Negli ultimi anni, le questioni di genere hanno avuto una straordinaria accelerazione senza lasciare tempo a molte persone adulte di aggiornare la propria conoscenza in merito e di sviluppare una nuova consapevolezza sull’identità e la sua costruzione.

Altrettante persone non conoscono la differenza tra sesso biologico, identità, orientamento ed espressione di genere. E questa non è una colpa.

Le persone giovani, da questo punto di vista, sono forse facilitate: nascono in un tempo in cui i social media rendono possibile l’esposizione e la costruzione della propria identità attraverso l’incontro e lo scambio con altre identità geograficamente molto lontane da sé.

Penso a coloro che vivono in contesti culturali e sociali provinciali: vivono in un mondo i cui confini delimitano zone ridotte e più regolamentate di movimento rispetto a quello che non accade in un contesto metropolitano, maggiormente attraversato da fenomeni di meticciato e liberazione del sé sotto vari punti di vista.

Riconoscersi nell’altra persona che attraversa le tue strade, frequenta le tue scuole, compare nei manifesti pubblicitari è, di fatto, un privilegio. E non rappresentare alcune soggettività è una scelta politica e (dis)educativa chiara che dice, in parole povere: tu non esisti, ciò che senti di voler essere, i tuoi desideri identitari non sono legittimi, non sono previsti. Da qui, al generare il pensiero che in sé c’è qualcosa che non va, il passo è breve e drammaticamente inconsapevole proprio perché quel mondo interiore è inaccessibile agli occhi e la strada, che lascerebbe immaginare quel percorso come possibile, è interrotta.

Essere persone rappresentate è un privilegio e lo è, ancor di più, costruirsi una vita coerente con ciò che si è.

Torniamo ai social media: essi sono un ambiente, oltreché uno strumento, creato dalla generazione precedente a quella che li utilizza. Quest’ultima – al netto anche della pandemia da Sars Cov 19 – ha trovato in essi un ambiente abitato da una sterminata quantità di occasioni di formazione, scambio, condivisione di saperi, esperienze personali e rappresentazioni culturali dell’identità.

Così le persone giovani possono produrre ed accedere a percorsi di auto-formazione attraverso i quali moltiplicare le rappresentazioni della propria ed altrui identità. Costruiscono inoltre occasioni di riflessione attraverso le quali generare consapevolezza e pretendere il riconoscimento di diritti che sanciscono come legittima l’esistenza giuridica di tali molteplici soggettività.

Proviamo a vedere alcune delle implicazioni che questo scenario ha e può avere nell’educazione e nella pedagogia, le discipline con cui principalmente lavoro.

Educare viene dal termine latino ex ducere, tirare fuori. Mi sembra importante vedere in questo movimento del tirar fuori un movimento maieutico, quello di esplorarsi, sperimentarsi, conoscersi.

Diventare sé, non una volta per tutte, ma sempre: una sorta di scoperta permanente di sé.

Lo straordinario movimento di liberazione delle identità di genere, ed ancor più del modo di sentirsi persone libere dal riconoscersi in un qualsivoglia sistema di genere (mi riferisco qui alle persone non binary), apre grandi possibilità all’educazione ed alla pedagogia.

Sono dell’idea che sia necessario continuare ad affermare, e negli scorsi decenni sia stato fatto molto in tal senso, che educare non può in alcun modo indicare il movimento di disciplinare, indottrinare, incanalare le persone in un binario che va solo percorso, evitando deragliamenti che altro non sarebbero che occasioni di giudizio e stigmatizzazione.

E quindi va abbandonata la prospettiva secondo la quale le persone, soprattutto giovani e giovanissime, sono un vaso da riempire, una tela bianca su cui tracciare linee. Va abbandonata questa prospettiva a favore di un’altra che vede invece nell’educazione quell’insieme di strumenti utili ad esplorare sé ed il mondo con consapevolezza del proprio potere e della propria responsabilità che è, innanzitutto, rispetto verso tutte le persone e forme di vita.

Il vecchio paradigma generava di fatto una traccia piuttosto chiara di che cosa le persone avrebbero potuto e dovuto fare: dalla scelta dei giochi a quella del percorso scolastico, dal desiderio di relazioni affettive a quelle dell’istituzione di una famiglia, dalla scelta dell’abbigliamento al tempo libero, al modo di camminare… erano (sono?) tutti aspetti predeterminati dal genere di appartenenza, che oltretutto spesso coincideva con il sesso biologico.

