Cos’è e come opera il movimento delle Città di Transizione

Un network di comunità diffuso a livello globale che si uniscono per tentare di reimmaginare e ricostruire il mondo. Con più di quindici anni di esperienza accumulata e una maggiore attenzione al “come” anziché al “cosa”, possono rappresentare la porta di accesso all’ecologismo anche per le persone più distanti dalle tematiche ambientali

Negli ultimi anni parole chiave del discorso ecologista come sostenibilità, resilienza e transizione hanno cessato di essere appannaggio semi-esclusivo di ambientalisti ed esperti di settore, entrando a pieno titolo nel discorso pubblico sul futuro del nostro pianeta e degli esseri viventi che lo abitano. Tuttavia, prima che il green diventasse argomento di tendenza nella politica di massa, piccoli gruppi di attivisti maneggiavano già questi concetti nel tentativo di renderli operativi sia nella loro sfera privata, sia soprattutto nelle loro comunità di appartenenza: è il caso del movimento delle Città di Transizione.

Nato in Gran Bretagna e Irlanda a cavallo tra il 2005 e il 2006, questo movimento culturale è andato nel tempo a colmare un vuoto politico, fungendo da ponte fra la società ordinaria e le istanze ambientaliste più radicali, come quelle che professano (se non in teoria, per lo meno nei fatti) un separatismo più o meno integrale – potremmo considerare, con le dovute cautele, il concetto di ecovillaggio come paradigmatico di questa tendenza.

I transizionisti, infatti, non intendono uscire dalla polis, né tantomeno fondarne una nuova. Semmai, il palpabile sconforto che nutrono davanti alla constatazione che le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali si muoveranno sempre troppo poco e troppo tardi per fronteggiare la catastrofe ecologica in atto, li stimola a passare dal domandare una rappresentanza politica nell’agorà, all’operativizzare un’istanza politica direttamente nella polis stessa. Tutto questo, senza mai cercare un conflitto coi governi locali: uno dei principi cardine del movimento, infatti, è che la Transizione, riguardando la causa più ampia della sopravvivenza di homo sapiens, non si fa con le persone verso le quali nutriamo simpatia, ma si fa con chi c’è in quel momento, e questo vale tanto per i cittadini che partecipano alle iniziative quanto per i rappresentanti degli enti con cui i transizionisti cercano di collaborare.

Premesse teoriche, simbologia e fondamenti

I problemi gemelli che hanno indotto il co-fondatore del movimento Rob Hopkins (PhD) e il suo entourage ad avviare il primo esperimento di Transizione a Totnes, cittadina mercantile del Devon, sono quelli del picco del petrolio e del cambiamento climatico. Se, all’interno di un quadro di instabilità economica globale, la dipendenza alimentare ed energetica dei luoghi in cui vive la maggioranza delle persone – le città – diventa una minaccia per la sopravvivenza, l’obiettivo diventa allora quello di rilocalizzare le risorse sul territorio, per puntare all’autosufficienza alimentare ed energetica delle città stesse.

Il concetto di resilienza, dunque, inteso come capacità di un sistema di assorbire uno shock esterno e sopravvivere agli sconvolgimenti che esso comporta attraverso l’adattamento e la riorganizzazione, trova piena cittadinanza nel pensiero transizionista, assurgendo contemporaneamente a un duplice ruolo: lente interpretativa con cui leggere le debolezze proprie del sistema, e obiettivo per migliorarne la tenuta davanti alle emergenze, promuovendo una postura flessibile.

Fare divulgazione scientifica e sensibilizzare la cittadinanza, favorendo la formazione di un pensiero critico, rappresenta il primo passo fondamentale per rivendicare la fine di uno sviluppo senza progresso, per dirla alla Pasolini. È quello che, nella simbologia transizionista, viene identificato con la testa: senza una reale comprensione dei problemi – sostengono gli attivisti – non è possibile trovare vere soluzioni, e soltanto un pensiero sistemico, al quale siamo poco abituati, può permetterci di osservare i fenomeni in maniera olistica.

Ma per i transizionisti tutto questo, per quanto necessario, non è di per sé sufficiente. Per cui, partendo dal presupposto che chiunque può essere agente del cambiamento in prima persona, il movimento mira a restituire centralità e potere di autodeterminazione alla cittadinanza, attivando dal basso le risorse della comunità attraverso processi bottom-up partecipati e vocati all’inclusione.

Ed è soprattutto sulla qualità delle relazioni all’interno di questi processi che il movimento punta, nella consapevolezza che le persone sono più propense a prendere parte a un’iniziativa e ad affiliarsi a una causa se durante il percorso sperimentano emozioni positive, accoglienza e calore. Il “come lo si fa”, nella Transizione, precede sempre il “cosa si fa”. Con il simbolo del cuore, vengono identificate allora quelle attenzioni psicologiche ed empatiche richieste soprattutto dai nuovi membri, poiché la presa di consapevolezza della gravità della situazione climatica e ambientale si accompagna spesso a sentimenti di paura e tristezza, e può implicare sofferenza psichica: è il caso della cosiddetta ecoansia che affligge soprattutto la Generazione Z, problematica attenzionata di recente anche da David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi.

