Le reazioni al film di Barbie altro non fanno che confermare come la società guarda le donne e cosa si aspetta da loro: essere perfette ma non troppo, sicure di sé ma non al punto di intimidire, vere e reali ma comunque sempre presentabili.

Il film di Barbie, diretto da Greta Gerwing, al momento ha raggiunto due traguardi: il primo come film campione d’incassi al primo weekend nelle sale diretto da una regista, il secondo aver generato molte discussioni tra elogi e malcontenti. Una delle ragioni è sicuramente perché l’attesa del film ha creato aspettative altissime. Da una parte è il primo film non di animazione che ha come protagonista Barbie, dall’altra la calcolata e ponderata condivisione di scene e informazioni sul film nei media con l’avvicinarsi della data di uscita. A questo si aggiunge che la regista è Greta Gerwing. Prima di dirigere Barbie, Gerwing ha diretto “Little Women” e “Lady Bird” ed è stata applaudita per aver raccontato le due storie attraverso la lente femminista. Le aspettative quindi erano un calibrato mix di operazioni di marketing e aspettative di un certo tipo di contenuto sulla base del background della regista. 

Tutto quello che viene detto in Barbie è vero

All’interno del film Gerwing ha abilmente tenuto assieme tre cose, apparentemente, in contraddizione tra loro: ha mostrato i modelli di Barbie e Ken che sono stati ritirati dalla produzione perché ritenuti scomodi o poco adatti facendo spiegare alla voce narrante il motivo; ha raccontato le ragioni del successo della bambola Barbie e ha citato in maniera esplicita le critiche rivolte alla bambola nell’arco degli anni. Il tutto senza nemmeno provare a edulcorare ciò che Barbie, nel bene e nel male, ha rappresentato per generazioni e generazioni di bambine.

BarbieLand è un luogo perfetto, che esiste oltre al mondo reale, fatto di plastica, di lustrini, di felicità infinita, di colore rosa e di accessori magnifici. Tra cui Ken. Barbie è diventata tutto: presidente, senatrice, giudice della Corte Suprema, premio Nobel della Letteratura, fisica, medica. In BarbieLand, Barbie è diventata tutto ciò che voleva e che aspirava a essere. E tutto naturalmente senza un capello fuori posto, una gonna sgualcita o il rossetto sbavato. Nel mentre, Ken rimane “just Ken”. La bambola Barbie ha permesso a milioni di bambine di immaginarsi impiegate in professioni a dominio maschile, il tutto creando una narrazione completamente diversa da quella di “donna angelo del focolare” dell’epoca in cui è entrata nel mercato. Barbie è una bambola diffusa a partire da fine anni Cinquanta la cui storia viene creata e raccontata a prescindere dal suo essere legata a una figura maschile.

La bambola di Ken viene creata in una fase successiva e tutt’ora rimane un mero accessorio di Barbie, al pari della Casa dei Sogni, del camper, dei vestiti. Addirittura, nel 1963 la Mattel lanciò “Midge and baby”, un’amica di Barbie che era incinta con un pancione che poteva essere messo e tolto e all’interno del quale si poteva inserire un bebè. Nessun Ken e nessun altra figlia o figlio era presente nella confezione. Nel 1967 Matter fu costretta a ritirare la produzione perché una donna, anche se inventata, che aveva un bebè senza la presenza di un padre non era socialmente tollerato, soprattutto dai conservatori. Purtroppo anche i tentativi di reintrodurla nel mercato negli anni Ottanta e Duemila non andarono a buon fine, nonostante il padre e gli altri figli questa volta fossero disegnati sullo sfondo della scatola e potessero essere acquistati separatamente. 

