Il quarto capitolo del reportage inedito di Jo Meg Kennedy, selezionato dalle giurie di Meglio di un romanzo per uscire a puntate sul sito del Festival e su “Q Code Magazine”

Questa è la storia di Radio Fresh Fm, nata a Kafranbel, Idlib, in Siria nel 2013. Ad accompagnare il lettore nella costruzione ed evoluzione della radio e nei processi di trasformazione dovuti alla rivoluzione e alla guerra saranno le voci dei fondatori della radio e il controcanto della giornalista Zaina Erhaim. I presupposti con cui Raed Faris, Hammoud Jounin e Khaled al Essa avevano fondato la radio e si sono battuti per difenderne l’esistenza, sono gli stessi per cui avevano aderito alla rivoluzione. Nelle parole di Raed Fares “le rivoluzioni sono idee e le idee non possono essere uccise con le armi”. La radio rappresentava queste idee e si poneva a disposizione e a rappresentanza della cittadinanza. Sono stati diversi i tentativi, del regime come di altri attori, di mettere a tacere la radio, ad oggi però continua ad emettere e a rappresentare la voce del popolo della rivoluzione siriana.


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CAPITOLO QUARTO: LA CONTRORIVOLUZIONE

di Jo Meg Kennedy

Era un’email, arrivata una mattina, senza preavviso. Il Dipartimento di Stato statunitense comunicava che il presidente Donald Trump aveva deciso di congelare 200 milioni di dollari di aiuti alla stabilizzazione per i gruppi umanitari in Siria. Tra questi, Radio Fresh.

Ci fu un bombardamento, a Manbij, nella Siria settentrionale. Due membri della coalizione a guida statunitense — un americano e un britannico — erano morti. Altri cinque feriti. Secondo un alto funzionario militare statunitense, l’attacco era opera dei resti dello Stato Islamico.

La nuova amministrazione non tardò a rispondere, ma non si rivolse ai presunti aggressori. Colpì altri. Quell’email Raed Fares la lesse il 17 maggio 2018 quando, entrato nell’ufficio della radio, si sedette e aprì la posta come d’abitudine:

“(La informiamo) con grande rammarico, che gli Stati Uniti hanno deciso di interrompere il finanziamento di progetti tra cui Radio Fresh – in vigore dal 30 giugno.”


La notizia si diffuse rapidamente.
Molti media protestarono, non solo per il taglio dei loro fondi, ma soprattutto perché erano stati revocati anche ai Caschi Bianchi (un’organizzazione umanitaria formatasi durante il conflitto per la protezione civile). Gli Stati Uniti risposero ripristinando i finanziamenti per loro, ma non sbloccarono il budget restante destinato ai gruppi giornalistici e alla società civile, lasciati senza copertura.


“L’obiettivo di Trump è porre immediatamente fine al coinvolgimento degli Stati Uniti in Siria. Ma ho una brutta notizia per lui: senza finanziamenti e supporto per voci indipendenti come Radio Fresh, il mondo potrebbe assistere alla nascita di un altro Stato islamico in Siria, e ciò creerà una minaccia alla sicurezza a lungo termine per gli Stati Uniti. […] Gli americani dovranno spendere miliardi di dollari in più per proteggere i loro alleati e persino se stessi da nuove minacce”,
 spiegò il direttore.


La questione non era nuova. Per anni, il Fronte di Al Nusra ai media indipendenti siriani aveva generato un dibattito complesso. Da un lato, permetteva ai giornalisti di contrastare la propaganda governativa e dei suoi alleati, oltre a garantire un sostegno economico ai centri mediatici e ai loro impiegati. Dall’altro, sollevava interrogativi sulla reale indipendenza delle testate che erano sostenute da Paesi con obiettivi politici specifici. La questione poi non riguardava solo i giornalisti, ma anche la società civile che finiva per porsi gli stessi interrogativi. Soprattutto ad esempio quando alcuni media, finanziati dall’Occidente, contribuivano a rappresentare il Free Syrian Army come un gruppo di combattenti eroici. Se all’inizio della rivoluzione, questa immagine era ampiamente condivisa, con gli anni è apparsa idealizzata, perché ignorava le problematiche interne al FSA che sono sorte nel tempo, come la corruzione.

