Bakour ha spiegato che hanno iniziato a espandere la loro esperienza mediatica. L’idea era di portarla in tutti i governatorati siriani in base alle loro capacità e ai contratti di finanziamento disponibili. Il primo passo è stato aprire una sede nella capitale, un segnale forte e un atto pratico per rivendicare la libertà dei media nazionali nella nuova Siria.
Tuttavia, una battuta d’arresto è stata segnata il 23 gennaio:
“Siamo rimasti sorpresi dall’annuncio che il contratto di finanziamento principale del governo statunitense sarebbe stato sospeso per motivi legati al cambiamento di politica estera a favore del supporto ai media nelle zone di conflitto. Questa decisione è stata uno shock, non solo dal punto di vista finanziario, ma anche morale, poiché è arrivata in un momento delicato.”
L’organizzazione ha dovuto iniziare immediatamente a cercare fonti di finanziamento alternative ed è riuscita a ottenere alcune sovvenzioni limitate che hanno permesso di continuare a costruire parzialmente il sogno anche se,
“Il nostro lavoro presso la stazione radio durante questo periodo è diventato interamente volontario” però il team è rimasto in gran parte e ha continuato, con determinazione, a svolgere le attività quotidiane senza retribuzione. “Chiaramente, con il lancio di nuovi canali ufficiali, come Al-Ikhbariya Al-Souriya e alcune emittenti radiofoniche locali emerse nel periodo post-regime, diversi dipendenti di Radio Fresh si sono trasferiti in queste istituzioni, portando con sé la loro esperienza e il loro spirito rivoluzionario. È stato un momento di orgoglio per noi, poiché questi dipendenti hanno lasciato un segno indelebile nei nuovi media nazionali, confermando che Radio Fresh era una vera e propria fucina di personale qualificato per i media, sia sul campo che professionalmente”.
Attualmente il numero di programmi prodotti è stato ridotto, mentre la struttura principale delle notizie, come i notiziari e i riassunti giornalieri, è stata mantenuta. La maggior parte dei programmi collegati al contratto precedentemente finanziato è stata sospesa e con essa le trasmissioni radiofoniche Fm a causa dell’incapacità di coprire gli elevati costi operativi.
“Attualmente, nel suo complesso, la radio continua a operare con un team qualificato che non si sottrae mai ai propri compiti nonostante le risorse limitate. È stato adottato un sistema di ricompensa simbolica per compensare parzialmente i dipendenti per il loro impegno, mentre le attività attuali includono il sito web ufficiale e le pagine social della radio. Consideriamo questa fase semplicemente un nuovo inizio, un momento in cui possiamo realizzare il nostro sogno mediatico con nuovi mezzi e incrollabile determinazione.”
Successivamente, sono riusciti a ottenere un finanziamento parziale per gestire l’ufficio di Damasco per quattro mesi e attualmente stanno collaborando con diversi donatori per ottenere un finanziamento permanente e stabile.
Radio Fresh ritiene che la prossima fase richieda media flessibili e decentralizzati che operino dal cuore delle comunità locali, ne riflettano le esigenze e diano loro voce. Il futuro dei media indipendenti risiederà nella vicinanza alle persone, non nelle cerchie del potere. Tuttavia restano delle preoccupazioni in merito ai media indipendenti che lo stesso direttore dell’Urb esprime: “Nell’era post-regime, molti temono che i media diventino un nuovo strumento di propaganda. Tuttavia, Radio Fresh ritiene che la sua futura missione sia quella di monitorare le nuove autorità e di chiamarle a rispondere delle loro azioni, senza timore o sottomissione, consolidando così il concetto di stato di diritto”.
Nelle parole di Ahmad Jalal invece:
“I media indipendenti hanno un ruolo fondamentale da svolgere in futuro. Rappresentano una delle conquiste della rivoluzione, esercitando il diritto alla libertà di espressione. Questi media possono svolgere un ruolo costruttivo e fondamentale nel lavoro del governo di transizione, con l’obiettivo di evitare errori amministrativi (che sono numerosi a causa della mancanza di esperienza e delle enormi sfide affrontate alla luce della completa distruzione delle istituzioni statali). I media indipendenti possono concentrarsi sui problemi quotidiani dei siriani in vari settori e in ogni parte della Siria, con l’obiettivo di trasmettere le voci dei cittadini al governo allo scopo di ottenere giustizia per i loro e a costruire lo Stato.”
Radio Fresh guarda avanti, con la volontà di documentare e vigilare sul periodo di transizione, investire nella formazione di nuovi professionisti dei media, promuovere il dialogo e la riconciliazione dopo anni di conflitto. Il loro obiettivo è restare accanto alle comunità, dare voce a chi è rimasto ai margini e assicurare che la rivoluzione, la giustizia, la dignità non vengano cancellate dalla nuova Siria.
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- (1) Immagine di Ahmad Jalal, Kafr Nabl – Idlib, 25 novembre 2018, consultabile sulla pagina Facebook dell’autore. Per eventuali richieste scrivere a info@festivaletteratura.it.