Adèle Humbert è giornalista e avvocata, ma soprattutto fonde le due anime dentro la ricerca di utilità nel raggiungimento di qualche forma di giustizia. E lo fa attraverso i podcast. Uno stile di inchiesta che racconta quello che cerca e quello che scopre, che si interroga nell’inchiesta sociale, che va a cercare documenti e nuove testimonianze o prove su casi che paiono ormai risolti.

Come coordinatore della Giuria dei Dig Awards, sezione audio di inchiesta (qui trovate il bando per sottoporre i vostri podcast e video), ho avuto l’occasione di conoscerla nella passata edizione, che Adèle Humbert ha vinto con un podcast di inchiesta titolato: En eaux troubles, cioè ‘in acque agitate, scure’.

Il 15 gennaio 2004 il peschereccio bretone "Bugaled Breizh" è improvvisamente affondato nel Canale della Manica, a una trentina di chilometri dalla costa inglese. Il capitano ha avuto il tempo di inviare un breve messaggio di soccorso in cui ha detto che si stava "ribaltando", prima di dare l'ultima posizione della sua nave. Dei cinque marinai a bordo, nessuno è sopravvissuto. Sono stati trovati solo tre corpi. Per i tribunali è stato un banale incidente di pesca. Ma i familiari e gli amici delle vittime non credono a questa ipotesi: per loro qualcuno deve essere stato responsabile...
Quasi vent'anni dopo il naufragio, le giornaliste Adèle Humbert ed Emilie Denètre hanno indagato su questo misterioso caso per capire cosa sia realmente accaduto il 15 gennaio 2004.

La vita di Adèle Hubert, che lavora con la socia Emilie Denètre, subisce una svolta con il suo viaggio negli Stati Uniti, dove contemperava il lavoro di reporter investigativo e di di analista di giustizia penale. Ci siamo seduti a un tavolino di un bar di Modena, e questo e quello che mi ha raccontato.

Adèle Humbert, partiamo dai tuoi studi, perché hanno una parte importante della tua avventura con Insider Podcast.

Ho studiato legge, sono un’avvocata di formazione, ma sapevo fin dall’inizio che volevo fare la giornalista e ho iniziato a lavorare negli Stati Uniti come reporter investigativa e analista di giustizia penale. Durante il mio lavoro in un centro investigativo mi sono imbattuta sul caso di una donna che era stata condannata a 25 anni di carcere per l’omicidio del suo bambino, gli esperti forensi avevano stimato che si trattasse di un caso di sindrome del bambino scosso e che il bambino era morto dopo essere stato scosso dalla madre. A quel tempo lavoravo con un collega e abbiamo iniziato a ripercorrere tutte le carte del fascicolo legale del caso. Negli Stati Uniti si riesce ad avere accesso a molte più informazioni rispetto al sistema giudiziario francese e già da una prima lettura dei documenti mi colpiva che la donna continuasse a proclamarsi innocente.
È così che è maturata l’idea di realizzare un podcast, con tutte le risultanze e le parole delle fonti che siamo andati a sentire.

Abbiamo anche incontrato la donna. Una volta raccolte le informazioni sono riuscita a convincere il mio capo che sarebbe stato utile realizzare il podcast perché c’era materiale per scavare. Lui mi disse: fai pure, ma dovrai farlo da sola. Allora ho cominciato a registrare e a raccontare a puntate questa storia così forte dal punto di vista umano. L’idea era quella di raccontare tutti i nuovi elementi che scoprivamo: durante la nostra indagine avevamo trovato prove scientifiche che dimostravano che il bambino era nato già morto, quindi non per intervento materno. Il podcast è andato in una trasmissione e ha avuto subito successo, grande visibilità e ha vinto premi. Ma soprattutto, alla luce dei nuovi elementi, una corte ha deciso di rilasciare la donna.

Come è stato l’incontro con lei?

L’avevamo conosciuta in prigione. Ero già tornata in Francia quando è stata rilasciata ma lei mi aveva scritto una mail per ringraziarci del lavoro che avevamo fatto su questo caso. Quando l’hanno liberata mi sono commossa, e ancora adesso che ne parlo mi emoziono, perché quel podcast è riuscito ad avere un impatto concreto sulla vita.