Molti giornalisti si trovarono di fronte al dilemma di lavorare o meno per testate sostenute dall’Occidente, ma spesso era l’unica possibilità. Dopo che i media statali siriani negarono l’esistenza delle proteste del 2011, molti si rivolsero spontaneamente all’attivismo mediatico, pubblicando foto e video sui social media e creando gruppi d’informazione indipendenti. Tuttavia, per garantire un reddito ai propri impiegati, dovevano trovare risorse economiche e, spesso, i finanziamenti occidentali rappresentavano la sola opzione.

Ed è a questo punto che venne intavolato il dibattito, come spiegato dal giornalista Harun Al-Aswad in un suo articolo per il Middle East Eye. Qui riportava i diversi posizionamenti rispetto all’argomento che spaziavano da chi difendeva l’idea che fosse possibile mantenere una linea editoriale autonoma senza piegarsi agli interessi dei Paesi donatori, soprattutto se e quando il numero di follower aumentava perché si “diventa forti e si può quindi controllare chi finanzia” a chi, invece, riteneva che questa dipendenza rendesse impossibile un’informazione realmente indipendente, al punto da affermare: “Non esiste lavoro indipendente in Siria”.


Indipendentemente dagli schieramenti all’interno del dibattito, un fatto era certo: il sostegno occidentale non è stato sufficiente. Inoltre, diversi dirigenti hanno denunciato il progressivo calo degli aiuti proprio negli anni in cui sarebbero stati più necessari. Ossia, dal cambio d’equilibrio nato a fine settembre 2015 con l’avvio dell’intervento diretto russo nel conflitto. Come anticipato nel precedente capitolo, ciò ha rafforzato il regime e i suoi alleati e di conseguenza anche i loro media. Si avviò così una durissima contro-rivoluzione, esempio ne sia la caduta di Aleppo nel 2016 e il rafforzamento di attori non statali che prima figuravano dietro le quinte. Tra questi, il Fronte di Al Nusra, presente in Siria dal 2012, nata da una costola di al-Qaeda. Come ricorda il giornalista Shady Hamadi, uno dei distingui con l’Isis, è che Al Nusra non appartiene al fondamentalismo islamico globale ma si è radicata nel contesto locale della regione del Sud Ovest Asiatico: ne conosce il tessuto sociale e i rapporti con minoranze e altre religioni nel corso dei secoli.

Che gli equilibri stessero cambiando era chiaro a tuttigià alla fine del 2015. Cresceva una sensazione di inquietudine e instabilità. Zaina Erhaim la colse anche nel direttore di Radio Fresh durante un corso di giornalismo per donne, nel 2015.


Raed sembrava più spaventato di quanto lo avessi mai visto. Aveva installato un allarme nella sua auto. […] Si muoveva come un fantasma nella sua stessa città e raramente tornava a casa.


Già dal 2013 Radio Fresh era entrata nel mirino di al Nustra. Con le sue incursioni il gruppo era arrivato una volta a bloccare la trasmissione di Syrian Dialogue. Chiese poi di monitorare l’attività della radio dagli stessi uffici di Radio Fresh. Raed Fares si oppose.

“Dovete monitorare le trasmissioni, non quello che fanno le persone dentro la radio!”


Al Nusra rispose vietando la musica
, considerata haram, e minacciando di bloccare di nuovo le trasmissioni se la radio non avesse seguito le sue direttive. Oltretutto il direttorenel dicembre del 2013 era stato rapito e picchiato dal gruppo che tuttavia lo rilasciò subito dopo non avendo nessuna accusa ufficiale per portelo trattenere. Tra il 2014 e il 2015, il direttore fu rapito altre quattro volte. Una volta anche torturato. Poi sempre rilasciato.

A cavallo tra il 2015 e il 2016 la maggior parte del governatorato di Idlib rimase sotto il controllo o di Nf o delle FSA. Tuttavia nel 2016 emerse un nuovo attore Hayat Tahrir al-Sham (HTS) il quale nasce da Al Nusra e rappresenta una fase di transizione di quest’ultimache si staccò da Al Qaeda.

