America in Crisis viene inaugurata nel 1969 al Riverside Museum di Manhattan. Frutto di un’ideazione della Magnum Photos, l’esposizione ha lo scopo di documentare un periodo cruciale della storia americana: quello delle presidenziali di Kennedy e del suo assassinio, dell’assassinio di Martin Luther King Jr., fino alla vittoria di Richard Nixon; ma anche della storia dei ceti più bassi, delle disuguaglianze sociali, della ghettizzazione degli afroamericani, dei movimenti di contestazione di massa.
Si presentano così gli scatti di alcuni dei più importanti fotografi del tempo, quali Bruce Davidson, Charles Harbutt, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Wayne Miller e altri, con lo scopo di mettere in luce le contraddizioni dell’eccezionalismo americano fondato sul mito dell’American dream. L’evento riscuote un enorme successo e le immagini confluiscono in un libro che viene pubblicato quello stesso anno.
Cinquant’anni dopo, circa, America in Crisis viene riportata in vita dalla Saatchi Gallery di Londra, non tanto con lo scopo di individuare i paradossi ormai noti della Western way of life, quanto piuttosto con l’intenzione di farci porre una domanda: cos’è cambiato da allora ad oggi?
L’esposizione, curata da Sophie Wright, Gregory Harris e Tara Pixley, propone l’accostamento delle foto del 1969 ad alcuni scatti più recenti del 2019-2020, di alcuni dei più noti fotografi contemporanei, tra i quali: Stacy Kranitz, Matt Black, Rose Marie Cromwell, Peter Van Agtmael, ed altri ancora. La mostra si struttura in più sezioni organizzate in ordine tematico: dall’introduzione sulle controversie dell’individualismo liberale fondato sull’idea dell’uomo che si fa da sé, al tema della crescita della violenza, la liberalizzazione del porto d’armi, il confronto tra i movimenti sociali di massa di allora con quelli di oggi, lo scontro tra generazioni.
Liberalismo e liberalismo: dalla pratica all’ideologia
La mostra si apre con la seguente frase: «Come una sala degli specchi che riflette o distorce la verità, questo insieme di credenze è un corridoio verso il passato in cui è nato il sogno americano».
In breve: che cosa ne è stato dell’american dream? Quali sono stati i suoi esiti concreti? Se la definizione di questa espressione viene elaborata da James Trunslow Adams intorno agli anni Trenta del Novecento, negli anni Sessanta e Settanta gli effetti e i paradossi di questa dottrina sono già evidenti.
A sinistra l’immagine di Eliott Erwittdel 1959 immortala una famiglia in costume, radunata intorno a un barbecue in un piccolo e angusto cortile interno di una casa. A destra la foto di Paul d’Amato del 2018 rappresenta una bungalow family, ovvero una famiglia (messicana? nativo-americana?) con indosso vestiti casual, mentre giocano e riposano con i bambini in giardino di fronte all’ultimo frassino rimasto dopo il disboscamento della zona.
A vedere le foto l’una accanto all’altra, l’idea che ne traiamo è che da allora ad oggi non sia cambiato niente, anzi. Da una parte si ha l’immagine di una famiglia perfettamente inquadrata nella comunità che Adorno pochi anni prima, in La personalità autoritaria, aveva definito come ‘territorializzata’: l’individuo fonda il suo legame con la comunità nei termini di autodeterminazione economica, senso di appartenenza familiare, acquisizione di beni “di lusso” (in questo caso il barbecue) in quanto rappresentazione di uno status symbol. Dall’altra parte, la fotografia documenta come, nonostante il protezionismo, i processi di espansione degli Stati Uniti, sia economici che territoriali non sono affatto diminuiti: il Messico, e in generale l’America Latina, restano tutt’oggi il cortile di casa degli USA, secondo l’antico desiderio di James Monroe, mentre le comunità native continuano a subire quel processo di gentrificazione imposta dall’alto, da parte di quelli che di fatto erano all’epoca degli immigrati, cioè i colonizzatori.
Ma la memoria è breve, e molti yankees sembrano esserselo dimenticato. Insomma, i discorsi di Donald Trump contro musulmani e nativi, gli slogan a favore della costruzione di un muro al confine con il Messico, e via dicendo, non sono altro che l’evidente contraddizione di una scelta politica che prevede comunque lo sfruttamento di determinate aree geografiche.
