“La vita non ha senso in questa tomba di vivi”. Con queste parole è iniziato, ormai 42 giorni fa, lo sciopero della fame di Alfredo Cospito. Cospito è un anarchico militante, detenuto dallo scorso aprile in regime di 41-bis nel carcere di Bancali, in provincia di Sassari, dopo sei anni passati in detenzione in regime di massima sicurezza.

È stato condannato per il reato di strage, anche se non ha ucciso nessuno, perché così hanno voluto gli inquirenti. La sua condanna arriva per due pacchi bomba che esplosero nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006 alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), senza causare né morti né feriti né danni gravi.

E qui c’è il punto: la questione, in uno stato di diritto, è la proporzione della pena, senza neanche arrivare al mandato costituzionale che vedrebbe nel carcere una fase riabilitativa, e non punitiva, per i detenuti. Nel caso Cospito, come nell’applicazione dell’ergastolo ostativo in generale – quello duro per intenderci -, non si riesce a capire quale sia il senso della decisione della magistratura se non una sorta di ‘punizione esemplare’ per un mondo come quello anarchico da più di cento anni demonizzato e ferocemente perseguitato.

E nessuno giustifica la modalità di lotta di Cospito, che è sua e di altri, che se ne assumono la responsabilità personale e politica. Ma le istituzioni non devono e non possono ragionare in modo vendicativo, punitivo, lanciando segnali che evidentemente hanno come obiettivo quello di ‘essere d’esempio’.

Per capirci: la Corte d’Assise d’Appello ha qualificato il fatto come strage (art. 422 del Codice penale): delitto contro la pubblica incolumità, che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. Successivamente, nel luglio scorso, la Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del Codice penale), condannando due militanti anarchici, Cospito e Anna Beniamino, all’ergastolo.

Da aprile 2022 per Cospito le condizioni di detenzione vengono ulteriormente peggiorate con il passaggio al regime del 41 bis per “interrompere i rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza”, ma la cui applicazione trascende di frequente i limiti previsti dalla norma. Nel numero della rivista cartacea di Q Code, dedicato al tema dei Tabù, Giorgia Lucchi ne parlerà. Ed è tema sul quale riflettere, a maggior ragione di fronte all’esempio di tanti stati che hanno abolito l’ergastolo, e in particolare non conoscono forme di ergastolo come il 41-bis.

Basti pensare che il ricorso a a questa accusa per un reato come quello contestato a Beniamino e Cospito, non è stato utilizzato per le grandi stragi degli anni ’80 e ’90 come quelle di Piazza Fontana, della stazione di Bologna, di Capaci, di via D’Amelio, di via dei Georgofili, seppure abbiano causato molti morti e rappresentato effettivamente una minaccia per lo stato.

È dal 2005 che il 41-bis venne applicato a detenuti legati a crimini di natura politica, arrestati nel 2003, come le Nuove Brigate Rosse. Sono i casi di Nadia Lioce, Marco Mezzasalma, Roberto Morandi, Diana Blefari, che si è tolta la vita nel 2009.

Oggi, 1 dicembre, è attesa la decisione relativa al reclamo presentato dai legali di Cospito in merito all’applicazione del regime di 41-bis.

Nel reclamo presentato, l’avvocato difensore Fabio Rossi Albertini scrive che la difesa reputa “che la sottoposizione del proprio assistito al regime speciale di detenzione di cui all’art. 41 bis commi 2 e 2 quater O.P. sia illegittima per l’insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti applicativi di cui al comma 2 della norma in esame, ovvero, in particolare, per l’attuale insussistenza “dell’associazione criminale, terroristica o eversiva” rispetto a cui la norma de qua mira ad impedire i collegamenti tra i sodali ristretti in carcere e quelli che si trovano all’esterno”.

Le sue condizioni detentive sono state raccontate con la solita acutezza da Luigi Manconi, che in una lettera aperta pubblicata dal Riformista e ripresa anche da altre testate ha raccontato come, nonostante lo sciopero della fame di Cospito, al suo medico di fiducia – la dottoressa Angelica Milia – fossero state poste numerose difficoltà persino nel consultare la cartella clinica del paziente. Proprio la dottoressa, che ha potuto visitare il detenuto su incarico dell’avvocato difensore, ha fatto sapere come Cospito fosse in “condizioni discrete di salute, nonostante patisca il freddo e alcune trascuratezze nel trattamento medico, come il fatto che non gli sia stata garantita una copertura gastrica e che il numero e la qualità degli integratori, per altro concessi con grande ritardo, non siano adeguati”, anche se ha perso oltre venti chili, e come le abbia detto di avere fiducia nell’udienza di oggi e che si dichiara intenzionato a continuare il suo digiuno.

Come sottolinea Manconi, “la vicenda richiama il problema della ostatività, prevista dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, che interdice ai condannati che non abbiano collaborato con la magistratura il godimento dei benefici penitenziari e, in caso di ergastolo, la possibilità di accedere alla liberazione condizionale dopo 26 anni (oggi, a seguito dell’intervento del governo Meloni, dopo 30) di reclusione. La seconda questione è rappresentata dal regime di 41-bis, la cui esclusiva finalità è, per la legge, quella di interrompere i rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza, ma la cui applicazione trascende di frequente i limiti previsti dalla norma. Così che la reclusione in 41-bis tende a tradursi in un sistema di privazioni e afflizioni che nulla hanno a che vedere con la ratio della legge e che rischiano di trasformarsi in altrettanti provvedimenti persecutori”.

E continua Manconi: “Il caso di Cospito è, sotto questo profilo, esemplare. La corrispondenza a lui destinata viene trattenuta e questo limita fortemente la sua possibilità di comunicazione, di relazione con familiari e amici, di rapporto con la propria area politica, di collaborazione all’attività di ricerca e di elaborazione. Altrettanto limitata è la sua possibilità di socializzazione, dal momento che i rapporti consentitigli con altri tre detenuti sono ormai ridotti a quelli, occasionali, con una sola persona. D’altra parte, le ore d’aria cui ha diritto possono essere trascorse esclusivamente all’interno di un cubicolo dai muri molto alti, che permettono di guardare il cielo solo attraverso una grata posta sul soffitto”.

Dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ad oggi, non è giunta finora alcuna risposta.

La politica per ora si è mossa solo a livello di qualche iniziativa individuale, con interrogazioni parlamentari da parte di deputati e senatori in ordine sparso: Peppe De Cristofaro, Ivan Scalfarotto, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Silvio Lai. L’unica forma di attenzione è stata quella della visita del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ma senza esiti per il momento rispetto alle condizioni detentive.

Non c’entra nulla essere d’accordo o meno con la militanza di Cospito; c’entra l’idea di democrazia che vogliamo essere, c’entra l’idea di carcere e di società che vogliamo costruire. E sulla quale dobbiamo riflettere.