GARA: 25 anni di giornalismo indipendente in terra basca

Intervista al direttore Iñaki Soto: “Credo che l’informazione deve proporre un quadro nel quale la gente sia capace di comprendere più cose, nel modo più chiaro possibile e che possa avere approccio critico”.

In copertina foto di Aritz Loiola, courtesy by FOKU


15 luglio 1998. Una telefonata dal paese basco mi sveglia: “Giovanni, hanno chiuso Egin!”. Non ero sorpreso, perché la chiusura del giornale della sinistra indipendentista era nell’aria. Ma chiudere un giornale per mano della polizia nel cuore dell’Europa rimaneva una grave violazione democratica. Scendo in cantina a rivedere gli “Egin” che ricevevo da un decina d’anni. Devo ammettere che era il “mio” giornale. Arrivava sempre con qualche giorno di differenza, ma io lo leggevo tutto o quasi. Era arrivato a cento pagine di foliazione, ci voleva il suo tempo per leggerlo.  Chiuso un giornale se ne fa un’altro, facile a dirsi.  Ma nel Paese basco quel settore sociale della sinistra indipendentista era capace di tutto. E così parte la campagna per un nuovo giornale. La quota azionaria: 1 milione e 100mila lire. Anche io ci voglio stare, assieme ad altre e altri 10 mila soci. E il 31 gennaio 1999 nasce GARA, che vuol dire “siamo”. “Perché eravamo, siamo, perché siamo saremo”. Pochi giorni prima della festa che celebra l’anniversario,  incontro il direttore Inaki Soto nella sede ristrutturata del quotidiano, con i lavori ancora in corso per la radio, Naiz:eus. Andavo a trovarlo quasi sempre nei miei viaggi in terra basca. Una vecchia conoscenza, anche se il vecchio in questo caso sono io. Lui ,49 anni ,mi parla con la sua consueta ampiezza di vedute, i suoi studi di filosofia si sentono. Tante cose da dire e su cui riflettere, insieme.

Inaki Soto ricorda quando nacque la testata: “Ero dall’altra parte, tra i più di diecimila fondatori, e avevo sottoscritto due azioni. Stavo studiando filosofia e mai avrei pensato che anni dopo ne sarei diventato direttore. Posso dire che, da questo punto di vista, fu un investimento per il mio futuro professionale e non lo sapevo”.

Inaki Soto, fotografia di Giovanni Giacopuzzi
Gara nacque dalle ceneri di Egin, uno storico quotidiano che venne assalito dalla Guardia Civil, comandata dal giudice Baltasar Garzon il 14 luglio del 1998, all’interno di un teorema politico-giudiziario che accusava lo storico giornale della sinistra basca di essere uno strumento dell’organizzazione armata Eta. il decreto che di fatto ordinava la sospensione delle pubblicazioni venne applicato in maniera violenta. I militari spaccarono le rotative e danneggiarono le strumentazioni di Radio Egin, che aveva la sua sede nello stesso edificio. I giornalisti, da un giorno all’altro non potevano più accedere alle proprie agende, beni personali, archivi, materiali che nel corso di quella sospensione, durata anni, si deteriorarono. Quando i sigilli vennero tolti la redazione di Egin era una sorta di discarica, ma come sentiremo dalle stesse parole di Inaki Soto la chiusura di Egin scatenò una reazione immediata e incredibile da parte dei lavoratori e di una parte della società civile, che in poche ore riuscì a realizzare il quotidiano del giorno dopo con una testata in disuso, Euskadi informacion, arrivando a essere distribuito da gruppi di volontari, senza perdere un giorno di pubblicazione.

Cosa ricordi della chiusura di Egin?
«Fu terribile. C’era il sentore che questo poteva accadere. Successe quello che aveva annunciato lo stesso José Maria Aznar (allora era il premier in carica per il Partido Popular ndr). Poi verranno l’illegalizzazione di partiti,associazioni, giornali. Ma la risposta del giorno dopo dei lavoratori di Egin e della gente comune fece capire che le cose non sarebbero finite qui. Poche ore dopo Euskadi Informacion è già nelle strade, diffuso dalla gente come un atto di resistenza, ma anche come l’inizio di un progetto che aveva come obiettivo creare un nuovo quotidiano più potente e professionale. Gara raccolse l’eredità più importante di Egin: l’idea che dopo la morte di Franco bisognava fare un giornale politico basco e indipendente. Per Gara il principio è stato: ‘Franco è morto ma il franchismo continua’, in questo caso un franchismo impersonificato da José Maria Aznar»

