Sulla collina di Mongorio questa sera c’è una brezza calda, le spighe frusciano lente mentre tremolano le luci di Milano a sud ovest, ci separano pochi chilometri ma sembra un altro mondo: si riconoscono distintamente le torri che ormai guarniscono lo skyline milanese, Unicredit, City Life…

Da qui si vede una città piccola piccola, si respira la stessa pessima aria, ma accompagnati dal frinire dei grilli. 

Rivolgendo lo sguardo a sud, spuntano dalla massa indefinita del suburbio le Torri Bianche di Vimercate e, oltre, molte oltre, quasi fossero una linea lieve che ondeggia sopra la calura padana, si intuiscono gli Appennini.

A nord, invece, una nitida meraviglia alpina, una corona di roccia, un inaudito senso di lontananza: scuro, incoronato dal bagliore d’oro del tramonto, incombe a ovest il maestoso profilo del Rosa, e poi correndo con gli occhi verso est, una vasta rassegna di cime che terminano con le Orobie, perse nella notte che è già arrivata a oriente. Penso che ci siano pochi altri luoghi in Italia dove facendo un giro su sé stessi si possa avere in un solo sguardo paesaggi così tanto (apparentemente) estranei.

Se uno si chiede cosa ci faccia un Festival delle Geografie in Brianza, come sia saltato fuori, che senso abbia, forse potrebbe partire proprio da qui, osservando.

Le vedute dalla collina di Mongorio sono sintesi mirabile di un territorio di confine, un confine poroso, incerto, diffuso, ma perfettamente percepibile. Qui non è più campagna e non è ancora città. I geografi probabilmente parlerebbero di città diffusa, ma non credo basti. In una delle aree più laboriose e produttive d’Europa, l’ultimo treno rientra da Milano alle dieci, poi una lunga notte di binari silenziosi; in una delle zone più densamente abitate d’Italia, con ore e ore spese nel traffico che viene e va dalla metropoli, la sera si può girare a lungo per strade deserte, ad ammirare la composta desolazione di rotonde e parcheggi di ipermercati muti e perfettamente illuminati, ad ascoltare nei quartieri nuovi il rumore sordo dei condizionatori, le voci sigillate dentro bianchi appartamenti in classe A. E poi la dimessa convivenza di capannoni, meravigliose cascine, piccole cappelle votive, ossari, cartelloni della pubblicità – l’outlet del funerale, la depilazione totale – campi santi, campi di mais, campi da calcio, piccoli orti a margine della ferrovia, sotto il cavalcavia, colline coperte di viti, santuari nascosti nei boschi, aree di sosta per tipi loschi. Limiti e virtù, pregi e castighi della campagna e della città insieme, mischiati, fusi, perduti, ricombinati. Chi cresce qui – se ha un minimo di interesse per sé e per quel che ha attorno – dedica un discreto tempo della sua vita a farsi delle domande sul conto di questo territorio; “Brianza” che tutti nominano ma che nessuno sa, confini incerti, atmosfera che tutti sentono, ma quanti l’ascoltano?

La nostra relazione con lo spazio è complicata e, se è vero che siamo fatti anche dei luoghi che quotidianamente abitiamo, le domande sono anche quelle sulla nostra identità, sempre in bilico tra urbano e rurale, tra margine e centro.

Siam partiti da qui, questa è la lunga e forse non necessaria premessa per farvi capire come un festival che metta al centro la geografia, in Brianza, ha un suo senso quale naturale risposta al nostro vivere interrogandoci.

Una sera di cinque anni fa, un gruppo di persone si raduna attorno a un tavolo, a Villasanta, nel cuore della città diffusa, e conviene che nel ragionare su territori e loro dinamiche la geografia possa essere di grande aiuto. Come hanno scritto Angelo Miotto e Christian Elia nella loro prefazione all’ultimo numero di Q Code, intitolato proprio “Geografie”, in tempi senza rotte, tentare di prodursi buone mappe diventa ancora più importante. 

Nel nostro contesto invece mappe e geografia risultano sistematicamente assenti, dalla riflessione politica ai discorsi della gente. In Italia gli ambienti formativi e culturali tendono a privilegiare il tempo, la cronologia, la storia (storia dell’arte, storia della letteratura, della filosofia, della scienza…) e relegano sempre in un angolino “lo spazio”, che pure è una dimensione parimenti importante per capire le nostre mosse e il nostro rapporto col mondo. 

