“Gli uomini non piangono!”. Il grido arrivò dalla tribuna. Insieme ai miei compagni di squadra, avevo appena perso la partita decisiva per la vittoria del campionato. La delusione era tanta e, seduto nel cerchio di centrocampo, scoppiai a piangere. Il rimprovero del dirigente della mia squadra mi colpì come uno schiaffo. Arrabbiato con me stesso, mi vergognai del mio momento di fragilità e asciugai in fretta le lacrime, come per cancellare le tracce della mia tristezza.

La costruzione della mascolinità

Gli stereotipi che vedono l’uomo come essere forte, dominante, capace di controllarsi e la donna come fragile ed emotiva resistono ancora oggi. Non si tratta di caratteristiche predeterminate dalla nascita, ma sono il risultato di una costruzione socio-culturale.

“Il cervello è plastico e cambia a seconda delle esperienze”, afferma la neuroscienziata Lisa Eliot nel documentario The mask you live in, un’indagine sulle aspettative sociali e gli stereotipi di genere che riguardano l’essere uomini. All’interno di un processo di proliferazione e potatura si creano innumerevoli connessioni cerebrali: quelle maggiormente utilizzate si rafforzano, quelle chiamate in causa di meno muoiono. “Le cose su cui un bambino passa più tempo diventeranno i suoi punti di forza, che siano empatia, aggressività, abilità spaziali o verbali”, così Eliot.

Già prima di venire al mondo bambini e bambine sono sottoposti*e a condizionamenti di genere: i genitori decorano la stanza in modi differenti e acquistano vestiti diversi sulla base del sesso del*la nascituro*a, appendono sulla porta un fiocco azzurro o rosa per annunciarne la nascita, acquistano loro giocattoli diversi.  Secondo Lorenzo Gasparrini, filosofo e autore di “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni”, “i neonati dal fiocco colorato troveranno quella simbologia dei colori e la percepiranno, insieme a molte altre cose, come un dato ovvio e naturale”.

La famiglia costituisce il primo luogo in cui bambini e bambine sperimentano i rapporti di potere tra i sessi. Secondo Gasparrini, “all’interno di un modello patriarcale il ruolo del padre risulta sempre un po’ tutelato e avvantaggiato.” La figura paterna è investita solitamente dell’autorità ed è lui a porre le limitazioni della libertà di figli e figlie.

L’uomo, in questi casi, è colui che “è meglio non fare arrabbiare”, al quale nascondere le cose. Il padre parla poco, ma l’ultima parola è la sua.

Alla madre, che in molti casi lavora, spettano i compiti di cura. È innegabile che dal dopoguerra a oggi dal punto di vista legislativo siano state molte le conquiste delle donne in termini di emancipazione e parità dei diritti, ma è altrettanto evidente che il senso comune della società fatichi ad adeguarsi a questi cambiamenti e il ruolo casalingo della madre viene celebrato un po’ ovunque. Le ricerche di Irene Biemmi sui libri per l’infanzia, per esempio, evidenziano che a bambini e bambine viene narrato un mondo familiare che oggi quasi non esiste più. In queste rappresentazioni, il lavoro della madre risulta semplicemente accessorio alla completa gestione domestica e, quindi, non del tutto necessario.

La “gerarchia dei sessi” si esprime poi anche attraverso la scelta delle attività sportive dei bambini e delle bambine.

I giochi in cui è presente il contatto fisico, per esempio, sono ad appannaggio dei maschi, mentre la scelta dello sport per le femmine è spesso dettata dalla preoccupazione per uno sviluppo “femminile” del corpo. “Ciò che bambini e bambine desiderano passa in secondo piano rispetto alle richieste di un’immagine sociale del loro sesso”, sostiene Gasparrini. Nel corso della loro crescita, quindi, i*le bambini*e caratterizzano eventi, oggetti e percezioni come qualcosa di consono o non consono a loro.

L’adolescenza tra competizione, controllo e scoperta della sessualità

Alessia Tuselli è una sociologa e assegnista di ricerca presso il Centro di studi interdisciplinare dell’Università di Trento, un centro di ricerca che attraverso una lettura interdisciplinare della prospettiva di genere cerca di dare una lettura dei fenomeni sociali. Tuselli, che dal 2014 si occupa di attività e laboratori all’interno delle scuole, osserva che “gli adolescenti sono spaesati a causa dei modelli di mascolinità egemonica a cui sono sottoposti quotidianamente”.

Entrati nell’età adolescenziale, caratterizzata da un tumulto emotivo di una certa portata, i giovani non hanno uno spazio in cui dare voce alle loro insicurezze e fragilità. “I ragazzi non tematizzano emotivamente quello che vivono, tra loro non parlano delle insicurezze che provano”, afferma Tuselli.

