Brasile, una risposta ai rimpatri forzati: verso un nuovo modello di accoglienza?

Negli Stati Uniti continua il braccio di ferro tra l’amministrazione Trump, i giudici federali e i Paesi latinoamericani sul tema del rimpatrio forzato dei migranti. La faccenda aveva raggiunto i media internazionali già a gennaio con le foto, divulgate dallo stesso Presidente, che mostravano un gruppo di migranti costretti a salire su un aereo, ammanettati.

La maggior parte dei commentatori e osservatori del fenomeno è caduta nel complicato gioco di fumo e specchi che è la recente politica della Casa Bianca, fatto di propaganda e deliberate provocazioni. Un gioco che spesso mantiene l’analisi sulla superficie.

Il primo aspetto che è sfuggito ai più – e mi riferisco in particolare alla stampa europea – è che i rimpatri forzati hanno sempre fatto parte della politica migratoria statunitense (basti pensare che tra le ultime amministrazioni quella che ha rimandato indietro più migranti in assoluto è stata quella di Obama).

Il guizzo di genio, per così dire, del nuovo inquilino della Casa Bianca è stato il ricorso alla spettacolarizzazione. Quello che gli altri presidenti hanno fatto in sordina Trump lo ha trasformato in uno show da prima serata.

La sua intenzione era quella di mostrare ai suoi elettori che sa mantenere le promesse e scandalizzare il resto del mondo, ma è riuscito anche in un altro intento, per quanto involontario: accendere i riflettori su una politica migratoria puramente ideologica che diventa ogni giorno più disumana.

Il secondo aspetto riguarda invece le conseguenze dei rimpatri forzati nei Paesi di ritorno, che spesso non hanno politiche di ri-accoglienza strutturate in grado di riassorbire le persone nel tessuto economico e sociale.

Per fare chiarezza su questi due aspetti abbiamo parlato con Sueli Siqueira, professoressa presso la Universidade Vale do Rio Doce (Minas Gerais, Brasile), esperta internazionale di migrazioni.

«Il fenomeno delle deportazioni esiste da molti anni. I rimpatri forzati aumentano o diminuiscono in funzione delle politiche economiche e di frontiera, ma fanno parte da sempre della politica migratoria statunitense, indipendentemente dal partito che governa. Obama è stato il presidente che ha deportato di più, mentre Carter quello che ha deportato di meno. Oggi, con Trump, le differenze che noto rispetto al passato sono principalmente nell’approccio alla questione migratoria più che negli strumenti».

Per Siqueira la più grande novità introdotta dalla nuova amministrazione è l’aperta criminalizzazione del migrante, che contribuisce alla diffusione di idee false e pericolose.

«La maggior parte delle persone che emigrano negli Stati Uniti lo fa per cercare un impiego. Magari non hanno il permesso di soggiorno, o lavorano in nero, ma non sono certo dei criminali. Di tutte le persone che vengono rimpatriate pochissime hanno avuto problemi con la legge e, quando accade, si tratta di illeciti amministrativi, come il mancato pagamento dei contributi, e non penali».

La seconda differenza è l’aumento esponenziale delle pratiche dell’odio e della xenofobia. Il Governo – aveva già iniziato in campagna elettorale – ha trasformato gli immigrati nei nemici pubblici numero uno, ai quali imputare tutti i problemi degli Stati Uniti.

«Anche questo, naturalmente, si basa su una menzogna di fondo – spiega Siqueira – dal momento che gli immigrati lavorano e contribuiscono attivamente alla crescita e alla prosperità dell’economia statunitense».

Infine, Trump si è distinto per il modo disumano con cui i rimpatri sono stati attuati, senza alcun rispetto dei diritti umani e degli accordi internazionali.

Aggiunge Siqueira: «I migranti brasiliani rimpatriati con i primi voli dell’anno, alla fine di gennaio, hanno raccontato di condizioni di viaggio spaventose. Lasciati senza cibo né acqua per tutta la durata del viaggio, ammanettati (anche se i protocolli internazionali prevedono che le manette siano rimosse una volta giunti nel territorio nazionale), senza la possibilità di andare in bagno e costretti a fare i propri bisogni al loro posto. Nel caso che ha fatto più scalpore, l’aria condizionata del velivolo era guasta e alcune persone si sono sentite male sull’aereo».

