Iran. La lotta per l’autodeterminazione di un popolo

Il simbolo di Mahsa Amini è più vicino alle iraniane e agli iraniani di quanto non lo siano le icone della rivoluzione islamica. La violenza delle autorità aumenta, ma i e le manifestanti non demordono, supportati anche da chi vive all’estero, per scelta o per necessità.

Donne con o senza velo in prima linea per manifestare, grida anti-sistema in scuole e università, scioperi dei lavoratori, dai petrolchimici agli avvocati, morti tra le forze di polizia, fuoco acceso contro i volti della rivoluzione del 1979. Oggi, le proteste delle iraniane e degli iraniani hanno tutti i simboli e gli elementi di una valvola di non ritorno verso il sistema della repubblica islamica.

Chi protesta va ben oltre l’istanza del velo opzionale esprimendo l’urgenza di un’alternativa più ampia. Mahsa Amini ha presto preso anche il nome di altre vittime del regime, Nika Shakarami, Hadis Najafi, Sarina Esmaeilzadeh e tutte le altre donne, ma anche uomini, che hanno deciso di esprimersi con rabbia, frustrazione e coraggio contro un sistema politico in cui la società civile non si riconosce e di cui condanna la crudeltà. 

“La voce degli iraniani non può essere tagliata fuori stavolta” dice B.*, una ragazza iraniana di 23 anni: era appena ventenne quando è venuta in Italia per studiare all’università. “Parlo con i miei cari in Iran e con gli amici iraniani qui. Sono emozionata, sono positiva, questa volta succederà qualcosa, forse qualcosa di buono che aspettavamo da tanto tempo”. 

Qualche anno fa B. non avrebbe rischiato di esporsi con gesti di attivismo per timore di essere ricercata dalle autorità tornando in Iran a visitare la sua famiglia. Oggi ha invece deciso di agire e si è fatta portavoce degli studenti iraniani della sua facoltà tenendo delle conferenze sulla storia della lotta per i diritti delle donne nel suo Paese. 

“Tutti stanno uscendo per strada. I giovani, gli anziani, i liberali e i conservatori. La classe media e le classi più povere insieme. All’inizio, vedendo le immagini condivise sui social da amici e parenti che si univano alle proteste, avevo paura. È pericoloso, è già successo che la polizia uccidesse i manifestanti per strada. Poi ho pensato no, noi dobbiamo uscire, dobbiamo far vedere che non condividiamo niente con questo regime, che ci viene imposto a caro prezzo. Vedo tantissimo coraggio nella mia gente in questi giorni ed è un segnale di grande speranza, anche da lontano è nostro dovere partecipare”.

Sentendosi vicina alla storia di Mahsa Amini, pensando che sarebbe potuto accadere anche a lei, come a ai suoi cari, B. aggiunge: “Poteva essere letteralmente ognuna di noi. Quando avevo 16 anni volevano arrestarmi per lo stesso motivo, sono riuscita a scappare. È una cosa comune a tantissime persone, femmine e maschi. Siamo scappati tante volte. Succede anche che le autorità riescono a vedere che non porti il velo dalle telecamere stradali, allora ti mandano un messaggio direttamente sul cellulare e ti fanno pagare una multa. Quando esci di casa devi prevenire quello che potrebbe succedere. Il potere è arbitrario in questo senso, potresti trovare un agente di polizia che ti ammonisce se hai i capelli un po’ visibili, uno che ti arresta e uno che ti condanna a 74 frustate. Adesso devono essere loro a scappare ed avere paura”.

Le proteste potrebbero non portare un numero esorbitante di manifestanti nelle strade, ma sono persistenti nonostante la brutalità delle forze di polizia che arrestano, picchiano e sparano sui manifestanti. Le mobilitazioni sono inoltre diffuse in tantissime città, anche quelle più piccole o particolarmente conservatrici, suggerendo un’immagine di unità non solo tra i generi, ma anche sociale, etnica e generazionale. 

Generi e generazioni tra sfera pubblica e privata

“Come madri abbiamo cresciuto una generazione alla libertà nonostante le difficoltà. Stanno uccidendo e arrestando le nostre figlie e i nostri figli, non possiamo permetterlo. Le donne sono sotto la massima pressione del regime, per questo gridano più forte”, dice G*., una donna di 50 anni che ha lasciato l’Iran quasi 10 anni fa, quando un libro che ha pubblicato è stato bandito dalle autorità. 

G. ha un passato da attivista nel suo paese, lavorando nel campo della produzione artistica e partecipando alle proteste del 2009 che presero il nome di “movimento verde”. In quella occasione le piazze di Teheran erano popolate dagli studenti e dalla classe media, gridavano “dov’è il mio voto?” opponendosi alla rielezione del presidente conservatore Mahmud Ahmadinejad e appoggiando il candidato riformista Hossein Musavi, da allora agli arresti domiciliari.

