Un chilo di esplosivo. Era contenuto nell’ordigno che la notte scorsa ha fatto saltare in aria la macchina del conduttore di Report Sigfrido Ranucci e della figlia. “Poteva uccidere”, dicono gli investigatori. E se anche quello poteva non essere l’obiettivo, l’attentato non può che creare un grande allarme, anche perché al momento l’ipotesi di reato formulata è di danneggiamento con l’aggravante del metodo mafioso.
La storia italiana è piena di attacchi a quei giornalisti che rappresentano un’informazione approfondita, che va a fondo, che accende i riflettori su quello che troppo spesso rimane in ombra. Cosimo Cristina, Mauro de Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Mino Pecorelli, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. Sono i nomi dei giornalisti uccisi tra il 1960 e il 1993 per il loro lavoro sulle mafie. E non è un caso che l’ultimo giornalista vittima innocente di mafia, in Italia, sia proprio il ’93: dopo le stragi di mafia, cambiano le modalità, si cerca di non fare rumore, di non uccidere. Ma le minacce che chi fa questo lavoro riceve quotidianamente dovrebbero sicuramente fare più rumore, assordare, da quanto il giornalismo oggi è sotto attacco.
E quanto è successo a Sigfrido Ranucci è allarmante. Sotto scorta dal 2014 dopo le minacce di morte da parte della mafia, da tempo denuncia il clima di isolamento e di delegittimazione che si trova a subire, affiancato dalle varie intimidazioni negli ultimi tempi, a partire dal ritrovamento di due proiettili P38 fuori casa fino al pedinamento di soggetti identificati dalla sua scorta. Tutti fatti che avvengono mentre l’informazione indipendente in Italia cerca di essere messa a tacere, su tutti i livelli.
L’Ordine Nazionale dei Giornalisti ha segnalato che oltre 250 professionisti sono sotto protezione in Italia a causa delle minacce subite. Ossigeno dell’Informazione parla di 7555 giornalisti minacciati dal 2006 al 2024, solo nell’ultimo anno i giornalisti minacciati sono stati 516, tra avvertimenti, abuso di denunce e azioni legali, aggressioni, danneggiamenti. Tutto questo mentre la libertà d’informazione in Italia continua a essere oggetto di preoccupazione, con segnali di deterioramento evidenziati da diversi rapporti internazionali. Secondo il World Press Freedom Index 2024 di Reporters Without Borders, l’Italia ha perso sei posizioni rispetto all’anno precedente, collocandosi al 41° posto su 180 paesi, superata da nazioni come Armenia e Tonga. Il rapporto “Freedom on the Net 2024” di Freedom House assegna all’Italia un punteggio di 75 su 100, classificandola come “libera”, ma segnala preoccupazioni riguardo alla sicurezza dei giornalisti e alla trasparenza delle istituzioni. L’Italia è al 46° posto nella classifica sulla libertà di stampa di Reporters sans Frontières.
Dovrebbe essere scontato, ma non lo è: garantire un’informazione libera e accessibile è essenziale per il
funzionamento della democrazia e per la partecipazione consapevole dei cittadini e delle cittadine alla vita pubblica. Ma la linea attuale sembra chiara, come riporta Libera nella sua piattaforma “Fame di verità e giustizia”: limitare il diritto di informazione nel nome della presunzione di innocenza, il risultato delle ultime leggi che riguardano il mondo dell’informazione. In primis la Riforma Cartabia, che prevede come unica modalità di comunicazione tra procure e giornali i comunicati stampa e le conferenze stampa, e solo se il capo della procura ritiene che quelle notizie siano di interesse pubblico e vadano quindi divulgate; da ultimo l’emendamento Costa, che introduce il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare. Se da una parte si tratta di norme che hanno il compito di conciliare il diritto di cronaca e la libertà di stampa con il diritto delle persone sottoposte a provvedimenti giudiziari di vedere protetta la propria reputazione finché non saranno eventualmente accertate come colpevoli o finché un eventuale processo non renda pubbliche le accuse, dall’altra viene messo in secondo piano il ruolo del giornalismo come “cane da guardia del potere”. Nel frattempo, mentre aumentano le norme che limitano la libertà di stampa, non ci sono ancora norme per tutelare chi fa informazione: chi attacca non ha conseguenze, mentre chi riceve le querele temerarie, armi legali ed economiche, spesso è costretto a fermarsi, a non scrivere più. Con un danno enorme per tutta la collettività.
In tutto questo si inserisce l’ultimo attacco alla libera informazione. Chi fa un giornalismo d’inchiesta è solo, senza tutele, attaccato su più livelli. E questo comporta solo una cosa, che non possiamo scordarci: l’attacco all’informazione è un attacco alla democrazia, e ci riguarda.