Quell’anno, il giornalista Harun Al-Aswad viaggiava verso Kafrnabel. Originario di Aleppo all’inizio della rivoluzione si era trasferito nella capitale per documentare insieme ai colleghi quanto stava succedendo. Harun Al-Aswad era stato recentemente rilasciato su cauzione giudiziaria. Aveva passato un anno in prigione dopo esser stato arrestato da un ramo delle forze di sicurezza Far’ Falestine, anche conosciuto come il ramo 235. Poco dopo esser stato liberato perse tutta la sua attrezzatura in un attacco aereo su Damasco e con l’ipotesi che avrebbe potuto essere riconvocato in tribunale aveva scelto di salire su uno dei bus verdi diretti a Kafrnabel. Questi autobus trasportavano civili e combattenti dalle città assediate, che non volevano piegarsi alla volontà del regime, verso le zone controllate dall’opposizione, in particolare proprio il governatorato di Idlib.
Arrivato a Kafrnabel, con in tasca solo un telefono Samsung S3, sentì parlare di Radio Fresh, e con quello iniziò a lavorare per loro.


“Trasferirsi a Idlib rese tutto più semplice,” raccontò. “Eravamo pochi, cinque o sette al massimo, a lavorare come corrispondenti per diversi outlet mediatici.”


Raed Fares e Hammoud Jounin li incontrò un giorno, mentre filmava l’arrivo di sfollati da Homs. Gente semplice, raccontò, nel migliore dei sensi.


“Erano gentili. Organizzavano, lavoravano, costruivano: erano sempre in movimento. Sorridenti. E aperti a parlare con chiunque incontrassero per strada.”


Un giorno però decise di parlare con loro perché il salario era basso. Cento dollari all’incirca: non bastavano per pagare l’affitto e vivere in una nuova città.

Raed Fares gli rispose che lo capiva e che aveva ragione nel dirglielo. L’obiettivo di Radio Fresh però era di aiutare quante più persone possibili con un impiego e una formazione – per chi ne avesse bisogno. A tale scopo era meglio assumere più persone con stipendi modesti piuttosto che un paio a stipendio pieno. Harun accettò la spiegazione: “Era la loro strategia. E funzionava!”Infatti, nel 2018, Radio Fresh aveva più di 64 impiegati. “Alla radio c’erano persone incredibili, che ancora oggi lavorano come corrispondenti”. Harun lavorò per Radio Fresh cinque mesi prima di spostarsi in Turchia, poi a Parigi dove oggi studia giornalismo all’università.

In quei mesi lavorare a Idlib fu difficile. Ogni giorno arrivavano notizie di attacchi aerei. “Il giorno che sono arrivato, ricordo che 12 o 13 missili balistici hanno colpito la città,” disse Harun. “Muoversi era pericoloso. Combattimenti tra Al Nusra, HTS, FSA. A volte anche l’ISIS. Infatti, nessuno abitava più a Idlib.”

Lo conferma anche Zaina Erhaim in un suo articolo, dove scriveva: “La nostra macchina era l’unica civile che si muoveva verso la città di Idlib, mentre tutti gli altri stavano fuggendo da là, trasportando centinaia di famiglie spaventate”. Anche lei viveva sulla propria pelle i cambiamenti in corso nel governatorato. Racconta che indossava il velo e un lungo cappotto per continuare a lavorare.

Anche le sue colleghe dell’area percepivano i cambiamenti e tra loro c’erano le colleghe di Radio Fresh. Da tempo, Al Nusra tentava di smantellare il progetto di parità di genere portato avanti dalla radio. Al Nusra voleva cancellare il loro lavoro. Ordinò il licenziamento di tutte le giornaliste e la loro sostituzione con una controparte maschile.

Radio Fresh non esitò a rispondere. Aggirò l’ordine alterando digitalmente le voci delle giornaliste. All’ascolto, sembravano voci maschili. Hybber Abud, giornalista di Radio Fresh, raccontò:


“Sono scoppiata a ridere! Non potevo credere che i miei notiziari, dopo tutto il mio impegno e la mia formazione, sarebbero usciti con quel suono! Mi sono rifiutata categoricamente di farlo. Ma poi […] ho visto il lato divertente.”
 (da 5:30 a 6:40)


Radio Fresh non era solo un progetto mediatico, ma una sfida ai tentativi di censura. Ogni voce trasmessa, alterata o meno, rappresentava un atto di resistenza. Arrestarono nuovamente il direttore questa volta insieme a un collega.

