Gli orologi locali hanno segnato le quattro, e i bombardamenti israeliani sul Libano si sono interrotti. All’indomani dell’inizio del cessate il fuoco, un paese intero si sveglia tra le macerie e i cadaveri delle ultime vittime, in viaggio verso ciò che rimane dei villaggi del sud
Il mio amico Ahmad questa mattina – una mattina di traffico, nuvole e niente droni, a Beirut – mi raccontava dell’ultimo martire delle rivoluzioni egiziane, qualche ora prima che Mubarak si dimettesse. Aveva undici anni, l’11 febbraio 2011: abbastanza grande per ricordare il volto di un ragazzo visto di sfuggita in televisione, in un paese abbastanza vicino per empatizzare con il suo popolo, e abbastanza sveglio per accorgersi dell’inutilità di quella morte. La 239esima, in due settimane e tre giorni di proteste, tredici anni fa, al Cairo. Non c’è la stessa simmetria nei numeri della data di oggi, il 27 novembre 2024. Né tra le coordinate di piazza Tahrir e quelle del caffè di Hamra in cui io e Ahmad ci siamo incontrati, a poche ore dall’inizio del cessate il fuoco. Ma i volti dei ragazzi e delle donne e dei vecchi uccisi inutilmente, nell’ultima notte di ponte tra la guerra e la tregua – quella trascorsa senza sonno, in tutto il paese – devono somigliare tanto a quel giovane egiziano, la cui età, cristallizzata dalla morte, Ahmad ha ormai raggiunto e forse superato. Adesso può dirlo: è, anche lui, un sopravvissuto. E finalmente può tornare ad Arnoun, il villaggio della provincia di Nabatieh da cui è stato sfollato lo scorso 23 settembre.
Due mesi e quattro giorni dopo l’inizio dell’ultima escalation di bombardamenti scellerati sul Libano, i sopravvissuti tornano indietro: verso il sud, la valle della Beqaa, i quartieri meridionali di Beirut – e quelli centrali, da cui gli ultimi non-ancora-morti, quasi-superstiti, sono scappati nelle ore concitate di ieri, il terrificante ultimo giorno di conflitto. In attesa che il gabinetto di guerra israeliano si pronunciasse sul cessate il fuoco; poi, che trascorresse il tempo verso l’orario annunciato – le quattro. Un tempo eterno.
Nel raccontare, nessuno ha avuto dubbi nel chiamarle quattro di notte, e non di mattina: per percepire il nuovo giorno, anche se è buio, bisogna andare a dormire. Ma ieri notte, a Beirut, a Sidone, a Tiro, a Baalbek, e persino ad Akkar, lungo il confine con la Siria – nessuno ha dormito. Gli ordini di evacuazione costringendo gli insonni ancora in vita a fuggire dalle proprie abitazioni, prima che le ultime bombe le radessero al suolo; e i più sfortunati venendo massacrati dalla violenza residua delle ultime ore, senza preavviso. Come nel 2006, così oggi: all’approcciare del cessate il fuoco, le bombe piovono in spregio. E alle 3:30 indubbiamente di notte e non di mattina, mezz’ora prima della fine, a Zeita, non lontano da Sidone, quattro persone – un’intera famiglia – sono state addormentate per sempre, nel mezzo dell’ultima veglia. Un solo sopravvissuto, in condizioni critiche. Quelli di loro più giovani di 18 anni – tanto è trascorso dall’estate 2006 – costretti a non sapere mai a che cosa somigli il primo giorno di un cessate il fuoco.
Io, prima di viverlo, non avevo idea che potesse assumere il volto terrorizzato della mia vicina, spaventata dalla notte che sarebbe venuta; l’eco delle ambulanze che si sono fatte strada nel traffico di nuovi sfollati – le urla di chi non vuole, non può morire proprio l’ultimo giorno, dopo essere sopravvissuto finora; le università che annunciano di rimanere chiuse – ‘for safety reasons, until further notice’ – proprio quando pensavamo che a guerra finita fossimo di nuovo al sicuro, che ci si potesse riversare tutti per le strade, a vedere cosa fosse rimasto. E invece ci siamo chiusi nelle case; il fuori si è rivelato un paese straniero e nemico; a tenerci svegli, una valanga di messaggi tutti uguali: are you okay, don’t leave your home, stay safe. Non siamo stati al sicuro, la notte che la storia racconterà come la fine della guerra, e che per quella famiglia di Zeita – per quell’unico sopravvissuto in condizioni critiche – non ha segnato che l’inizio: abbiamo continuato a temere i temporali, le porte sbattute, la spunta singola di un messaggio non ricevuto.
E come quando, due mesi e quattro giorni fa, i miei coetanei che di inizi-guerra e di tregue ne hanno vissuti almeno due, al mio tremare di paura a ogni boato scherzavano: ya hayati, vita mia, si vede che è il tuo primo bombardamento – ieri, al mio euforico sussultare per l’annuncio della fine, mentre tutto intorno ancora crollava, bruciava, strillava di terrore, mi hanno smascherata, ancora una volta. Ya hayati, si vede che è il tuo primo cessate il fuoco. Adesso so: che la fine di una guerra fa più paura del suo inizio. Poi, però, è arrivato il mattino. Neanche più un drone. C’è uno strano silenzio, il primo giorno di un cessate il fuoco. Le strade per il sud piene di aa’idin, la parola araba per returnees, coloro che ritornano, e per cui l’italiano non ha un termine appropriato, se non rimpatriati: quando la patria ha le dimensioni di un piccolo villaggio, l’odore dei bombardamenti è fresco – come il fumo che si alza dalle macerie, e il conteggio dei feriti e dei morti non è ancora definitivo. In questo mattino di nuvole e niente droni, ai rimpatriati che sventolano bandiere di Hezbollah, come se avessero vinto la guerra, e disseppelliscono i loro morti per portarli al villaggio, come se fosse pace quella in cui da oggi potranno riposare, è concessa un’innocenza che non durerà. Almeno finché qualcuno non pronuncerà Gaza, e i prossimi sessanta giorni di temporanea tregua saranno trascorsi.