Dopo l’entusiasmo iniziale è arrivata però la batosta. I giudici hanno deciso di caricare sulle vostre spalle tutta la previdenza  sociale di EGIN ancora non versata, per “continuità ideologica”
«Sì, però ci sono due aspetti da sottolineare. EGIN venne chiuso manu militari e illegalmente. Il Tribunale Supremo riconobbe anni dopo che Garzon avrebbe potuto fare quello che ha fatto, ma non chiudere il giornale perché è un atto incostituzionale. Quindi, hanno chiuso un giornale illegalmente, e poi accusano un altro giornale, GARA, di aver ordito una truffa per non pagare il debito di Egin, quando in realtà erano già arrivati ad un accordo forfettario per il pagamento. Garzon utilizzò un articolo del codice penale riguardante le imprese indebitate che chiudono, e che per eludere il debito ne aprono un’altra. Ma EGIN è stato chiuso dalla magistratura per motivi politici, e GARA era una nuova impresa con nuovi capitali, nuova sede, nuovi macchinari. L’unica continuità con Egin era quel settore sociale e culturale del paese che voleva avere uno strumento che potesse comunicare ciò che faceva questo paese in termini politici ma anche culturali.
Attribuire i debiti di EGIN a GARA significa per 16 anni una situazione assurda. Qualsiasi spesa doveva passare sotto le lenti dell’autorità giudiziaria. Ci fecero diventare un’impresa medioevale. Non avevamo finanziamenti, eravamo controllati quotidianamente. Almeno non potevamo essere sospettati di nulla,perché qualsiasi penna che acquistavano doveva passare sotto le lenti del controllo giudiziario. Eravamo coscienti che dovevamo negoziare una riduzione del debito e uscire più forti da questa situazione».

A quanto ammontava il debito?
«Il debito era di più di 5 milioni di euro e alla fine furono pagati 3 milioni. L’ultima rata è stata saldata nel 2023 attraverso, ancora una volta, il contributo popolare e organizzando le più svariate iniziative. La calendarizzazione del debito era davvero molto dura. E però ci siamo riusciti. Siamo un’impresa significativamente innovatrice, molto austera per quanto riguarda salari e spese. Facciamo parte della classe lavoratrice e ne siamo coscienti, GARA ha un bilancio annuale attorno ai 10 milioni di euro. 76 giornalisti e giornaliste per l’edizione cartacea, il portale on line, Naiz.eus e la radio. Poi abbiamo una serie d’imprese di cui siamo i principali clienti, fotografia, rotativa, agenzia di pubblicità quindi includendo questi lavoratori siamo 120».

Che diffusione ha GARA?
«Ci sono centomila lettori al giorno, ma questo lo dobbiamo soprattutto al giornale on line che è stata l’idea vincente degli amministratori di GARA. Il lettore medio di GARA su carta è dieci anni più giovane che il resto dei quotidiani quindi tra i 50 e 60 anni. Nell’edizione on line, invece, grazie a una politica degli abbonamenti mirata, l’età media è tra i venti e trent’anni. Un pubblico giovane, non militante ma sensibile alle tematiche sociali e culturali. In generale noi siamo il terzo giornale nel Paese basco a parte in Gipuzkoa (provincia di Donostia) dove siamo il secondo. Il primo è il gruppo Vocento (El Correo e Diario Vasco), il secondo il Grupo Noticias».

Egin e Gara molto diversi uno dall’altro…. .
«Rispetto a Egin credo che ci sia un po ‘di leggenda. Ci sono stati diversi Egin. Epoche gloriose in cui si stampava un quotidiano con molte pagine e c’era molta pubblicità. Epoche in cui le sezioni erano molto contenute. Gara nasce con l’accordo di Lizarra Garazi (1) e aveva la volontà di aprirsi a un pubblico che fino ad allora non lo aveva come riferimento. Il gruppo fondatore di GARA fece una valutazione a mio avviso intelligente su cosa bisognasse contenere e cosa sviluppare. Una scommessa in un certo senso conservatrice, perché era necessario un cambio per adattare il giornale all’idea a cui si ambiva».