Tuttavia, nonostante la creatività della redazione, la radio continuò a subire attacchi.
Il primo gennaio 2016, Raed Fares fu nuovamente arrestato e rilasciato quasi nell’immediato per poi, a distanza di soli dieci giorni, essere nuovamente fermato. Quel giorno, il 10 di gennaio alcuni esponenti di NF pesantemente armati presero d’assalto gli uffici della radio. Confiscarono computer, macchine fotografiche, attrezzatura varia e arrestarono nuovamente il direttore, questa volta insieme a un collega: il foto reporter Hadi al-Abdullah.
Originario di Homs, allo scoppio della rivoluzione iniziò a documentare nella veste di giornalista quanto succedeva nella sua città natale, ad Aleppo, Qusayr e Idlib. NF reputava quell’azione necessaria e giustificabile viste le sue ripetute richieste, ignorate, di non trasmettere canzoni che a loro avviso “invitano alla dissolutezza” oltre ad essere considerate blasfeme e categoricamente proibite. Contro di Raed in particolar emergeva anche l’accusa in merito a un suo post Facebook che per NF costituiva una violazione della Sharia.

A distanza di 24 ore (Al-Youm M. , 2016), NF dichiarò di aver rilasciato entrambi i giornalisti ad una condizione. Hadi al-Abdallah doveva farsi garante (Radio Rozana FM, 2016) delle azioni di Raed Fares, anche quando fosse stato convocato dal tribunale della Sharia (Radio Rozana FM, 2016). Inoltre doveva sottoscrivere il giudizio di NF secondo cui il post del direttore costituiva effettivamente una chiara violazione della Sharia (Radio Rozana FM, 2016). In quel momento NF dichiarò anche che tra i motivi della recente incursione c’erano anche i graffiti sui muri della città, considerati offensivi per l’Islam (Zahlout H., 2016).

Non appena liberato, Raed Fares decise di scrivere un nuovo post Facebook: Le idee sono libertà – post che sarebbe poi diventato il motto della Radio.

Di riflesso questo post parlava anche di quanto era successo durante quelle 48 ore: la popolazione aveva cercato in tutti i modi di fare pressione su NF perché rilasciasse Raed Fares e Hadi al-Abdullah e presentasse loro le sue scuse. E la società civile riuscì nelle sue intenzioni. Effettivamente arrivarono delle scuse da parte di NF che riconosceva come un errore gli abusi commessi durante l’incursione nella sede della radio e assicurava che tutte le apparecchiature confiscate alla stazione sarebbero state restituite o risarcite in caso di danni. Fu il leader stesso della NF, Abdullah al-Mhaisni, a scrivere in un tweet che si sentiva:

Rattristato quando ho letto le parole della nostra beneamata personalità mediatica Hadi Al-Abdullah, confrontate con il comportamento dei fratelli della NF. In particolare perché non c’era bisogno di un assalto, una convocazione sarebbe stata sufficiente.”


Per Raed Fares, questo fu un momento di immenso orgoglio, perché confermò il suo pensiero, e più in generale il pensiero della stessa radio: una società forte è il miglior baluardo contro la tirannia e il terrorismo.


Le zone liberate in cui operiamo sono particolarmente vulnerabili alle lotte di potere e sostenere la società civile e i gruppi di media qui è assolutamente cruciale. La storia recente ci ha ripetutamente dimostrato che una pace duratura dipende dall’esistenza di una vivace società civile e di un libero discorso politico, un mercato di idee in cui nuove voci possono sfidare la dittatura e il terrorismo. Abbiamo anche assistito a casi – in Afghanistan e in Iraq (dove sono nate Daesh e al Qaeda) – in cui la mancanza di costruzione della società civile mina la democrazia.