Al tempo stesso Barbie è una bambola che per decenni ha costretto bambine e donne a confrontarsi con standard di bellezza irraggiungibili. Non appena, nel film, Margot Robbie, che interpreta Barbie, arriva nel mondo reale una delle protagoniste le dice che rappresenta “tutto ciò che c’è di sbagliato nella nostra cultura, che ha influenzato la vita di migliaia di donne costringendole a standard impossibili, che ha rafforzato la concezione della donna come oggetto e che rappresenta il consumismo rampante della nostra società”. E infatti il seno pronunciato, le gambe lunghissime e il vitino da vespa della bambola Barbie richiedono proporzioni che nel mondo reale non sarebbero anatomicamente possibili. Non si riuscirebbe nemmeno a stare in piedi. La critica televisiva Willa Paskin nell’episodio “Can Barbie be rebranded as a feminist icon?” di The Daily, andato in onda venerdì 21 luglio 2023, racconta come a partire dagli anni Duemila tantissime madri non si sentissero più a proprio agio nel regalare Barbie alle proprie figlie. Non volevano che le bambine giocando con queste bambole assorbissero passivamente i loro standard di bellezza e di fisicità irraggiungibili.

Questo ha fatto perdere a Mattel una fetta importante di mercato e ha spinto l’azienda a cambiare rotta, creando bambole che assomigliassero più alle donne e nelle quali le bambine si potessero rispecchiare di più. Mattel negli ultimi dieci anni ha introdotto una Barbie bionica, una Barbie con vitiligine, bambole con altezze e fisicità diverse, con capelli lunghi, corti, colorati o senza capelli. E per quanto faccia spuntare un sorriso di soddisfazione passeggiare tra le corsie del supermercato e vedere Barbie di tutti i tipi è giusto ricordare che è stata una scelta economica, di mercato. Il che non significa che avere diversi modelli di Barbie sia un male e vada condannato, anzi, è giusto però tenere a mente che si è trattato di una scelta fatta per la sopravvivenza dell’azienda.

Doppi standard 

Dal film diretto da Gerwing e dalla bambola di Barbie ci si aspettava un film femminista e considerato il contesto in cui è stato girato – un ambiente hollywoodiano con una regista bianca inserita in un contesto neoliberale – a suo modo, lo è. In particolare, nel passaggio di Barbie da BarbieLand al mondo reale, il film racconta bene come le donne siano viste come un oggetto sempre a disposizione per essere commentato, osservato, addirittura toccato da chi desiderasse farlo. E se per molte e molti l’oggettificazione della donna nella società è qualcosa di conclamato, per moltissime altre persone non lo è. A questo si aggiunge la scoperta di Ken del patriarcato con annessa strizzatina d’occhio alla fragile masculinity. Arrivato a Los Angeles infatti, Ken scopre che, a differenza di BarbieLand, nel mondo reale è tutto molto uomo-centrico e prova a ricreare il patriarcato fuori dal mondo reale, trasformando BarbieLand in Kendom. Inserire due passaggi su questi temi che vengono citati in maniera esplicita, senza metafore o perifrasi, in un blockbuster estivo è un’occasione non sprecata per far arrivare i messaggi a un pubblico più ampio.

Una menzione speciale per il monologo di Gloria, interpretata da America Ferrera. Ferrera parlando a Barbie che dice di sentirsi non abbastanza, descrive gli standard che la società chiede alle donne di mantenere:

È letteralmente impossibile essere una donna. […] dobbiamo essere sempre straordinarie, ma in qualche modo lo facciamo sempre nel modo sbagliato. Devi essere magra, ma non troppo. E non puoi mai dire di voler essere magra. Devi dire che vuoi essere sana, ma devi anche essere magra. Devi avere soldi, ma non puoi chiedere soldi perché è grossolano. Devi essere un capo, ma non puoi essere cattiva. Devi guidare, ma non puoi schiacciare le idee degli altri. Dovresti amare essere una madre, ma non parlare sempre dei tuoi figli. Devi essere una donna in carriera, ma anche essere sempre attenta alle altre persone. Devi rispondere del cattivo comportamento degli uomini, il che è folle, ma se lo fai notare, sei accusata di lamentarti. Dovresti essere carina per gli uomini, ma non così carina da tentarli troppo o da minacciare altre donne perché dovresti far parte della sorellanza. Ma distinguiti sempre e sii sempre grata. Ma non dimenticare mai che il sistema è truccato. Quindi trova un modo per riconoscerlo ma anche essere sempre grata. Non devi mai invecchiare, non essere mai scortese, non metterti mai in mostra, non essere mai egoista, non cadere mai, non fallire mai, non mostrare mai paura, non uscire mai dalla linea. È troppo difficile! È troppo contraddittorio e nessuno ti dà una medaglia o ti dice grazie! E si scopre infatti che non solo stai sbagliando tutto, ma anche che tutto è colpa tua.

