Il Napoli conquista il suo terzo scudetto tra luoghi comuni e stereotipi che stentano ad andar via. Ci aiutano a capire meglio la situazione i fondatori delle pagine social La Napoli bene e il Napulegno.

Dopo 33 anni il Napoli conquista il suo terzo scudetto, lo si era capito da molto prima e scaramanzia a parte la città era già pronta e addobbata per questo evento. Bandiere, festoni e manifesti testimoniavano già da aprile quella che sarebbe stata una festa desiderata dai tempi di Diego Armando Maradona. La vittoria del campionato da parte di una squadra del Sud non accadeva da tempo, basti pensare che nella nostra Serie A mai due squadre di centro-sud avevano occupato le prime due posizioni della classifica come accaduto quest’anno con Napoli e Lazio. Insomma il monopolio del potere calcistico era fermo al nord, conteso tra le solite: Inter, Milan e Juventus. E se il calcio può essere metafora di un Paese, l’Italia che notoriamente concentra la sua forza economica nelle parti alte dello stivale questa volta ha assistito ad una vittoria del sud, una vittoria calcistica ma che in tanti hanno chiamato riscatto sociale.

Può davvero un evento sportivo riscattare socialmente una città? Forse a questa domanda la risposta è soggettiva, abbiamo però intervistato due persone che conoscono bene il tifo partenopeo e che in generale masticano di calcio: Marco Cannata e Rosario Dello Iacovo, entrambi fondatori di due pagine social molto seguite, rispettivamente La Napoli Bene e Il Napulegno. Da anni le pagine vengono seguite da migliaia di tifosi azzurri e non solo, raccontando aneddoti sportivi e commentando assiduamente quello che accade dentro e fuori dal campo. Alla domanda dunque perché Napoli continua ad essere vittimi di pregiudizi e luoghi comuni Marco (de La Napoli Bene) ha risposto netto:

I festeggiamenti ovunque sono celebrati come momento di gioia, a Siviglia, Roma, Torino si organizzano autobus scoperti per farli sfilare in città, solo a Napoli sembrano assumere connotati di preoccupazione globale senza che nessuno in realtà ci sappia spiegare il perché. C’è una sorta di ghettizzazione che parte in automatico ponendoci al cospetto del resto del mondo come problema irrisolvibile, che necessita interventi d’urgenza; Napoli vende più quando muore che quando offre vita, e quando vince si cerca di farla perdere comunque”.

Effettivamente quello che risulta ancora evidente è la narrazione mainstream tuttavia ancorata a stereotipi e luoghi comuni quando si parla di Napoli; un po’ come quando a scuola il professore ti etichettava come l’ultimo della classe, scrollarsi quest’idea di dosso risulta difficile a Napoli, anche perché la società attuale ha inesorabilmente bisogno degli ultimi.

I civili festeggiamenti durante la matematica vittoria dello scudetto contro l’Udinese hanno sorpreso un po’ tutti; non è un caso che Repubblica, uno dei principali quotidiani nazionali abbia, si spera involontariamente, preso un abbaglio tanto da titolare il giorno 5 maggio così: “Festa scudetto Napoli, ucciso ragazzo di 26 anni a colpi d’arma da fuoco”. Ma anche RaiNews.it: “Napoli Campione d’Italia, la notte di festa si macchia di sangue”. E ancora Mediaset.it: “Scudetto Napoli, un morto e sette feriti durante i festeggiamenti”. L’episodio però nulla aveva a che vedere con la questione calcistica, l’omicidio infatti era collegato esclusivamente a vicende di camorra. L’impressione che i festeggiamenti sarebbero stati pericolosi prendeva piede solo tra le principali testate nazionali, perché in città il clima di festa è stato raccontato anche da chi ha vissuto i primi due scudetti, come senza precedenti. Tutto è andato come non era stato previsto: gli ingenti schieramenti di polizia e camionette hanno assistito con entusiasmo alla gioia pacifica esplosa in città con quasi mezzo milione di persone in piazza, e con feste praticamente ogni giorno sino all’ultima giornata di campionato. Ecco che quindi la domanda sorge spontanea: si può continuare con una narrazione distorta senza conoscere realmente ciò di cui si parla?