Nell’elaborazione di una prima idea di festival ci hanno guidato alcune pagine dei maestri, questa è una, di Giacomo Corna Pellegrini e dice così: «Ricchezza della geografia è la sua varietà, ma lo è anche la sua semplicità. Per rapportarsi allo spazio, ogni uomo, nel suo vivere, deve essere appunto anche un po’ geografo. La geografia “ufficiale” non può e non vuole più dimenticarlo. Tutto ciò complica i modelli tradizionali di ricerca geografica, ma li arricchisce straordinariamente, e soprattutto li avvicina ad un diffuso bisogno di conoscere e capire il mondo. […] Cade, senza rimpianti, la pretesa di un enciclopedismo che si è sempre rivelato indigeribile (ma che è ancora e troppo presente nella cultura e nei programmi scolastici italiani). […] Lo scopo è quello che la geografia ha avuto da sempre: scoprire il mondo; non necessariamente tutto il mondo in pochi anni, ma solo alcuni itinerari suggestivi che ne mostrino la varietà, la ricchezza, la percorribilità a determinate condizioni. Altri itinerari, in altre regioni o forse in altri pianeti, i nostri allievi troveranno da soli, se avremo saputo trasmettere loro il gusto per l’esplorazione, la scoperta, la comprensione del pianeta, nonché il rispetto per la ricchezza dei suoi ambienti geografici e la dignità di tutti i loro diversissimi abitanti».

Le persone attorno al tavolo, a Villasanta, fanno lavori diversi, hanno percorsi diversi alle spalle, ma ritengono sia utile provare a riportare la geografia nei ragionamenti e nelle piazze, reali o digitali che siano. Niente convegni quindi, ma una formula il più possibile accogliente, che sia davvero di pubblica utilità. Quella che ci si può permettere con tanto volontariato e per il momento pochi quattrini.

Nascono così, da questi presupposti, il “Festival delle Geografie” e “La Casa dei Popoli”, l’associazione che lo organizza. Delle “geografie”, al plurale, proprio perché partiamo da qui, da un territorio che non ci permette linee nette e quotidianamente ci insegna che per capire un problema è meglio osservarlo una volta dal centro e una dal margine. Verrebbe da scomodare il grande Adalberto Vallega e le sue diverse grammatiche della geografia: guardare a più scale, da lontano e da vicino, usando la parte destra e sinistra del cervello, tenendo insieme i numeri e i sogni, l’ambiente e l’uomo, sapendo che per capire questo impasto di necessità e desideri non basta mai la lettura di una sola parte.

Negli scorsi anni abbiamo parlato di esploratori (2019), di confini, frontiere e limiti (2020), siamo andati a cercare dove inizia la fine del mare (2021), creando una comunità sempre più ampia, coinvolgendo geografi ma anche altri studiosi, giornalisti, viaggiatori, artisti: tutti coloro che potevano darci una chiave in più per leggere e capire “Il Libro del Mondo”, che infatti poi è diventato il nome del Festival. 

Quest’anno leggeremo Il libro del Mondo cercando di indagare il futuro. Dopo una pandemia e una guerra che hanno cambiato e cambiano il nostro modo di vivere, nel pieno degli effetti del surriscaldamento globale, ci è parso necessario fermarci a fare il punto, capire se siamo sfortunati o se alcuni dei processi in corso sono figli delle scelte più o meno implicite fatte sin qui, intuire cosa ci attende e come sarebbe meglio affrontarlo. L’intento – va da sé – è un bell’azzardo, una provocazione, e infatti partiremo dubitativi fin dal titolo: “E se domani…” preso in prestito da un brano che ci è caro; partire con un “e se”, ci è sembrato il modo per aprire a più ipotesi, seminare dubbi. Il sottotitolo dice: “geografie per abitare il futuro”, verbo che ci fa subito cittadini, ci dà diritto di parola, ma anche dovere di impegno. Intuire cosa ci aspetta anche per capire cosa possiamo fare noi per inclinare la barca da una o dall’altra parte.

Grazie a molti contributi preziosi – tra cui anche quello di Q Code, tra i primi a sostenere il Festival – parleremo di forme dell’abitare, di modi di muoverci, costruire la città, produrre cibo, andare a scuola, convivere con la natura, tutelare il nostro benessere psicologico, orientarci nel complesso mondo delle relazioni internazionali. Tutto questo in forma di lezioni, dialoghi, laboratori, cinema, teatro e musica, per quattro giorni consecutivi, dal 15 al 18 settembre, a Villasanta (MB).

Il mio invito, a nome di tutta La Casa dei Popoli, è di venire a fare un salto al Festival quest’anno, approfittando anche per fare un’immersione nel cuore della città infinita. 

Il Libro del Mondo – Festival delle Geografie

15 – 18 settembre 2022 

Villa Camperio – Villasanta (MB)

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www.festivalgeografie.it