G. non ha più fiducia nei riformisti, ma nelle scorse settimane si è unita alle manifestazioni in sostegno del popolo iraniano in Turchia, il paese in cui vive adesso e dove ha deciso di crescere sua figlia oggi adolescente. “Amo il mio paese, ma non era più sicuro per me e al momento non posso tornarci. Ho portato mia figlia con me perché non volevo che crescesse senza diritti, avrei dovuto imporle le regole che vogliono loro, senza rispettarle io stessa”, racconta. 

La divisione tra sfera pubblica e sfera privata in Iran, ovvero, come il regime impone di vivere e come di fatto si sceglie di vivere nell’intimo della propria casa, è un elemento cruciale. E se è vero che in pubblico il velo è obbligatorio per le donne e i pantaloncini sono vietati per gli uomini, in privato si cerca spesso un altro stile di vita, con opinioni differenti che rompono le regole imposte. Non è raro che i genitori smentiscano quello che viene insegnato a scuola ai loro figli sulla cultura e sulla storia dell’Iran. G. racconta che le donne della generazione di sua madre, le donne dell’epoca della rivoluzione islamica, si incontrano in riservatezza scambiandosi idee che non per forza combaciano con quello che dice o vuole il governo. Le nipoti di quelle donne, le ragazze della generazione Z di cui vediamo i video mentre protestano nelle classi delle superiori o delle medie, hanno visto le foto delle loro nonne mentre indossano una minigonna e passeggiano al parco con i loro amici uomini: erano gli anni ‘60 e ‘70. Queste ragazze si informano su internet, non sui media statali, e non accettano più di doversi nascondere da un regime che le uccide per strada. Questo ed altro ha giocato un ruolo nel definire la coscienza delle proteste di oggi, nel costruire la capacità di autodeterminazione che è diventata azione collettiva e trainante.

Nel corso degli anni, molte iraniane hanno sfidato anche apertamente le autorità su ciò che considerano un abbigliamento accettabile, adattando il loro stile ai limiti imposti. Il velo è obbligatorio per legge, ma c’è differenza tra chi porta un chador, velo nero lungo fino ai piedi, e chi invece ha un foulard colorato che lascia intravedere i capelli.

Il 12 luglio, data in cui si celebra la “giornata dell’hijab e della castità” in Iran, alcuni video diventati popolari sui social mostrano delle giovani studentesse in una piazza di Shiraz che camminano tranquille con il capo scoperto. Vicino a loro, alcuni compagni maschi indossano il chador delle ragazze mentre sfrecciano con lo skateboard. Nello stesso periodo, un altro video mostrava una donna spinta per strada dallo stesso camioncino bianco e verde della polizia della morale che l’aveva arrestata perché passeggiava senza l’hijab.

“I ragazzini dovrebbero giocare, studiare, esplorare, non dovrebbero essere impegnati a lottare contro una dittatura, invece stanno facendo quello che noi non siamo riusciti a fare”, continua G. “Durante il movimento verde pensavamo di non doverci scontrare con la polizia, eravamo presenti nelle strade e il nostro mezzo era il silenzio. Questa generazione si basa su qualcos’altro, qualcosa di diverso. Hanno raggiunto un punto massimo, un apice per cui si sono detti o perderò tutto, o non ho niente da perdere. Vogliono la fine della repubblica islamica e non gli importa quello che verrà dopo. Adesso non siamo più in silenzio, la nuova generazione non è più in silenzio, ma per questo è molto esposta al pericolo. Ogni mattina ci svegliamo con un nuovo nome, una ragazza, un talento, una bellezza, presi da questo regime, è doloroso. Ma credo che questo movimento non finirà. Un giorno è più veloce, un giorno più lento, ma costante, e questo è solo l’inizio”.

Pur vivendo entrambe fuori dall’Iran, appartenendo a generazioni diverse, vivendo in paesi diversi senza mai essersi conosciute, le parole di G. somigliano molto a quelle di B. quando dice: “La gente non sa chi vuole, sa che cosa vuole. Non vogliamo leader, non è questo il momento. Vogliamo che se ne vadano, senza accordi, senza compromessi. Non so cosa succederà, ma so che la repubblica islamica non esisterà più in futuro”.

Condivisione, espressione e identità

Chi decide di vivere fuori dal paese lo fa per lavorare, per studiare, perché non ha più potuto convivere con i limiti imposti, o per sfuggire dalla persecuzione. Per molti nella diaspora iraniana la storia di Mahsa riporta memorie indelebili e spinge al sostegno di chi è in piazza, in strada, a scuola o sui social media in Iran. 

“Dobbiamo pubblicare qualcosa sui social, mantenere gli hashtag virali, parlare con gli altri, diffondere le informazioni. È molto difficile non poter essere lì in questo momento, ma in qualche modo anche io devo fare qualcosa”, dice V.*, una attivista iraniana costretta a vivere all’estero, particolarmente legata alla lotta per la libertà d’espressione, che fa del suo account Instagram uno strumento di interazione e diffusione. Quando era in Iran, V. si identificava sia come donna che come uomo. Questo le ha impedito di realizzare il sogno di proseguire la sua carriera da atleta professionista venendo esclusa da tutte competizioni agonistiche di kung fu. 

