“Per me Bucarest è viscerale, istintiva e priva di logica. È come l’acqua che bolle e come quella di una cascata, violenta, agitata e torbida”.

La scrittura di Margo Rejmer fa lo stesso effetto di una torcia che illumina una stanza buia. Risalta angoli, spigoli, dettagli; lo fa per un attimo, per una frase. Poi si sposta su altro o su un altrove, trascinando con sé il lettore.

Reporter e giornalista, erede di quella scuola polacca di giornalismo narrativo alla quale non saremo mai abbastanza grati, Rejmer è tradotta in italiano grazie al solito lavoro prezioso della casa editrice Keller. Il suo libro BUCAREST – POLVERE E SANGUE, tradotto da Marco Vanchetti, va contro ogni logica di pre-produzione, perché quanti sarebbe pronti a scommettere su un long-term project che racconta una città, nel tempo di Instagram? Quando sembra che nulla resti più da svelare, nulla sia più celato allo sguardo, nessuno resti senza un racconto?

Invece questo lungo reportage, che attraversa tempi e mondi – e stagioni della stessa autrice – riesce a fare quell’operazione che nel giornalismo narrativo è allo stesso tempo difficile e affascinante: mettere il sé nel tutto. E farlo con le giuste dosi, con il giusto passo, con i tempi del camminare più che dello scrivere, del fotografare e del raccontare.

Rejmer racconta Bucarest per strati, così come la vede lei, ma riesce a dimostralo che questo sguardo da soggettivo si fa oggettivo, in un’operazione geopoetica che si basa su fatti e dati, date e persone. Ed è questo che restituisce la forza di un testo: raccontare uno spazio come fosse vivo, non un mero contenitore di storia, ma un’attrice essa stessa – la città – dei processi che la determinano, la mutano, la abitano.

Da giornalista polacca, l’approccio al tema del passato regime è particolarmente interessante, almeno per chi come me lavora sulle memorie, individuali e collettive, come parte del presente. In fondo la vita al tempo del regime dei rumeni che Rejmer raccoglie si riflette, come uno specchio, nelle sue memorie, familiari e collettive.

“Nella costruzione del Pałac Kultury 8 di Varsavia sono deceduti sedici operai. La Casa del Popolo (il Parlamento titanico di Bucarest ndr) è un progetto così assurdo per dimensioni che chiunque ne parli può dare un numero di vittime a caso e giurare che è quello reale. Diecimila vittime – è il numero su cui punta la guida. Di mille morti parla lo storico Alexandru Murad Muranov. Valentin Mandache, guida turistica di Bucarest, stabilisce il numero delle vittime in cento persone. Invece Andrei Pandele, fotografo e architetto che ha lavorato alla costruzione, parla di alcune decine di vittime. A tutte le stime risponde il vuoto degli archivi. Non esistono documenti che possano rispondere a questa domanda. Pare che siano andati distrutti durante la rivoluzione. Qualcuno mi racconta di camion pieni di raccoglitori. Qualcun altro racconta di Mercedes coi bagagliai pieni di carte. Un terzo ha visto alla periferia di Bucarest i falò nei quali veniva dato alle fiamme il vecchio regime. Nella nuova Romania la verità è merce rara, è venduta al mercato nero, ma non ce n’è poi una gran richiesta.”

Questo è il sentiero, accidentato, che cammina chi si confronta con la memoria. Non è un’inchiesta classica, perché troppo spesso ci si confronta con i vuoti, ma diventa un’inchiesta narrativa, che raccoglie i cocci, i ricordi, le vecchie fotografie, per creare una mappa nella quale trovino un posto tutte le voci. Poi bisogna fare un passo indietro, guardare la mappa da lontano, e vedere le connessioni che dalle memorie personali compongono quella collettiva.

E non è operazione che ha a che fare solo con il passato, assolutamente, perché son in quelle dinamiche e connessioni che spesso si comprendono alcuni processi di una collettività che ancora sono presenti e che, senza quel passo indietro, a volte paiono decontestualizzati.

A un certo punto del libro, lasciandosi stupire da queste voci, Rejmer si trova di fronte a un racconto che decide di restituire in forma di atto teatrale: Adriana, Ilean, Octavian, Ramona sono personaggi. Non di una farsa, né solo di una tragedia, né solo di una commedia.

Sono testimoni di un’epoca; con questo rispetto vanno trattati loro e le loro memorie, le loro storie. Rejmer lo fa, ma con il passo della reporter, è perfetta nel restituire quel senso di drammaturgia e di rappresentazione che tutti noi che ci siamo trovati a raccontare la memoria, in Romania come in Palestina, abbiamo visto davanti ai nostri occhi.

Un reportage da non perdere, dove Bucarest è teatro e attrice allo stesso tempo, mentre Keller lavora alla traduzione del suo lavoro successivo sulla memoria in Albania. Rejmer ha un talento puro per la scrittura, ma ancora di più per lo sguardo e leggere e come guardare là dove sembra di aver visto tutto, ma dove c’è sempre un angolo in una stanza buia da illuminare con una torcia.