Avete rapporti con altri giornali a livello internazionale ?
«All’inizio con La Jornada, il quotidiano messicano che ci ha dato una grande appoggio. La sua direttrice, Carmen Lira, ci ha sempre appoggiati e anche Josexo Zaldua, vice direttore per molti anni, che era di origini basche. Altre Relazioni le abbiamo avute con Il Manifesto, con il quotidiano norvegese Klassenkampen e altri quotidiani di sinistra europei. Credo che Gara sia attualmente il quotidiano di sinistra che ha più esito e diffusione nella sua società».

Accusavano anche voi di essere il giornale di ETA.
«ETA inviava i suoi comunicati a GARA e GARA li pubblicava come avrebbero fatto gli altri giornali se li avessero inviati a loro. Questa è la realtà. Quando ci accusavano di essere il quotidiano di ETA volevano criminalizzarci, riducendoci a un mero organo di partito. Noi abbiamo sezioni di politica, sport, cultura, arte e montagna. La relazione che abbiamo con la sinistra abertzale (di sinistra e indipendentista ndr) è determinata dalla relazione che questa società ha con il giornale. C’è una comunità che rivendica il diritto all’autodeterminazione, che considera che c’è un Paese diviso tra due stati, che ha tre amministrazioni, che nonostante ciò ha una lingua particolare e che sente di avere l’obbligo di proteggerla, che nessuno salverà l’euskera se non noi stessi. E questa comunità vuole avere una narrazione su quanto avviene nel paese. Questo è GARA. Che la maggioranza di questa comunità voti la sinistra abertzale, negarlo sarebbe stupido. Però GARA è letto anche da altri, compresi i Governi, perché riflette un dinamismo sociale e di questo noi siamo orgogliosi e orgogliose».

In che modo Gara ha contribuito alla fine della violenza di ETA?
«C’è un libro di Imanol Murua, dove si dice che non sarebbe stato possibile il cambio di strategia di ETA senza GARA. Io credo che le cose non stanno così. Credo che questo cambio di strategia doveva avvenire,  prima o poi. Perché questa strategia non rispondeva al mandato democratico che aveva avuto questo movimento, ovvero prendere atto di quanto chiedeva la società basca. Una volta che tu accetti cosa chiede la società basca, quella richiesta è una decisione vincolante. Quindi prima o poi ETA doveva prendere atto di questa volontà. Che contributo ha dato GARA? Io credo che abbiamo contribuito a dare una conoscenza più realistica e non propagandistica del contenuto dei dibattiti in corso. Il resto dei mezzi di comunicazione avevano interesse a una determinata narrativa, per esempio credevano in una scissione dentro ETA. Che ci fosse una divisione, che i dibattiti andassero verso una deriva che portasse a un ridimensionamento dell’indipendentismo basco. In questo contesto essendo la nostra una posizione, se si vuole, di parte era allo stesso tempo neutrale. Gli altri mezzi d’informazione per esempio dovevano mentire su Arnaldo Otegi, inventarsi cosa stava avvenendo a Oslo (sede degli incontri con i mediatori internazionali,ndr), o screditare i mediatori internazionali  e ridicolizzare la Conferenza di Aiete. Al contrario; quando la gente leggeva GARA vedeva che le cose che si riportavano si realizzavano».

A tuo avviso quali sono i motivi della fine di ETA.
«Credo che un momento chiave è stato quando ETA propose l’Alternativa Democratica (1995). Fino ad allora la tesi era quella negoziale vale dire far sedere il governo a negoziare con ETA. Una strategia nella quale la lotta armata aveva una funzione di accumulazione di forze in un’ottica insurrezionale rivoluzionaria. Nel momento in cui ETA con l’Alternativa Democratica afferma che accetterà quello che decide il popolo basco attraverso un processo democratico e pacifico l’onere della prova passa allo Stato e quindi la lotta armata perde il significato che aveva fino a quel momento. Quindi, a mio avviso, prende una decisione corretta ma non accetta le conseguenze di questa decisione. Qui lo Stato comprende la debolezza del movimento indipendentista e dà inizio alla strategia di illegalizzazione di partiti e associazioni, chiusura di giornali, portando la società a una frattura e a un distanziamento dal movimento indipendentista. Ci potranno essere altre opinioni al riguardo; che la decisione di ETA in quel negoziato fu erronea; che quell’attentato provocò questa conseguenza. Certo. Però io credo che concettualmente la decisione e il contenuto della Alternativa Democratica era corretto ma non vennero accettate le conseguenze politiche».