Così abbiamo educato e siamo stati educati. Questo, è importante prenderne atto, significa che molte scelte, anche quelle fatte con buona dose di consapevolezza e gioia, non sono state affatto libere.

L’identità di genere sembra aver conquistato il rango non di dato di fatto ma di costruzione. Ed alcune persone, quelle che si definiscono non binary, chiedono di essere ritenute semplicemente persone perché non sentono di riconoscersi in una qualsivoglia definizione di genere.

Se riusciamo ad assumere questa prospettiva dentro di noi, ci si aprirà un nuovo modo di pensare l’educazione.

La nuova frontiera dell’educazione ci renderà persone più libere ed autentiche e richiederà una dose maggiore di fatica nello sperimentare, all’interno del vasto ed infinito scenario del possibile, ciò che piace e che non piace.

Immaginiamoci qualcosa.

Dovremmo poter pensare che entrando in un negozio di giocattoli, almeno finché anche l’industria ed il marketing non si assumeranno la prospettiva di cui sopra, accompagneremo bambine e bambini tanto nella corsia delle bambole quanto in quella delle macchinine che ad oggi si mantengono dicotomicamente separate.

Dovremo immaginare di non portare un fiocco rosa ed uno blu rispettivamente a chi nasce con una vulva o con un pene, ma immaginare che variare i colori è un grande movimento emancipativo.

Avete presente la bandiera del movimento lgbt+? Ecco, dovremmo moltiplicare i colori. Avremo la possibilità di dire alle nostre figlie che i mestieri per lei sono molti: dall’astronauta alla professoressa, dalla barista alla chirurga.

Una volta diventate genitori, queste persone, saranno una mamma ed un papà, o due papà, o due mamme o chissà quante altre possibilità, ma mai un mammo!!! Perché affermare mammo significa che tra le possibilità di diventare, quella di diventare padre non è sfidante da nessun punto di vista, ma sopratutto non lo è sul piano affettivo.

Dovremmo invece educare al fatto che lo è: un padre, come una madre, cambia i pannolini e, mentre li cambia, cambia se stesso/a.

Avremo la possibilità di essere padri che insegnano al figlio ed alla figlia che piangere va bene, perché rabbia e tristezza sono unisex, e che l’unico modo per conoscersi, entrare in relazione ad altre persone, assumendosi la responsabilità dei proprio sentimenti, è parlare di ciò che si sente, valorizzarlo e trovare un modo rispettoso di condividerlo.

E, senza dirlo, staremo educando ad un mondo che non prevede violenza: perché le persone – o farei meglio a dire le donne – non sono proprietà di nessuno e si sta insieme finché tutte le persone in gioco lo vogliono. E se separarsi è doloroso, lo si può dire, anche se si è uomini, perchè anche a loro è riconosciuto il diritto di legarsi, amare e soffrire.

Si, è così, la liberazione dell’identità dalle gabbie del genere offre l’opportunità di un’educazione che accoglie figlie e figli e pone nuove domande: che genitore voglio essere? e non: che figlio voglio che sia.

Anche sul corpo la pedagogia può, con questa opportunità di liberazione dal genere, creare percorsi di liberazione da una rigidità che miete sempre più dolore e discriminazione. Il corpo è sempre più un santuario da mostrare al mondo: bianco, magro, abile e giovane.

Gli organi genitali e le forme sono essenzialisticamente distribuite tra maschi e femmine secondo quei criteri di cui sopra.

Essere persone libere da una definizione binaria di genere o dall’idea stessa di genere, permette ai corpi di assumersi il loro potere di sperimentarsi e sperimentare: quanto spazio prendere, con quali forme e colori, accessori ed abbigliamento, età ed abilità.

Questo è il corpo di cui avremo bisogno per fare tutte quelle esperienze necessarie ad un’identità che i binari vuole percorrerli tutti o, almeno, tutti quelli che vuole.

Credo sia necessario che gli adulti continuino a prendersi una profonda responsabilità educativa nei confronti delle persone giovani che sembrano indubbiamente pronte ad accogliere e praticare questa rivoluzione dell’identità e che, a maggior ragione, hanno bisogno del riconoscimento che come adulti non possiamo smettere di offrir loro.

L’educazione affettiva e sentimentale continua ad essere l’asse portante della relazione con le persone giovani e dobbiamo continuare a praticarla facendo domande giuste che esprimano fiducia e curiosità autentiche verso i vissuti e pensieri dei/delle giovani: che cosa significa gender fluid? come senti questa identità dentro di te? ti spaventa? sei felice? che cosa posso fare per te? Io sono quì, e ci resto.