“Oggi, ( 1 gennaio 2016, N.d.R.) la società civile è stata vittoriosa sulle armi.
L’attacco aveva colpì duramente la radio che per venti giorni non riuscì a trasmettere. Quando Radio Fresh tornò in onda, la musica scomparve. Al suo posto, suoni diversi. Fischi, ticchettii ed esplosioni squillanti! Tifo da stadio, applausi! Cinguettii e capre che belano…

Il direttore spiegò:

Hanno cercato di costringerci a smettere di trasmettere musica, così abbiamo iniziato a inserire i versi degli animali sullo sfondo delle trasmissioni, come un gesto sarcastico nei loro confronti.


Quella che era nata come una provocazione si trasformò presto in un simbolo di resistenza. Ogni trasmissione diventava un modo per aggirare la censura con creatività, per dimostrare che la libertà di espressione trova sempre una nuova forma per sopravvivere.

Gli attacchi proseguirono:

Ho ricevuto un messaggio su WhatsApp alle 12:30 di notte dal fratello di Raslan, che mi diceva che era stato rapito da uomini mascherati mentre tornava a casa nella città di Khan Sheikhoun.

Le parole sono di Ayham Asteef, membro della redazione di Radio Fresh. Il collega e poeta Ahmed Raslan era stato rapito il 23 marzo 2016. L’amministrazione della radio contattò diversi gruppi per cercare di capire chi avesse la responsabilità di trovare Raslan e identificare i rapitori. L’unico indizio che avevano era il veicolo usato per il rapimento:una Range Rover rossa.

Nel maggio 2016, un altro colpo. Jund Al Aqsa requisì l’attrezzatura, accusando la redazione di diffondere informazioni false. La milizia permise alla radio di riprendere le trasmissioni il 13 giugno 2016.

Quel mese Khaled al-Essa e Hadi stavano lavorando nell’area ribelle di Aleppo. Feriti dall’esplosione di un barile bomba, continuarono comunque a lavorare. Al Jazeera aveva riportato l’episodio:

“Khaled Al-Issa e Hadi Al-Abdullah sono pazzi e sani […] Grazie a Dio per la sicurezza dei tuoi draghi” , commentava Raed Fares da Kafranbel.


Khaled al Essa
 aveva girato il suo primo video il primo aprile 2011. Aveva 19 anni. Il 7 febbraio 2011 Bashar al Assad aveva concesso l’accesso della cittadinanza ai social media. Khaled al Essa però non aveva ancora un profilo Facebook o YouTube dove avrebbe potuto condividere il suo primo girato. Non era quella la sua intenzione inizialmente. Voleva solo conservare un ricordo di quel momento rivoluzionario da mostrare ad amici e parenti. Non filmava come giornalista. Disse di esserlo diventato “per caso”. La polarizzazione del giornalismo a favore del regime e il divieto d’ingresso ai giornalisti internazionali lo spinsero a voler documentare gli eventi. Nel 2012 Khaled riuscì a procurarsi la sua prima macchinetta fotografica e da allora si dedicava incessantemente a raccontare tutto ciò che succedeva a Kafranbel. Tanto che Raed Fares dovette costringerlo, a volte, a prendersi dei giorni di riposo. La sua dedizione non passò inosservata. Christina Abraham in un suo articolo per The New Arab, scrive:


“Andate a vedere una qualsiasi fotografia degli ormai famosi striscioni rivoluzionari e delle vignette di Kafranbel, e Khaled probabilmente sarà lì, con in mano lo striscione. E se non è nella foto, molto probabilmente è stato lui a fare lo striscione o a scattare la fotografia”.


Ed è vero. Finché i profili social resteranno ancora consultabili, Khaled al Essa si vede ovunque. Nelle fotografie dei precedenti capitoli è in prima linea. Nel primo capitolo è nella terza fotografia mentre scrive su un banner insieme a Hammoud Jounin e lo trovate anche nella fotografia del terzo capitolo: indossa un paio di occhiali da sole mentre contribuisce a tenere dritto il banner. Questo suo impegno lo portò a lavorare fianco a fianco con Hadi al-Abdullah. “Abbiamo pensato giorno e notte al fatto che dovevamo fornire delle prove” dicevano. Per Khaled, questo significava restare, anche quando avrebbe avuto l’opportunità di partire. Come riportato da 100 Faces of the Syrian Revolutionrifiutò più volte di lasciare la Siria.