Qual’è la linea editoriale del quotidiano? Quali argomenti vengono trattati principalmente?
«Femminismo e cambiamento climatico. Prima erano temi puntuali, verticali, adesso sono trasversali e possono apparire in qualsiasi sezione, che sia economia sport cultura…E’ inoltre una richiesta che emerge dal nostro lettore giovane. Molto potente è la sezione di politica basca e economia. Siamo un periodico favorevole ai sindacati, alle cooperative, critico con il padronato e qui non c’è concorrenza. Perché nessuno parla in modo critico del padronato».

La redazione, foto G.Giacopuzzi

Come affrontate il cambiamento sociologico dovuto all’immigrazione?
«Attraverso l’idea di cittadinanza. Credo che il più grande contributo che ha dato ETA è stato quello di coniare il concetto che ‘basco è chi lavora e vive in Euskal Herria’. Indipendentemente dalla sua provenienza. Un concetto definito negli anni ‘60 in relazione con le ondate di immigrazione dal resto dello stato spagnolo per la forte industrializzazione presente. Un’idea che  ormai fa parte della coscienza della nostra società:considerare basco chi vive e lavora qui e che vuole essere parte di questa società. Adesso noi dobbiamo sapere dalle persone che arrivano qui, che cosa pensano della vita, che usanze hanno e mi sembra che a volte abbiamo un buonismo antropologico che non porta a nulla, perché non comporta alcun sforzo o molta ignoranza. Siamo diventati un paese di passaggio. E a me questo preoccupa. La gente che arriva qui viene per andare da un’altra parte non viene per rimanere: chi rimane è perché ha familiari che vivono qui. Ma non siamo un luogo attrattivo per le persone che vogliono avere una vita migliore e questo ci dovrebbe fare riflettere perché vuol dire che c’è qualcosa che non stiamo facendo bene».

In che senso?
«Nel nostro giornale una percentuale di donne che appaiono sono migranti, una percentuale di notizie sono sull’ immigrazione. Lo facciamo in termini positivi. Cioè adempiano alle norme etiche che ci siamo dati per dare una visione positiva, ma   sicuramente quello che diciamo di loro a loro non arriva. Possiamo dare loro lo spazio affinché possano parlare, però non so fino a che punto prendiamo atto di quanto dicono o se sappiamo veramente cosa gli interessi. Per esempio; la coppa d’Africa dove noi abbiamo scelto di raccontarla  attraverso gli occhi di Inaki Willams. Non siamo capaci di vedere la coppa d’africa attraverso gli occhi della comunità senegalese che è molto grande in alcune città. E’ una questione che dovremmo affrontare».

E sui temi internazionali?
«Per me i temi internazionali sono diventati un campo di battaglia tossico per la sinistra. Io ho un grande interesse per la politica internazionale ma è un tema disgustoso. C’è molta propaganda, poco giornalismo, un dogmatismo terribile da tutte le parti. e una lettura ridicola. Perché viviamo in un modo complesso che vogliamo spiegare in modo semplice. Certo è necessario essere rigorosi e per fare questo è necessario a volte semplificare e fare un esercizio di astrazione. Però ciò che non si può fare è ridurre la complessità. Un giornale non è un catalogo morale. Se facessimo un catalogo morale Euskal Herria non sarebbe mai sulle pagine di un giornale. Perché, in termini morali, vista la situazione che stanno vivendo in Yemen, a Gaza, in Russia, in Cina, in Salvador, prima che un basco arrivi su una pagina di un giornale bisognerebbe stamparne milioni di pagine. Non si tratta di dipingere il mondo che ci piacerebbe e oggettivare costantemente. Credo che l’informazione deve proporre un quadro nel quale la gente sia capace di comprendere più cose, nel modo più chiaro possibile e che possa avere approccio critico.

Per esempio qui, tra noi, credo ci siano persone che non hanno vissuto la fase storica precedente e quindi hanno un’idea molto romantica di ciò che è stato. Però vivere quegli anni era un’autentica merda. Era terribile. Ti alzavi con paura andavi a letto con paura. Certo, ti costruivi amicizie, disciplina e impegno, che in un’altra situazione non si sarebbero date. Ma ciò non toglie la crudezza e la tragicità di quegli anni. Spesso si da troppa importanza alla propria opinione. Lavorare in un giornale fa sì che le tue opinioni si relativizzino. Che è il privilegio che io ho avuto. Aver conosciuto persone che hanno fatto cose importanti per il Paese. E  questo ti mette al tuo posto».

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