Durante la partita con la Fiorentina una delle principali coreografie esposte in Curva B allo stadio Maradona titolava così: Campioni in Italia; piuttosto che campioni d’Italia. Lo stendardo del tricolore esposto al rovescio come un vessillo rubato al nemico, uno scippo orgoglioso atto a testimoniare la fiera appartenenza alla città che prendeva le distanze dal resto della nazione. Questo aspetto non deriva dal calcio ma ha radici ben più profonde all’interno della società.

Rosario Dello Iacovo, giornalista e fondatore del Il Napulegno, ci dice: “Piuttosto che guardare allo striscione bisognerebbe domandarsi da cosa ha origine questo sentimento; se per anni ci siamo sentiti trattati come diversamente-italiani di cosa ci si meraviglia?”. Ecco perché da Roma in giù fa rabbia il concetto che lo scudetto abbia riscattato la città.

Dello Iacovo infatti a questa domanda aggiunge: “Un po’ come l’atleta afroamericano vincente nella box o nell’atletica leggera riscatta la sua comunità, così allo stesso modo il Napoli ha riscattato il suo popolo; non c’è concetto più errato di questo. Il vero riscatto sarebbe far tornare in città i milioni di giovani emigrati, significherebbe vedere una città funzionante nei trasporti così come negli affari pubblici, riscatto sarebbe avere livelli di reddito paragonabile al resto delle città italiane. È consolatorio immaginare che una vittoria sportiva possa rappresentare una rivalsa sociale; la vittoria sportiva resta niente più e niente meno che una vittoria sportiva! Sarebbe assolutorio verso la classe politica parlare di riscatto, così non dev’essere”.

Anche Marco Cannata a questa domanda sembra non avere dubbi: “Non c’è niente da riscattare; il riscatto è solo negli occhi di chi vuole una narrazione patetica ed autolesionista. Napoli ha riscattato la sua storia calcistica dopo 33 anni, dominando il campionato, senza favori arbitrali”. Per il fondatore de La Napoli Bene è semplice la questione: “La squadra ha vinto e la città ha festeggiato, chi vuole raccontare altro mente sapendo di mentire”.

Napoli, terza città in Italia, è sicuramente attanagliata da problemi atavici: criminalità organizzata, disoccupazione dilagante, mancanza di infrastrutture adeguate ad accogliere fasce di popolazioni sempre più ampie, sono solo alcuni dei problemi noti del mezzogiorno; ma questi fattori sembrano essere fardelli oramai impossibili da scrollarsi di dosso, e paradossalmente di questi problemi pare siano proprio i meridionali i veri colpevoli. Non è un caso che questa nomea da sempre scomoda ai napoletani, in questi 162 anni di unità nazionale li abbiano portati a vivere forti sentimenti anti nazionalistici.

Chi conosce il territorio sa bene quanto l’Italia sia frammentata tra culture molto diverse tra loro, ad oggi c’è da accettare però che sono in molti a non riconoscersi nel tricolore o quanto meno nel fastidio di vedersi riconoscere fratelli d’Italia solo in sparute occasioni. Lo sfottò da stadio dunque rappresenta la punta di un iceberg, ma quello che si nasconde sotto negli anni si è dimostrato sempre più pericoloso; gli episodi di violenza ne sono la testimonianza, basta riavvolgere il nastro alla finale di Coppa Italia del 2014 tra Napoli e Fiorentina per ricordare la morte del tifoso azzurro Ciro Esposito da parte dell’ultras romanista Daniele De Santis; non sono episodi slegati, dallo sfottò all’odio il passo è breve.

Quell’episodio ha riaperto delle crepe non all’interno dei movimenti del tifo organizzato bensì all’interno della società.

Non ci si meraviglia dunque se guardando indietro ritroviamo anche sui media nazionali frasi simili: Il Messaggero il 7 ottobre 2017 faceva uscire quest’articolo di cui il titolo: Padova, tornano gli annunci razzisti: «Non si affitta ai meridionali, specialmente napoletani e siciliani». Così come Libero nel 2018 titolava: “Torna il colera a Napoli, l’hanno portato gli immigrati”. The last but not the least potrebbe essere l’indimenticabile figuraccia di Matteo Salvini che alla festa della Lega a Pontida del 2009 cantava: “Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani”. Queste sono solo alcune vicende note che nascondono un problema di razzismo dilagante.