Protezione e distanziamento si applicano ormai su larga scala, ma l’economia vuole i suoi introiti. In altri termini, sembra che quel modello psicologico applicato al singolo individuo, su cui molto hanno discusso gli esponenti della Scuola di Francoforte, si sia ampliato e adattato ad un’intera società che fino a ieri veniva governata dalle istanze di un governo liberista. E allora perché parliamo ancora di neoliberalismo? A questo proposito rimando ad un vecchio articolo di George Monbiot pubblicato sul The Guardian il 15 aprile del 2016, in cui definisce il neoliberalismo contemporaneo come un’ideologia piuttosto che come una vera e propria pratica di governo, e in cui ne individua le contraddizioni: «Laddove le politiche neoliberali non possono essere domesticamente imposte, vengono imposte internazionalmente» e «più il fallimento delle politiche neoliberali è grande, e più l’ideologia neoliberale diventa estrema». E per fallimento Monbiot fa riferimento sia alla stagnazione secolare quanto alla crisi politica degli ultimi anni che ha portato alla crescita in diversi paesi di partiti populisti di destra e di sinistra.
Una nuova forma di imperialismo
È noto che dagli anni Sessanta in poi le scelte governative degli USA iniziano a cambiare il rapporto di forza tra economia e politica, rendendo sempre più difficile la gestione della seconda sulla prima; ed è noto anche che dopo la vittoria di Reagan nel 1981 (e quella parallela della Thatcher in Gran Bretagna) si inizia a parlare di Neoliberalismo in termini più precisi. Quello che è meno risaputo è che, a partire da un certo momento in avanti, le scelte politiche degli USA, che assecondano questo modello teorico, non reggono più.
Con il crollo della cortina di ferro, del muro di Berlino, e l’interdipendenza sempre più stretta tra Europa e Stati Uniti, l’istituzione delle Nazioni Unite e della NATO, si crea in Occidente il mito di un mondo unipolare. Dico mito perché la nascita di nuovi mercati ad est, l’ininterrotto sviluppo delle Tigri asiatiche e le crisi economiche degli anni Novanta, dimostrano come di fatto gli Stati Uniti perdano gran parte del loro potere d’influenza politica ed economica sul resto del pianeta (e la questione Russia-Ucraina degli ultimi giorni mi pare più che esemplare, dal momento in cui solo gli “occidentali” hanno davvero preso parte alle sanzioni).
Allo stesso modo, stagnazione secolare e crisi del 2008 ci hanno portato alla luce le contraddizioni capillari di un modello di governo fondato sulla libera competizione e sul libero scambio. America in Crisis ci mostra infatti come i corollari di tutto questo non si vedano solo a livello governativo o statistico, ma soprattutto a livello individuale. Non è un caso, infatti, che siano poche le foto di reportage, e che i fotografi selezionati siano quasi tutti street photographers.
Senza voler fare una distinzione troppo netta tra i due generi di fotografia, è chiaro comunque che l’interesse degli autori si rivolga soprattutto alla rappresentazione di quei ceti sociali medio-bassi che di queste scelte politiche hanno pagato le più acute conseguenze. Inoltre, è interessante constatare come l’intento più profondo della mostra sia sfuggito alla maggior parte di coloro che l’hanno recensita: lo scopo è quello di far vedere come scelte politiche divergenti hanno portato allo stesso impoverimento e agli stessi meccanismi di contestazione degli anni passati.
E la cosa non è affatto scontata, così come non è scontata la presentazione di fotografi dalla vena meno documentaristica come Zora J. Murff e Gabrielle Lurie. Ricordiamo in particolare le foto di Murff che immortalano le facciate di alcune case medio-borghesi mal costruite con appesa alla porta d’ingresso la bandiera degli Stati Uniti, quelle di un ragazzo che scappa da una sparatoria, o ancora le foto di Lurie, che immortalano gli accampamenti per strada di alcuni senza tetto, e in particolare l’immagine di un bambino sull’uscio di una tenda sotto un ponte che urla alla madre «Puppies, I want puppies», secondo quanto riportato dall’autrice in didascalia.
