Riparando strumenti musicali nella sua Ramallah, il liutaio Shehada Shalalda offre spazi e momenti di condivisione, non solo musicali. Ha studiato in Europa, ma poi è tornato per «fare qualcosa per la mia terra, stando nella mia terra»
Ha studiato tre anni in Inghilterra, prima e dopo ha lavorato anche a Firenze, Napoli, Arezzo e Cremona. Ogni tanto torna in Italia, ma la sua vita è a Ramallah, altrimenti «lì chi la aggiusta la musica?». Gli strumenti per suonarla, si intende, quelli a corda, in particolare, perché Shehada Shalalda è un liutaio e ha sempre voluto esserlo. «A scuola, i miei compagni erano affascinati all’idea di suonare, io no: volevo dare forma agli ‘oggetti’ che offrivano una tale bellezza. I violini volevo farli, non suonarli – racconta – E li ho scelti perché sono strumento musicale anche orientale. Sono in sintonia con la nostra terra e parlano anche di noi, con noi».

Viaggio in Europa A/R
Prima di specializzarsi girando l’Europa, Shalalda ha coltivato la sua passione in una scuola musicale chiamata Al-Kamandjati, situata nella città vecchia di Ramallah, a due passi da casa sua. L’ha aperta il noto violista Ramzi Aburedwan per insegnare musica proprio ai bambini e «per incoraggiare l’avvicinamento dell’intera comunità all’identità palestinese e alle altre culture arabe e internazionali». Lo si legge tuttora e molto chiaramente sul sito dell’omonima associazione creata in Francia per raccogliere strumenti e fondi da inviare in Palestina assieme a maestri di musica e anche liutai. È proprio vedendo come una serie di questi “visiting professor” costruivano viole e violini che Shalalda ha costruito il suo futuro, prendendo poi il volo verso l’Italia per renderlo ancora più robusto. Aveva 18 anni e quella era la prima volta che calpestava una terra diversa dalla Palestina.
Il liutaio Paolo Sorgentone lo aveva personalmente invitato a Firenze durante una sua visita “musicale” in Palestina ed è proprio nel laboratorio di questo celebre maestro che Shalalda ha costruito il suo primo violino. «L’emozione provata nel vederlo nascere dalle mie mani è il più bel ricordo che ho di tutte le mie esperienze in Europa. Lo volevo regalare a mia sorella e, mentre lo creavo, pensavo continuamente a quanto le sarebbe piaciuto suonarlo», racconta.
Il primo strumento non si scorda mai, ma Shalalda ha continuato a realizzarne sempre meglio, passando di laboratorio in laboratorio e di mentor in mentor. Cita Marco Nedda, Jens Norskov Hansen, Paolo Stucchi e Gianluca Montenegro. Nomi che per lui sono giorni di crescita, di viaggi e di incontri, in giro per l’Italia e poi, verso l’Inghilterra. Next stop: la Scuola di Liuteria di Newark. Qui le tante ore trascorse in precedenza ad osservare e poi a imitare grandi maestri gli hanno permesso di fare “quattro anni in tre” e, sette viole e qualche violino e violoncello dopo, Shalalda è tornato a casa. «Se ho studiato qui, è stato per fare qualcosa di buono per la Palestina. Ma dalla Palestina».

Aggiustare per tornare a immaginare
«Serviva prima di tutto un luogo in cui riparare gli strumenti musicali: nessuno in Palestina si prendeva cura di viole e violini. Alcuni li mandavano altrove, spesso anche in Israele, ma era costoso e complesso e i controlli erano terribili, anche sugli strumenti musicali. E poi – aggiunge – una popolazione con una forte tradizione di artigianato come la nostra, sapevo che avrebbe potuto farlo da sola. Gli anni di occupazione hanno ostacolato i desideri di molti miei coetanei e la loro capacità di perseguire i propri sogni. Era necessario iniziare a seminarne di nuovi, anche facendo in modo che la musica continuasse e grazie a strumenti di produzione locale. E poi si potrebbe anche esportarli».
Shalalda mostra una capacità di creare sogni pari a quella di creare strumenti, si prende cura di entrambi con una costanza difficile da spiegare se si osserva la sua storia con il grandangolo, includendo il contesto in cui si svolge. Ma il suo fluido raccontare non ne lascia il tempo, trasformandosi presto nell’eco della musica che ospita nel suo Music Café a Ramallah. Lo ha aperto a fine 2024, ospitando ogni settimana serate live, con «musica che parla della situazione che viviamo qui, come quella di Sheikh Imam o di Marcel Khalifa», dice. Il primo è egiziano ed è considerato “un’icona del dissenso”, una “voce del popolo”, di ogni popolo che non si arrende. Il secondo è libanese e, quando ha ricevuto il Palestine Award for Music, lo ha devoluto al conservatorio nazionale di musica all’Università di Bir Zeit in Palestina.
«Finché abbiamo potuto ospitarla in sicurezza dal vivo, abbiamo usato la musica per parlare di ciò che ci succede, per mandare un messaggio e continuare a stare assieme e condividere – spiega – ora abbiamo dovuto cancellare alcune date, ma restiamo aperti per chiunque voglia passare a bere qualcosa e dare un’occhiata».


Benvenuti al Music Caffè: qui amiamo la vita
Varcare le porte del suo locale significa letteralmente accedere ai segreti di un maestro liutaio. Ci si dimentica delle coordinate geografiche in cui ci si trova e si respira l’aria serena di una bottega che crea strumenti per fare stare bene le persone. La frequentano donne e uomini, giovani e meno giovani, e anche bambini. Anche i suoi quattro, due femmine e due maschi, di 10, 8, 6 anni e 4 mesi. Tutti bazzicano in libertà tra gli strumenti e i legni con cui il loro padre lavora. Tutti suonano, «e non perché sono figli miei. Tanti genitori in Palestina incoraggiano i propri bambini a imparare la musica. È il desiderio di non rinunciare a nulla, di non limitarsi e limitarne desideri passioni».
Shalalda è la dimostrazione vivente di ciò che significa non negarsi di esplorare ogni possibilità. Lui ne aveva due, da piccolo: viaggiare o costruire violini. Scegliendo la seconda, ha finito per avverare entrambi i suoi sogni e oggi viaggia ovunque grazie alla musica, ma torna inesorabilmente a Ramallah.


«La prima volta che me ne sono allontanato è stato un’esperienza potente per me. Era il 2018 e, arrivato in Italia, ho chiesto tutto il tempo perché non c’erano checkpoint e soldati. Avevo sempre pensato che tutto il mondo vivesse come noi», ricorda. Aveva trascorso 18 anni così, con checkpoint e soldati, come l’intera generazione a cui appartiene, e non è l’unica.
Quando gli chiedono perché fare musica in “tale” situazione, quindi, lui risponde: «Noi vogliamo uscire dalla quotidianità a cui oggi siamo costretti. Vogliamo cambiare e condividere il desiderio di farlo, oltre a condividere il dolore che viviamo. Vogliamo fare tutto questo, ma restando assieme. Lo capisci? È molto importante, perché è un sentimento che non si coglie da fuori»m spiega. Poi tace, sembra abbia concluso, ma riprende. «È un modo diverso per spiegare che siamo persone normali. Anche se da tanto in questa situazione, anche noi amiamo la vita». Musica compresa.