Il trauma del ritorno

I rimpatri forzati sono un tema politico ed economico, ma andrebbero trattati innanzitutto come un tema di diritti umani e di benessere della persona.

«Il ritorno è come se fosse una nuova migrazione. – dice Siqueira – Anche quando è pianificato ha un impatto enorme. La persona che ritorna si aspetta di ritrovare tutto esattamente come lo ha lasciato, ma questo è impossibile. I posti sono cambiati, la città non ha più le stesse caratteristiche, le persone con cui conviveva non sono più le stesse e anche lei è stata profondamente cambiata dall’esperienza della migrazione».

Il ritorno, quindi, rende necessario un nuovo processo di adattamento e richiede un grande sforzo psicologico, che si amplifica qualora il rimpatrio sia forzato e dunque la persona non abbia avuto il tempo e il modo di prepararsi a questo passo.

«Se il ritorno causa sempre un grande stress e ha ripercussioni sulla salute mentale delle persone, non è difficile immaginare il trauma che il rimpatrio forzato porta con sé. In questo periodo abbiamo sentito racconti di persone che sono state portate via mentre rientravano dal lavoro e che non hanno potuto recuperare nemmeno i loro effetti personali o i loro risparmi».

Molti dei migranti rimpatriati non avevano mai preso in considerazione la possibilità di lasciare gli Stati Uniti, che avevano scelto come patria di elezione. Altri erano partiti con tutta la famiglia, non lasciando niente indietro, e ora non hanno nessun posto dove stare.

«Una delle donne con cui ho parlato – racconta Siqueira – era esattamente in questa situazione. In Brasile non aveva più nulla, né nessuno. Una persona in questa situazione come fa a ricominciare tutto da capo? Il senso di fallimento è enorme ed è difficilissimo riprendersi».

Questa angoscia, secondo Siqueira, è un sentimento comune anche fra coloro che ancora risiedono negli Stati Uniti e che vivono nel terrore di perdere tutto da un momento all’altro. A questo si aggiunge il timore di aggressioni fisiche e verbali, alimentato dal crescente clima di odio e razzismo nel Paese. «Anche le famiglie che sono rimaste in Brasile hanno paura e temono per l’incolumità dei propri cari».

Politiche di ri-accoglienza

Fino ad oggi, al di fuori degli accordi bilaterali sui rimpatri, in Brasile non esisteva un programma pubblico a sostegno di chi ritornava in patria dopo un periodo di migrazione. «Era tutto a carico delle famiglie», dice Siqueira. Oggi però sembra che un cambiamento si sia messo in moto, proprio grazie alla teatralità di Trump che ha creato risonanza mediatica attorno al fenomeno dei rimpatri.

«Di fronte all’evidente violazione dei diritti umani il governo brasiliano ha deciso di prendere una posizione chiara e si è mobilitato per fornire supporto ai connazionali rimpatriati. Negli aeroporti di Confins (Belo Horizonte) e Fortaleza sono stati creati dei centri di prima accoglienza dove le persone hanno ricevuto cambi d’abito, prodotti per l’igiene personale e telefoni per contattare le famiglie, una cosa che non era mai esistita prima».

All’inizio di febbraio il deputato di Minas Gerais, Leonardo Monteiro, ha protocollato un disegno di legge che crea il Programa de Acolhimento ao Migrante Retornado (Programma di accoglienza al migrante rimpatriato), con l’obiettivo di promuovere la reintegrazione favorendo l’autonomia economica e sociale e garantendo un supporto sanitario specifico, con particolare attenzione alla salute mentale.

«Queste persone spesso tornano non solo fragili dal punto di vista fisico, ma anche psicologico – conclude Siqueira –. Sono state aggredite non solo nel corpo ma anche nella loro identità. Hanno visto i loro sogni andare in frantumi. Hanno vissuto un trauma, e i traumi hanno conseguenze».

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