Se non è vero allora che la storia resta immutata, è vero che l’uomo tende a commettere gli stessi errori. Scommettere sulla crescita politica ed economica, inglobando nuovi territori, può essere una forma di governo sostenibile fin tanto che quei territori riescano a mantenere una loro autonomia (è il principio secondo il quale Unione Europea e Mercosur sono stati creati); ma cosa succede quando un paese che si dichiara essere l’esportatore di un modello di democrazia non ha riguardo nei confronti del principio di autodeterminazione dei popoli (o lo rispetta solo nel caso in cui si trova costretto a diminuire il debito pubblico richiamando a casa le truppe di stanza in Afghanistan)? E in particolare, che cosa succede agli individui che di quelle scelte politiche ne sono soltanto ormai i fruitori passivi?
La risposta è chiara: una nuova forma di imperialismo, non solo orientato da scelte politiche centralizzate, ma anche e soprattutto dagli interessi dei privati (dalle industrie petrolifere, a quelle belliche, alle corporazioni ecc.) che sfruttano la propria influenza per orientare le scelte politiche dello Stato. Da questo punto di vista il cittadino perde il proprio potere di rappresentanza attivo e si trasforma in semplice consumatore o fruitore passivo di un sistema sovranazionale che lo trascende.
America is back?
Insomma, Make America great again è la frase che si riporta sul cappellino di Trump immortalato in primo piano da Peter van Agtmael, dopo essersi addormentato durante il primo rally del 2020 in piena campagna elettorale. Great sì, ma non troppo. Eppure, anche la frase America is back at the table, pronunciata da Biden all’ONU, non sembra essere molto distante dalla celebre trumpiana, poiché sia l’una che l’altra si fondano sul presupposto che gli USA sono e debbano restare i leaders globali. Ma lo sono davvero mai stati? Sì, a livello statistico; ma all’interno della piramide sociale cosa è davvero avvenuto? È la domanda che ci si pone a guardare la sezione Confrontation dell’esposizione, che allude non solo al confronto tra i movimenti di contestazione odierni e quelli del Sessantotto, ma anche, e più in generale, allo scontro tra generazioni.
Nel 1969, all’apertura della prima mostra, Michel Leiris sosteneva che «Per i giovani il passato è deplorevole, il passato intollerabile, e il futuro è pieno di timori, compreso il timore che non ci sarà un futuro», mentre oggi, all’entrata dell’ultima sala della Saatchi si legge così: «Ogni generazione ha i suoi radicalismi. Gli hippies degli anni Sessanta sono stati denigrati per il loro ideale di amore libero, a confronto con la generazione dei loro genitori, e per la denuncia contro il tradizionale sistema di educazione e di governo. Al tempo del progetto originario di America in Crisis, la Nuova Sinistra è stata tradita dalle manifestazioni veementi e dal proprio idealismo rampante, ma laddove gli scontri degli anni Sessanta sono stati combattuti contro il complesso militare industriale e a favore dei diritti civili, lo scontro contemporaneo è contraddittorio nelle sue multimodalità».
Che la rivoluzione culturale del Sessantotto abbia poi portato in seno molteplici controversie è cosa nota, ma che i movimenti odierni di contestazione (come il Black Lives Matters,gli LGBTQ+, Fridays for future…) portino con sé tutta una serie di paradossi intrinseci non sembra essere ancora del tutto accettata. Lo dimostrano anche alcune recensioni che interpretano la mostra come un manifesto al rinnovamento di una rivoluzione culturale moderna (è il caso dell’articolo di Jonathan Jones sul The Guardian), oppure come se avesse un sottotesto pieno di clichés di sinistra (secondo l’interpretazione data da Tim Stanley per il Telegraph).
O si è pro, o si è contro. Anche la semplice analisi di una mostra di fotografia vuole i suoi radicalismi. E però le foto sono lì, a riportare una verità, e non a fare propaganda politica (interessante è invece l’articolo uscito sull’Economist, intitolato “America was on the edge of disaster long before Trump”).
La cultura del narcisismo
Già nel 1979, in La cultura del narcisismo, Christopher Lasch faceva notare come anche la critica di sinistra partecipasse a quella distruzione della vita personale e contribuisse a sviluppare quei comportamenti che sono all’origine del malessere generazionale. Lasch sosteneva che ciò che si sarebbe dovuto denunciare al movimento della presa di coscienza, non era il fatto che esso aveva a che fare con problemi banali o irreali, ma che forniva delle soluzioni che andavano contro le proprie intenzioni.