“Ho lottato contro tutti perché il mio genere sessuale non era chiaro. Vengo da una città molto conservatrice e mi attaccavano per strada. In Iran le donne non possono danzare o cantare in pubblico. Non è permesso andare in bicicletta o viaggiare senza il consenso di un parente maschio o del marito, non possono assistere alle partite di calcio. Allora ho deciso di ballare, diffondo dei video in cui danzo liberamente cercando di spronare i miei connazionali a fare lo stesso, ad esprimersi con mente e corpo”.

Espressione e censura sono due parole chiave del contesto iraniano e hanno un ruolo importante in queste manifestazioni. Le proteste passano attraverso la musica, come Baraye, la canzone che è diventata un inno con 40 milioni di visualizzazioni in due giorni. Il testo raccoglie le parole degli iraniani su Twitter che spiegano perché stanno protestando per la libertà. Shervin Hajipour, l’autore, è stato puntualmente arrestato e da poco rilasciato su cauzione. La repressione va oltre l’espressione artistica, i social media, e colpisce anche la cultura, la scienza e la stampa. 

Sono immagini indelebili quelle dell’attacco delle forze di polizia all’università di Sharif, dove gli studenti, le menti più brillanti del paese, erano unite in protesta. E ancora il fuoco che divampa dalla prigione di Evin, a Teheran, dove molti di quegli studenti che prima protestavano sono stati reclusi. L’università di Sharif è il simbolo del progresso, dell’eccellenza e del futuro, Evin è il simbolo dei prigionieri politici vittime del regime. È lì che è stata a lungo Narsin Sotoudeh, avvocatessa per i diritti umani, e dove ora si trovano Jafar Panahi, regista che con i suoi film ha mostrato la realtà in cui vivono gli iraniani e per questo recluso, Ali Younesi e Amirhossein Moradi, due studenti vincitori delle olimpiadi nazionali e internazionali di astronomia e astrofisica, detenuti con l’accusa di “corruzione sulla terra”, e ancora Niloufar Hamedi, giornalista incarcerata dopo aver diffuso la notizia della morte di Mahsa Amini.

“Sono dei criminali. Dicono che tutto quello che fanno è per proteggerci dall’inferno, ma l’inferno sono loro. Quando gli studenti vengono arrestati le autorità negano alle famiglie di sapere dove si trovano i loro figli. La gente non è solo arrabbiata, soffre”, racconta V.

Mentre il governo cerca di bloccare la connessione internet all’interno del paese, le immagini raggiungono comunque il resto del mondo. Gli iraniani all’estero ricevono video e foto dai loro connazionali in Iran e li diffondono sui social e sui media internazionali. La censura sul web e il taglio della connessione nei momenti di protesta sono una prassi consolidata del governo iraniano, ma c’è sempre un modo di eludere le restrizioni. Instagram e WhatsApp hanno più volte smesso di funzionare e chi è all’estero ha difficoltà a contattare i propri cari in Iran. Soprattutto i gruppi Telegram sono usati per diffondere informazioni, ma anche misure di sicurezza per chi protesta in strada e online. Ci sono messaggi che illustrano come proteggersi dagli attacchi delle forze antisommossa e dal controllo della polizia cibernetica, come installare le vpn che proteggono l’identità degli attivisti che diffondo i video delle proteste.

Da una parte, il blocco delle comunicazioni serve proprio per evitare che i manifestanti si organizzino, e che le proteste si diffondano nel paese. Dall’altra, impedisce di tenere traccia delle violenze della polizia sui manifestanti. In tutta risposta, dentro e fuori dal paese, tanto gli attivisti quanto le persone comuni, travel blogger, influencer di prodotti di bellezza, persino profili di piccole aziende di gioielli artigianali, dedicano il loro spazio su Instagram a quello che sta accadendo in Iran. Per alcuni è la prima volta.

Vivere all’estero non significa essere al riparo dai rischi. Esporsi può mettere a repentaglio la sicurezza di tornare nel paese per vedere la famiglia, pubblicare qualcosa sui social può non essere sicuro dal momento in cui è necessario recarsi all’ambasciata per ritirare il passaporto. Ci sono dissidenti che se facessero ritorno verrebbe arrestati appena messo piede in aeroporto, coloro che hanno la doppia cittadinanza sono spesso additati come spie, alcuni uomini subirebbero dure ripercussioni perché non hanno lasciato il paese senza aver fatto il servizio militare obbligatorio.

L’attenzione sull’Iran è oggi sui media e nelle piazze internazionali. Ci sono state centinaia di manifestazioni di sostegno, a Londra, a Berlino, a New York, a Roma, a Parigi, a Istanbul. Gli iraniani e le iraniane stanno mostrando con decisione l’identità della popolazione, che né in Iran, né fuori può più essere oscurata da quella che il regime teocratico ha imposto per 43 anni. Un sistema repressivo che cerca di silenziare tutti viene  sfidato a gran voce a partire dal grido “zan, zandegi, azadi”, “donna, vita, libertà”.

*Il nome reale delle donne intervistate non può essere condiviso per motivi di sicurezza.