Quello che allontana una fetta di popolazione partenopea dal resto del Paese non è dunque lo sfottò da stadio “lavali col fuoco” (tant’è che poi ironicamente i napoletani hanno deciso di auto dedicarsi quel ritornello) piuttosto un odio percepito in ambiti extra calcistici, e come oppio dei popoli questa insofferenza non poteva che riversarsi anche nello sport più seguito dal Bel Paese.

La vittoria delle nuove generazioni

Quello vissuto quest’anno potremmo definirlo come la vittoria delle nuove generazioni, degli under 30. La Napoli di 33 anni fa usciva tramortita se non distrutta dal terremoto dell’Ottanta, che con sé non portò solo morti e distruzione ma anche una mala politica che si fiondò su nuovi appalti e costruzioni. La città indebitata fino al collo visse anni cupi di cui le nuove generazioni non hanno memoria. Quello che invece le nuove generazioni hanno vissuto è stata piuttosto una rinascita: dalle faide di camorra degli anni 2000 all’emergenza rifiuti fino alla città di oggi, il cambiamento è stato importante. I meriti di questa rinascita non sono certamente attribuibili alle ondate di turismo che ad oggi colpiscono la Campania, piuttosto quello che i giovani chiamano nuovo rinascimento è percepito nelle arti come nel nuovo senso di appartenenza verso una città stanca di essere raccontata dall’esterno. Da Procida capitale della cultura nel 2021 a Bacoli modello virtuoso per la tutela dell’ambiente passando per la sperimentazione del primo computer quantistico d’Italia che sarà testato alla Federico II.

La città, figlia adottiva di set cinematografici che spuntano ovunque si è vista in questi anni rappresentata da artisti come Paolo Sorrentino che nel film È stata la mano di Dio si è impossessata di quel racconto che prima si ritorceva contro. Così non ci si meraviglia più se i nuovi tormentoni come le canzoni di Liberato, la serie Mare Fuori, siano figli proprio di quella città che prima nessuno voleva elogiare. Napoli continua così in un ponte tra passato e futuro in cui niente e nessuno viene dimenticato. A Marco Cannara de La Napoli bene abbiamo infatti chiesto:

Napoli continua ad essere attaccata alle sue tradizioni e ai suoi personaggi storici, possiamo dunque definire la città e i suoi cittadini come una tribù in una cornice come quella europea lanciata verso la società 2.0? La risposta: “Napoli ha memoria, tracima amore nei confronti di chi ha permesso una narrazione differente della sua storia, un’identità che viene tramandata. I nostri nonni continuano a raccontarci delle televisioni ingombranti in bianco e nero e le famiglie riunite attorno”.

Il racconto infatti resta fedele perché la città continua a non dimenticare i suoi miti del passato ma stanca di essere rappresentata sempre e solo dai soliti volti (Totò, Eduardo, Maradona, Troisi) ha iniziato a sfornarne di nuovi. La città resta una sorta di tribù ancorata e salda nelle sue tradizioni in un contesto come quello occidentale sempre più appiattito dal turismo massivo che se da un lato porta introiti dall’altro cancella culture e ponti con il passato. L’importanza di questa vittoria così non va vista in chiave di riscatto sociale bensì come ulteriore passo verso la felicità di un popolo che conquista fiducia.

Lo scudetto non risulta altro che una vittoria calcistica, piuttosto il passo più difficile sembra essere quello sui cliché, sui luoghi comuni e sugli stereotipi. Perché il napoletano deve far ridere, essere macchietta, ma quando vince fa strano, si inizia a parlare di riscatto, rivalsa, come se ci fosse sempre qualcosa da dover dimostrare, conquistare agli occhi degli altri. Il Napoli ha vinto sì, ma uno scudetto, chi invece continua a perdere è quella parte razzista che continua a vedere il diverso sempre come una minaccia e mai come una ricchezza. E per concludere citando Sorrentino: Napoli non ti disunire, perché ad oggi hai: n’ata cosa a raccuntà.