Il gruppo di pari stabilisce una serie di regole non scritte per cui ci sono argomenti di cui si può parlare e altri che è meglio evitare. Si tratta di una sorta di “polizia del genere” declinata al maschile, in cui ragazzi hanno il ruolo di controllori della maschilità e della virilità altrui. “Queste pratiche esistono ancora e rappresentano un costante banco di prova per essere considerati maschi “giusti”, che rispondono alla competizione ed esercitano potere e dominio”, ammette la ricercatrice.

Tutto questo si riflette anche nella dimensione relazionale. L’Italia – insieme a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania – è uno dei Paesi europei a non prevedere l’educazione sessuale tra le materie di insegnamento obbligatorie. 

I ragazzi si formano perlopiù attraverso la pornografia commerciale, che rappresenta la sessualità come qualcosa di estremamente semplice e il corpo femminile come un mero oggetto di cui il maschio eterosessuale può disporre a suo piacimento. Il desiderio femminile diviene invisibile e si assiste a una iper-produzione di quello maschile, caratterizzato da virilità e potenza. “I ragazzi interiorizzano un modello di possesso e controllo, un’idea distorta della sessualità e del rapporto con le donne”, chiarisce Tuselli.

In uno spazio così costruito, l’aspettativa sociale può essere schiacciante. Un adolescente maschio non pensa di poter esprimere le proprie ansie rispetto al sesso, per il timore di essere tacciato per gay.

Nei contesti in cui la costruzione della maschilità è più rigida, la presunta omosessualità è ancora oggi l’attacco più pericoloso verso l’“essere maschio”. Nel corso della sua esperienza di formatrice, Tuselli ha incontrato realtà ai poli opposti, “alcune in cui questo è un “non-argomento”, altre in cui è necessario spiegare che l’omosessualità non è una malattia.”

All’interno delle classi con cui lavora, la ricercatrice osserva che, durante i laboratori, emergono le individualità e il vissuto di ciascuno esprime un valore soggettivo che permette di decostruire il meccanismo dell’aspettativa sociale sulle dimensioni di genere. “A volte succedono cose bellissime: i maschi, anche i cosiddetti “alfa”, iniziano a riflettere e smontano una serie di convinzioni e pregiudizi radicati.” In quel caso la “polizia di genere” non funziona più.

“Ci sarebbe bisogno di più spazi di incontro per gli uomini”, conclude Tuselli, “spazi sicuri” in cui poter ragionare tra loro e, partendo dalla propria esperienza, confrontarsi liberamente spogliandosi della pressione delle aspettative sociali di genere.”

Uomini in movimento

Spinto dalla voglia di mettersi in gioco e di liberarsi dalla competizione che di solito caratterizza le relazioni maschili, Claudio Pezzetta è andato in cerca di uno “spazio sicuro” in cui potersi ritrovare e, insieme ad altri uomini, affrancarsi dalla semplificazione di un modello unico di maschilità.

Stanco di sopportare il peso della cultura del patriarcato, il 64enne bolzanino è arrivato a questa presa di coscienza poco alla volta.  Insegnante di biodanza – disciplina che prevede attività e sequenze di esercizi volti a stimolare l’espressione creativa ed emozionale attraverso il corpo -, ha fondato il gruppo “Uomini in Movimento”, uno spazio di incontro, ricerca e azione sull’identità maschile.

Sono circa dodici gli uomini che, attraverso l’espressione corporea – ma anche la pittura, la scrittura, il dialogo -, cercano di entrare in connessione tra loro e di esprimere liberamente il proprio stato d’animo. Il corpo degli uomini, solitamente “muto”, è al centro di questo percorso individuale e di gruppo.

“Non sono alla ricerca di un nuovo modello maschile, solo della possibilità di essere me stesso: voglio potermi commuovere, piangere ed esprimere le mie emozioni senza essere giudicato”, spiega Pezzetta. Un percorso personale e collettivo difficile da affrontare, se si è cresciuti oppressi da sé stessi e da tutte le idee assimilate nel tempo per essere riconosciuto come un “vero” uomo.

Per Pezzetta si tratta di una sfida continua, perché le ombre della mascolinità egemonica sono sempre in agguato. L’insegnante di biodanza ammette che, a volte, reagiva con sufficienza al racconto delle esperienze degli altri.

“Ho riflettuto a lungo su queste mie reazioni”, confessa, “e ho capito che tentavo di erigere delle difese per difendermi dalla vergogna che i miei compagni descrivevano, perché al loro posto avrei provato le stesse emozioni”. Questa presa di coscienza gli ha permesso di concentrare la propria attenzione esclusivamente sull’ascolto dell’altro, senza cadere nella trappola del confronto e della competitività.