Una volta scaduto il mio contratto a Chicago torno in Francia e vengo assunta a Radio France nel reparto investigativo. Inizio a lavorare sui Paradise Papers, quindi con l’intero consorzio internazionale di giornalisti investigativi: eravamo 350 giornalisti che indagavano sulla stessa base. È stata anche un’esperienza collaborativa e di indagine molto molto forte con anche lì una storia da raccontare che potenzialmente potrebbe avere un impatto reale sulle persone e sulla vita delle persone. Ed è lì che incontro Émilie e iniziamo a lavorare insieme su un caso: lei veniva dalla radio ma non aveva mai fatto un podcast.

Ci siamo conosciute a un festival radiofonico e lei mi ha contattato: mi dice “Adèle c’è una circolare del governo francese che dice che ci sono 500 minori che sono in Siria, 500 minori francesi che sono nati lì o che sono stati portati via dai loro genitori che si sono radicalizzati”.Troviamo questa circolare del governo, di cui nessuno parla. Ci diciamo “Ok, dobbiamo fare qualcosa” e infatti è stato davvero il primo progetto che siamo riuscite a mettere in piedi insieme. È stato un vero test, la prima volta che abbiamo lavorato insieme e con l’appoggio della comunità che accetta che li seguiamo per diversi mesi e che stavano cercando di riportare i loro figli i loro nipoti dalla Siria in Francia. Io applico quello che ho imparato negli Stati Uniti sullo storytelling e riusciamo serializzare questa inchiesta in tre puntate. Il podcast riceve anche dei premi giornalistici: l’avevamo chiamato “I fantasmi”.

Bene, c’era già qualcosa che si era dimostrato valido. Il modello funziona in Francia, devo creare la mia struttura ed è così che abbiamo creato insieme Insider podcast con Émilie con davvero questo desiderio di creare il primo studio di indagine narrativa podcast in Francia. È così che siamo partite.

Adèle Humbert, secondo te esiste una scuola francese per il podcast?

Forse sì, pensandoci bene le mie esperienze mi dicono che ci sono delle differenze e forse anche per quello, però, ho voluto affrontare un’esperienza negli Usa per poter apprendere codici giornalistici e codici narrativi diversi, lavorando lì, dopo aver studiato in Francia.

Ci sono delle differenze sostanziali. In Francia spesso ci viene detto e ci viene insegnato di partire da un’idea, un concetto. E poi si cerca di costruire a partire da lì, con fonti che illustreranno o incarneranno questo concetto. Negli Stati Uniti è il contrario: registratore acceso e racconto in progress. Tu mi stavi dicendo prima che ci sono molti podcast italiani che rasentano l’egocentrismo. Anche in Francia spesso il podcast diventa un po’ uno spazio di presunta soggettività, che non era affatto qualcosa che abbiamo imparato studiando giornalismo negli altri media tradizionali.

Negli Stati Uniti c’è questo senso della messa in scena che è molto pronunciato e che a volte può, secondo me, essere un po’ un po’ eccessivo, C’è anche il rischio di danneggiare la storia quando la sceneggiatura se i codici della finzione sono troppo spinti. Quindi, nello stesso momento in cui stavamo creando qualcosa di nuovo in termini di narrazione e modalità di indagine, stavamo anche creando qualcosa di nuovo scoprendo come creare un’impresa in Francia con tutti i ritardi e le seccature amministrative, ma siamo stati fortunati ad aver un buon team e a essere stati anche ben consigliati. Avevamo un ottimo avvocato che ci ha aiutato a creare la struttura e be’, non so se è il mio lato legale, ma sono un po’ paranoica. Leggo tutte le note dei contratti e voglio sempre che le cose siano davvero molto quadrate in modo da non correre mai il rischio di trovarmi in una brutta situazione.

Hai, avete, costruito la vostra società: un caso di successo e di imprenditorialità non semplice per gli esempi che conosciamo, dove spesso chi è bravo a realizzare podcast non è detto che sappia anche costruire la sua società.