Ad oggi il panorama non sembra essere molto cambiato. Parla così Tara Pixley, co-curatrice della mostra: «Quello che una volta poteva essere considerato uno scontro di ideali, ha dato vita ad un contesto sociale e politico le cui conseguenze sono fatali».
Più che di contrapposizione tra ieri e oggi si dovrebbe parlare allora di metamorfosi, all’interno della cui parabola, plasmata dall’ideologia neoliberale, si accentua la dicotomia tra parti. Eppure, gli estremi si toccano: né il populismo di destra né quello di sinistra prevede un qualche tipo di dialogo, e Trump sta a Grillo, come il Patriot Party sta al Vaffa Day.
Se la democrazia liberale si era fondata sul principio secondo il quale esiste una classe governativa qualificata con il compito di mediare i desideri dei cittadini per governarli in quanto collettività costituita; il modello liberal-populista di oggi, che vorrebbe nella maggior parte dei casi una democrazia diretta, cerca di compiacere i singoli desideri di ognuno (in questo caso mi rifaccio ad un saggio breve di Guido Mazzoni, pubblicato su Le parole e le cose il 24 novembre 2016).
Così gli individui non accettano più di essere governati secondo le istanze di un sistema ormai ultra-specializzato nei suoi settori, tecnocratico, che non riescono a comprendere, ed è più facile dare la colpa al Sistema, inteso come nemico planetario antropomorfo e autocentrato, piuttosto che far fronte al fatto che quel sistema prevede un’ulteriore parcellizzazione dei saperi, che non possono essere gestiti da chiunque non ne sia qualificato.
È questo il fulcro di un’opera come quella di Lasch, che è ancora estremamente attuale: il problema di fondo non è un problema governativo ma ideologico. Cito:«Il declino dell’autorità istituzionalizzata in una società estremamente permissiva non fa altro che condurre ad un declino del super io dell’individuo». E in questo tipo di società, che rifiuta un codice di condotta morale che possa mediare le interazioni sociali, «l’individuo deve lottare continuamente per mantenere il proprio equilibrio psichico».
Dunque, se fino ad ora una parte della popolazione ha vissuto la globalizzazione come un’opportunità di crescita e d’interazione, negli scorsi anni si è visto come gran parte degli individui abbiano cominciato ad essere intimoriti dalla possibilità di non avere sotto controllo il proprio futuro e di non riuscire più ad avere uno sguardo univoco sulla realtà.
Gli individui, che sono entrati a far parte delle fila di quei partiti populisti che rifiutano la tecnocrazia, entrano in contraddizione con loro stessi e perdono di vista la molteplicità del reale: dicono si ad internet e ai social networks per avere uno scambio di opinioni, ma dicono di no all’immigrazione, no allo scambio culturale concreto, si alle multinazionali che esportano la manodopera a basso costo all’estero, ma no agli “stranieri che rubano il lavoro”, e via dicendo. E però – riprendo ancora Lasch – «non sono i singoli a dover essere condannati, quanto piuttosto quel clima di guerra morale che governa oggi la società […], il sentimento di pericolo e l’incertezza, la sfiducia nel futuro. […] È la distruzione della vita personale, e non il ritiro nella sfera privata, a dover essere criticata e condannata.».
Ed è una parabola questa che perdura da qualche decennio e che sembra acuirsi sempre di più, perché? È molto difficile dare risposte univoche, ma forse, e tento un’interpretazione, l’unica forza che può aiutare a rendere questa crisi strutturale meno violenta è lo sviluppo dell’educazione e dell’insegnamento. Finanziare l’istruzione pubblica, sensibilizzare i cittadini alla tolleranza, alla convivenza tra le differenze, al riconoscimento dei doveri imposti dalla divisione del lavoro, significa far accettare in un certo senso il ruolo di ciascuno individuo nella sua fattispecie, senza per questo togliere né diritti né senso critico.
Western Crisis
Insomma, di fronte a crisi economica e stagnazione, crisi ecologica, migrazioni e ghettizzazioni, deterritorializzazione e social networks, cambiamento dell’opinione pubblica e il passaggio di una cultura dell’individualismo a quella del narcisismo, radicalizzazione antisistemica, eccetera, ci chiediamo se non sia più corretto parlare in generale di Western Crisis, e se questa mostra, essendosi aperta a Londra e non a New York, non voglia essere una provocazione volta a far riflettere su un cambiamento di status epocale, che non riguarda soltanto gli Stati Uniti d’America, ma anche l’Europa.