Al termine di questo monologo metà delle persone in sala si stava asciugando gli occhi. Inutile dire che erano praticamente tutte donne. 

Come viene chiesto alle donne, così anche alla bambola Barbie e a Barbie in questo film viene chiesto di soddisfare le aspettative di tutte e tutti: deve raccontare la bambola con cui giocavi da piccola, ma non deve essere troppo perfetta, ma deve essere rappresentativa di tutti i corpi che possono esistere, deve essere un film divertente e leggero ma che porti anche le battaglie femministe sul grande schermo. La domanda è perché dal blockbuster hollywoodiano di Barbie, prodotto da un’azienda di giocattoli, ci si aspettasse un film d’essai patinato di rosa e brillantini nelle cui battute si nascondessero passaggi riadattati dei testi di Simone de Beauvoir e Judith Butler. Riflettendoci, non è altro che il ripetersi del meccanismo di doppio standard che spesso viene applicato alle donne e alle cose a firma loro. Il film Barbie viene dismesso come banale, criticato per raccontare una bambola che impone standard irraggiungibili senza mettere in discussione il sistema. Ma quando i bambini si vestono da Iron Man dicono che è il loro Avenger preferito è Tony Stark nessuno si preoccupa del fatto che l’idolo della propria prole sia playboy ultraricco con una dipendenza da alcol talmente evidente da essere un tratto caratterizzante del personaggio. Al netto del fatto che gli Avengers siano supereroi mentre Barbie fa cose da umana. 

Il doppio standard vale anche per il product placement. Tra le critiche che ha ricevuto il film c’è quella di product placement per il marchio Birkenstock. Le ciabatte compaiono distintamente in tre scene del film e il cameo avrebbe generato una accelerazione delle vendite online del 110%. Questa potrebbe sembrare una critica sensata se non fosse che il product placement è una pratica consentita e usata fin dagli anni Ottanta in tantissime produzioni, non solo cinematografiche. Chissà quanti si sono lamentati della comparsa di Pepsi in “Ritorno al futuro 2” o della massiccia presenza del marchio hp e Staples in “The Office”. Chi dice che ora Birkenstock potrà essere quotata in borsa grazie a Barbie ignora che nel 2021 Birkenstock è stata acquistata dal gruppo Lvmh all’interno del quale ci sono anche marchi di lusso come Louis Vuitton, Dior, Fendi e Tiffany. Prima di questo, Birkenstock ha collaborato con marchi di lusso come Manolo Blahnik, esatto, proprio quello di Carrie Bradshaw in Sex and the City. La presenza di Birkenstock nel film Barbie è solo l’ultimo step di un percorso che ha visto le ciabatte tedesche passare da sandali ortopedici a simbolo di un certo status quo, al pari dei beni di lusso. 

Insomma, con il film di Barbie Gerwing ha colto una grande occasione per la propria carriera da regista, mettendo la firma su un film che, al netto dei giudizi, rimarrà negli annali. Barbie è stato realizzato con grande attenzione ai dettagli e sa emozionare molto più il pubblico adulto di quello dei più piccoli. Barbie infatti non è un film per bambine. È un film per adulte (e adulti) che vogliono fare i conti con la propria passione per una bambola che al tempo stesso può essere stata una costrizione e una via di fuga. Un dilemma che Gerwing gestisce bene, facendo rivivere le emozioni di far svegliare la propria Barbie in una casa rosa di plastica e di farle fare la doccia per finta ma senza lasciarla confinata al suo ruolo di bambola con cui giocare. 

Barbie ha generato molte discussioni, consigliata la lettura anche di recensioni che raccontino aspetti diversi del film. Di seguito alcuni consigli:

Che noia questa Barbie utopica. Si salva soltanto Gosling-Ken. Domani

Barbie spreca la sua occasione e ci rifila prediche, spot e l’assoluzione della Mattel, Wired

Why Barbie must be punished, The New Yorker

In copertina una scena del film, Warner Bros. Pictures.