Ci sono degli errori che non rifarei, se dovessi ricreare una nuova società oggi, ma è così che ce l’abbiamo ed è anche per questo che era importante essere in due: per dividerci i compiti e i momenti di lavoro. Abbiamo scelto di lavorare sempre con un musicista che compone la musica originale per i nostri podcast. Lavoriamo con un regista, a seconda dei progetti, con il quale creiamo davvero l’identità sonora musicale del podcast. Lavoriamo anche con un produttore di podcast in Canada che rivede tutti i nostri script, perché è molto importante per noi avere qualcuno che abbia una prospettiva esterna e che non conosca la storia su cui stiamo lavorando: gli mandiamo i nostri copioni e lui ci dice immediatamente se vede delle incongruenze. Abbiamo anche un avvocato a cui inviamo lo script quando sappiamo che nelle nostre sceneggiature abbiamo passaggi che sono potenzialmente pericolosi o che potrebbero mettere in pericolo le nostre fonti.

Ci sono diverse fonti di guadagno: la fonte principale sono le piattaforme, la fortuna che abbiamo avuto è che siamo stati i primi a farlo in Francia. Siamo stati molto rapidamente avvicinati da piattaforme tra cui Audible, che ci ha detto: “Bene, cosa state facendo? Noi vogliamo creare ciò che non esiste in Francia. Vogliamo essere pionieri con voi in questo formato”. E così ci hanno fatto un contratto di sponsorizzazione che ci ha permesso di finanziare tutti i costi di produzione e di percepire una remunerazione per quasi un anno sul primo caso a cui abbiamo lavorato. E poiché il primo accordo ha fatto andare molto bene il primo podcast, siamo stati contattati da Spotify che ci ha detto che volevano il prossimo accordo, in esclusiva. Quindi abbiamo venduto prima ancora di conoscere l’oggetto, volevano già l’esclusività. Stiamo cercando di sviluppare l’aspetto dell’agenzia creativa audio.

Vengono a cercarci per il lato narrativo, molto immersivo, dei nostri podcast: certo, in Francia non capiscono molto spesso che la parte del suono può essere costosa. Il podcast non è ancora sufficientemente credibile presso le aziende e il secondo punto è che a volte preferiscono rivolgersi a realtà più mainstream.

Come scegliete le storie?

Ogni volta è davvero divertente, perché abbiamo un filo conduttore tra tutte le nostre indagini; spesso sono vecchi casi legali che ci permettono di avere un accesso più facile al fascicolo dell’indagine. Ci sono anche casi in cui c’è una decisione del tribunale che è stata pronunciata in via definitiva; anche questo facilita l’accesso alle fonti e alle informazioni.Se vediamo che qualcosa non torna, iniziamo a lavorare sul caso e proviamo a portare nuovi elementi nel caso.

Cosa ti senti Adèle, più giornalista o avvocata?

Mi sento un giornalista con ancora una gran voglia di ricercare la verità. Alla fine, non avrei mai potuto essere un avvocato perché sei obbligato a difendere il tuo cliente. Quindi scegli di difenderlo o meno, ma quando scegli di difenderlo, sei obbligato a difenderlo, anche se significa mostrare malafede, anche se significa non riportare le cose nel modo più corretto, mentre fare il giornalista è ancora l’unico lavoro al mondo che ti permette ancora di andare a vedere persone che non conosci, chiedere di parlare di un caso il più delle volte traumatico per loro, con la possibilità di ricostruire quanto è accaduto a 360 gradi, di andare a vedere tutte le persone raccontandole e poter dire: “Sono qui per raccogliere la tua testimonianza, non ti costringerò a parlare con me, se non mi parli mancherà ancora una voce in questo in questo podcast”. E forse farò giustizia quando riuscirò a riportare nel mio podcast tutte le voci e tutte le posizioni sullo stesso caso.

Se la mia storia può rendere possibile il raggiungimento di una forma di giustizia o equità allora mi dico che sto facendo bene il mio lavoro e che il mio lavoro ha una pubblica utilità.