Sono diversi i temi affrontati da Pezzetta e dal suo gruppo: dalla figura del padre al rapporto con le donne, passando per lo spettro dell’omosessualità. Il contatto fisico tra uomini, infatti, è accompagnato da una costante omofobia strisciante.

Oggi gli “Uomini in Movimento” non hanno problemi ad abbracciarsi, ma la prima volta che ha svolto un esercizio di accarezzamento con un uomo, Pezzetta ricorda “di aver provato puro terrore”.

Vivere il maschile cercando di liberarsi dalle costruzioni socio-culturali interiorizzate e codificate permette, inoltre, di costruire relazioni sincere, improntate sul rispetto e sul consenso. “È una crescita comune e continua in cui ci vogliono umiltà, sincerità, fiducia e coraggio”, sottolinea Pezzetta, convinto che per uscire una volta per tutte dai condizionamenti della cultura patriarcale sia necessario anche stringere alleanze con le donne e i movimenti femministi, facendo reciprocamente attenzione a “parlare con” e non a “parlare per”.

Un nuovo orizzonte

Gli uomini – e i men’s studies dal punto di vista accademico – possono imparare molto dall’esperienza dei movimenti femministi. Uno dei primi passi da fare è mettere in discussione la posizione di privilegio che gli uomini, in primis quelli eterosessuali, detengono. Alcuni uomini oggi sono confusi, perché chiamati ad analizzare criticamente comportamenti, pensieri e azioni a cui hanno guardato finora per essere dei maschi “giusti”.

Quando si chiama in causa il privilegio maschile solitamente la reazione degli uomini è di arroccamento e di attacco.

Una reazione diversa, che cela un sessismo “benevolo”, è il distanziamento: “io non sono così”, si sente spesso commentare di fronte all’ennesimo episodio di violenza esercitata dagli uomini sulle donne. Laurie Penny, giornalista e scrittrice britannica, affronta in maniera egregia questo tema nell’articolo “Of course all men don’t hate women, but all men must know they benefit from sexism”, in cui scrive che “non tutti gli uomini arrivano a odiare le donne, ma tutti gli uomini crescono in una cultura sessista e tendono a dire o agire in modo sessista, spesso senza averne l’intenzione.” Penny non accusa gli uomini, ma lancia loro una sfida: non fare confusione – consapevolmente o meno – tra colpa e responsabilità. La colpa di una violenza o un femminicidio ricade esclusivamente sulla persona o sul gruppo di individui che compie l’azione. La responsabilità, invece, è di genere perché, come afferma Gasparrini “se sono in massima parte uomini eterosessuali a uccidere le loro compagne in quanto donne, allora questi devono interrogarsi se nella loro educazione di genere, forse, c’è qualcosa che non va”.

Il tema della violenza sulle donne è più che mai attuale nel nostro Paese. Secondo un’indagine Istat, nel 2019 sono state 111 le donne vittime di omicidio in Italia.

Nell’88,3 percento dei casi l’omicidio è stato compiuto da una persona conosciuta: il 49,5% di questi dal partner attuale, l’11,7% dal partner precedente, il 22,5% da un familiare e il 4,5% da un’altra persona che conosceva. Di fronte a questi dati agghiaccianti, si nota tuttavia una reazione all’interno della nostra società. Se da un lato prosegue l’azione di movimenti e collettivi femministi in tutto il territorio nazionale, si inizia a vedere anche un posizionamento maschile rispetto a questo tema e alle questioni di genere. “Maschile plurale” e “Mica Macho” (v. infobox a pag. 15), per esempio, sono solo alcune delle realtà nate negli ultimi anni. Alessia Tuselli del Centri studi interdisciplinari di genere dell’Università di Trento guarda con ottimismo al futuro.

“Quando il lavoro educativo con i*le giovani è fatto bene, è possibile costruire spazi di libertà per il futuro e avere una società diversa realmente fondata sulle questioni di parità, sul rispetto e sul consenso.”

Secondo Tuselli, quindi, le generazioni di oggi, potranno educare quelle successive partendo da presupposti sociali e culturali diversi. Qualche volta torno con la mente a quel campo di provincia e al ragazzo a terra con il viso tra le mani, in lacrime per la delusione sportiva. Non gioco più a calcio da tempo e oggi, dopo più di vent’anni, ho più o meno la stessa età del dirigente che allora mi gridò di fare l’uomo e di non piangere.  Mi vedo nei suoi panni e immagino di scendere dalla tribuna al campo per aiutare quel ragazzo ad alzarsi. Lo abbraccio in silenzio, ascolto le sue emozioni. Accolgo il suo pianto e non giudico le sue lacrime, perché sì, anche gli uomini piangono.