Infine, nonostante rappresenti l’ossessione maggiore per coloro i quali sono in cerca di soluzioni concrete, solo in terza battuta il movimento delle Città di Transizione prende in considerazione il “che fare”, rappresentandolo con le mani, nella convinzione che se non si saranno affrontati in maniera adeguata testa e cuore, passare all’azione potrebbe rivelarsi poco utile, se non addirittura dannoso. Le buone pratiche messe in atto dai transizionisti, infatti, viste da fuori sembreranno del tutto simili ad altre pratiche già viste altrove, ma scaturendo da un percorso diverso, con motivazioni diverse, con storie diverse, provocano effetti culturali diversi nei contesti in cui vengono applicate.

Sette ingredienti per una Transizione efficace, secondo il Transition Network

Transition Italia, nodo italiano della rete globale delle Città di Transizione, ha tradotto e curato l’edizione italiana della Guida Pratica alla Transizione. Il testo si presenta come un agile strumento per fornire indicazioni su come avviare un processo di Transizione nella propria strada, comunità, città o organizzazione, ed è stato prodotto direttamente dal Transition Network, punto di riferimento internazionale per la Transizione.

Sette sono gli ingredienti che vengono presentati come sintesi di un decennio di esperienze (la pubblicazione in lingua inglese è del 2016), una sorta di kit di avviamento al cambiamento sociale. 

  1. Gruppi sani: imparare a lavorare bene insieme. Come già sottolineato, l’idea di relazioni interpersonali di qualità risulta centrale per i transizionisti, e la maggior parte dei loro discorsi verte sullo sviluppo di una cultura di gruppo basata sulla fiducia, sull’empatia e sul prendersi cura degli altri. Credono che un gruppo sano prenderà decisioni efficaci, condurrà riunioni soddisfacenti ed eventi di successo, eviterà il burnout e gestirà adeguatamente i conflitti, salvaguardando la coesione nel tempo.
  1. Visione: immaginare un futuro da co-creare. Centrale nella Transizione è l’idea di avere una visione collettiva co-costruita, che prende corpo tramite processi partecipati attraverso i quali viene fondato un comune orizzonte di senso. 
  1. Partecipazione: coinvolgere la comunità nella Transizione, sviluppando relazioni oltre gli amici e gli alleati naturali. I transizionisti si sforzano di trascendere la distinzione tra ingroup e outgroup, operando una ricategorizzazione che allarghi il confine dell’ingroup. Passano dal domandarsi “come coinvolgere le persone nel processo di Transizione”, al domandarsi “come far sì che la Transizione diventi qualcosa di significativo per le persone”.
  1. Reti e partenariati: instaurare collaborazioni. Il movimento investe sulla condivisione di pratiche e idee, mirando allo sviluppo di opportunità e soluzioni innovative, per estendere la portata del proprio raggio d’azione.
  1. Progetti pratici: sviluppare progetti di ispirazione. Vengono realizzati cambiamenti concreti e osservabili, da cui dipende anche la credibilità delle Città di Transizione per gli osservatori esterni: orti urbani, produzione di vino di comunità, mercati del cibo locale, mense con cibo di scarto, corsi di panificazione e riconoscimento di erbe selvatiche, avviamento di imprese energetiche di comunità e di bioedilizia, ciclofficine, mercati del riuso e del baratto, istituzione di monete locali, ecc.
  1. Far parte di un movimento: fare rete a livello internazionale. Centrale per il movimento è l’attività di networking fra transizionisti dislocati in oltre 50 Paesi del mondo.
  1. Riflettere e celebrare: consapevolizzazione. I transizionisti si prefiggono di monitorare il funzionamento del gruppo, valutando se i risultati ottenuti sono coerenti con la visione individuata. Celebrano il fallimento come parte costitutiva del processo, e festeggiano i successi per fissarli nella memoria emotiva della comunità.

Dall’esperienza delle Transition Towns, come sono conosciute nei contesti anglofoni dove sono maggiormente diffuse – la mappa mostra che i 2/3 delle iniziative si localizza tra Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e Australia – nasce poi, come naturale evoluzione, l’esperienza delle Municipalities in Transition. In Italia, tre sono le municipalità pioniere: il Comune di Valsamoggia, il Comune di Ferrara e il Municipio V del Comune di Roma. L’approccio è più ampio e sistemico rispetto a quello delle Città di Transizione da cui originano, e perciò più complesso, ma anche più incisivo. Attraverso strumenti più maturi e consapevoli, inquadrati all’interno di un framework metodologico che condensa i migliori frutti del network internazionale della Transizione, i transizionisti hanno sviluppato quello che potrebbe essere descritto come un vero e proprio sistema operativo di comunità, progettato per includere una pluralità di attività e di settori, e in grado di convivere con i modelli di governance in uso interferendo positivamente con le dinamiche istituzionali. La sfida è ora quella di rinsaldare l’alleanza fra società civile e Comuni, agevolando i secondi a riconnettersi con la trama del tessuto comunitario locale, che subisce gli strappi di una crisi sistemica e poliedrica ormai permanente.

Per chi volesse approfondire:

Hopkins R. (2012), Manuale pratico della transizione. Dalla dipendenza dal petrolio alla forza delle comunità locali, Arianna Editrice, Bologna.

Landi A. (2015), Una società low-carbon in costruzione. Elementi di teoria e pratiche della transizione sostenibile, FrancoAngeli, Milano.

Cappellaro F., Landi A., Bottone C. (2016), “Verso una transizione socio-tecnica: esperienze di contaminazione tra il movimento delle Transition Towns e la Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Università di Bologna”, in Castrignanò M., Landi A. (eds), La città e le sfide ambientali globali, FrancoAngeli, Milano.