Il 16 giugno un dispositivo esplosivo Ied (ossia un ordigno improvvisato) venne piazzato fuori dall’appartamento di Khaled al-Essa. L’esplosione di nuovo colpì sia lui che Hadi. Estratto dalle macerie della sua casa Khaled venne trasferito dalla protezione civile in Turchia per cure mediche. Mentre le ferite di Hadi al-Abdullah erano trattabili, quelle di Khaled al-Essa erano così gravi che l’unica possibilità per sopravvivere era di riuscire ad andare in Germania per essere operato.

Da quel 16 giugno, Raed Fares scrisse un post Facebook per il suo collega al giorno.

Ma i giorni passavano e il visto dal Ministero degli Esteri Tedesco arrivò il 24 giugno quando ormai era troppo tardi. Khaled aveva solo 24 anni.

Chi fosse dietro all’assassinio rimane un’incognita, un’ombra senza volto che si aggiunge alle molte altre della guerra. Sempre Christina Abraham scriveva:


“La sua morte passerà probabilmente inosservata per la maggior parte. Ora è uno tra tanti. Un altro giovane siriano, disperso in guerra. Un’altra voce piena di speranza, soffocata. Ora si unisce alle sue 470.000 sorelle e fratelli che hanno perso la vita perché una famiglia non voleva cedere il potere in Siria. E perché le potenze mondiali si sono accontentate di vederli morire, solo per poter spostare i pezzi su una scacchiera […]. E perché il resto di noi ha distolto lo sguardo mentre tutto ciò accadeva. […] Sono orgogliosa di dire che Khaled al-Essa era un caro amico”.


La radio dal 2016 al 2018 continuò a eseguire il suo lavoro nonostante le circostanze avverse, facendo i conti con tutti gli attori in campo nel conflitto. Anche dopo l’email dal dipartimento di Stato e in attesa del 30 giugno 2018. Quell’estate però Zaina Erhaim aveva contattato Raed Fares. Era preoccupata. Gli chiese di fare attenzione, perché il numero di aggressioni e attacchi nei suoi confronti erano aumentati. Lui le disse:


Dio prende solo le brave persone, io sono un ‘arsa. Non preoccuparti.”


La morte di Khaled al-Essa si inserisce in un quadro più ampio di violenze contro i giornalisti e i media workers in Siria.

Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ), tra il 2011 e il 2018 sono stati uccisi 143 giornalisti e operatori dei media.

Reporters Without Borders (RSF), per lo stesso arco di tempo registra 263 uccisi. Aggiunge 30 forzatamente dispersi-spariti, di cui 8 ancora dispersi. 101 presi in ostaggio. E di questi 34 risultano tutt’ora ostaggi. 50 arrestati, di cui 19 risultano in carcare ancora oggi.

Invece il Syrian Network for Human Rights (SNHR) conta 691 giornalisti e lavoratori per i media uccisi dal 2011 al 2018.
Questi numeri ricordano qualcosa?

Secondo il CPJ, tra il 2023 e il 2025,176 giornalisti e media-workers palestinesi sono stati uccisi, tra cui Fatma Hassona, 25 anni, uccisa da un attacco aereo israeliano lo scorso 16 aprile. Solo il giorno prima aveva ricevuto la notizia che il documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk di Sepideh Farsi, in cui era protagonista, sarebbe stato presentato a Cannes a maggio.

È chiaro che i tempi sono diversi, le circostanze altrettanto. Tuttavia, questi anni mi hanno fatto ricordare una intervista del 2021 a Yassin Al-Saleh autore di The impossible Revolution: making sense of the Syrian tragedy, dove disse:

“La Siria è un microcosmo perché ciò che sta accadendo nel Paese è legato alle strutture globali internazionali. […] Il Medio Oriente è la regione più internazionalizzata al mondo. […] Quindi abbiamo tutti questi attori statali e non-statali con interessi importanti nel Paese allo stesso tempo, si vede che quasi il 30% della popolazione si sta spostando verso Paesi vicini e lontani. Quindi è globalizzato. Quindi, a modo nostro, possiamo dire che il mondo è una macro Siria. E credo che l’invasione russa dell’Ucraina non sarebbe stata possibile senza aver accettato e tollerato l’intervento russo in Siria. Nessuno l’ha condannato, né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea, né l’Onu hanno condannato l’intervento russo in Siria. Penso che questo sia stato un messaggio molto pericoloso”.

La Siria è stata il banco di prova per il diritto internazionale, per vedere se vale per tutti o non vale per nessuno. Questo dovrebbe farci porre degli interrogativi, perché lo abbiamo visto nel secondo capitolo con l’episodio delle armi chimiche che ha a sua volta aperto la strada all’intervento russo in Siria nel 2015. Lo vediamo con i giornalisti e i media-workers che subirono le conseguenze delle costanti violazioni delle risoluzioni Onu tra cui la 1738 (2006) e la 2222 (2015) sulla protezione dei giornalisti, dei professionisti dei media e del personale associato nei conflitti armati(https://docs.un.org/en/S/RES/2222(2015)).

Cosa abbiamo imparato da questo? Quali interrogativi ci siamo posti individualmente e collettivamente di fronte a questi precedenti? Quali responsabilità abbiamo?

Alla manifestazione Basta sangue sui nostri giubbotti organizzata dalla Rete No Bavaglio in solidarietà con la stampa palestinese a Roma il 1° marzo dell’anno scorso, la giornalista Cecilia Dalla Negra ricordava:

“Mi chiedo dove sono stati i nostri ordini professionali in questi mesi. Quelli che ogni anno ci chiedono di aggiornarci per fare al meglio il nostro lavoro, ma che non sono stati capaci di aggiornarsi su come si denuncia un genocidio. È importantissimo oggi essere qui, ma forse in questi mesi avremmo dovuto essere ogni giorno sotto le sedi degli ordini professionali e oltre a chiedere di farci entrare a Gaza perché ne va della nostra libertà di informazione, avremmo dovuto batterci per salvare le vite delle nostre colleghe e dei nostri colleghi palestinesi.
È importante questa manifestazione, ma arriva troppo tardi. Arriva dopo 30.000 morti, arriva con 130 colleghi e colleghe morti ammazzati, che sono gli unici, le uniche che in questi mesi hanno testimoniato l’orrore che stava accadendo e che in questi mesi ci hanno richiamato tantissime volte alle nostre responsabilità. Perché le parole che scegliamo di usare hanno un peso e nessuno di noi lo sa meglio. Lo sappiamo ogni volta che scegliamo di nominare o non nominare qualcosa. Lo scegliamo ogni volta che decidiamo di descrivere quello che sta accadendo, come una guerra.
È passato oltre un mese da quando il sindacato dei giornalisti palestinesi ha denunciato ciò che gli stava avvenendo come un
 giornalisticidio. Dov’eravamo quando si moltiplicavano i loro appelli? Dov’eravamo quando venivano ammazzati perché facevano il loro lavoro, dov’eravamo quando ci chiedevano di raccontare i fatti e non le opinioni? Perché questo noi dovremmo fare. Quand’è che abbiamo deciso che la neutralità è un principio deontologico, che deve prevalere sul principio di responsabilità? La responsabilità che abbiamo di essere testimoni di quello che sta succedendo, di farci storici di questo istante drammatico che sta avvenendo al popolo palestinese.
[…] Ed è così che Motaz Aziza uno dei più importanti giovani brillanti giornalistiche della Striscia di Gaza, costretto a lasciare Gaza, è stato etichettato dall’Ansa come un “influencer in viaggio”, perché neanche la dignità della professione gli abbiamo lasciato a nostri colleghi. […]. Io vi lascio con le parole di un altro bravissimo giornalista palestinese, Mohammed el-Kurd, che in un recente articolo ha scritto: ‘Vi invito ancora una volta ad essere coraggiosi, perché sta a noi operatori dell’informazione, accademici, giornalisti, giornaliste a essere coraggiosi. E per chi fa il giornalista non si tratta neanche di questo, si tratta soltanto di fare il nostro lavoro. Si tratta di dire la verità. Dobbiamo soltanto raccontare la verità’.”


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