La “guerra di narrazioni” tra Israele e Palestina

L’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre e i pesanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza hanno riportato l’attenzione di tutto il mondo su Israele e Palestina. Da ormai tre settimane i media seguono quotidianamente gli ultimi sviluppi sulla questione degli ostaggi, sulla tragica situazione umanitaria nella Striscia di Gaza e sui pochi tentativi di aprire una strada diplomatica, mentre enormi proteste a sostegno dell’una o dell’altra parte stanno esplodendo in tutto il mondo.

Alla narrazione dei fatti di questi giorni manca però in molti casi un’analisi del contesto e della storia dell’occupazione israeliena della Palestina. Che è però fondamentale perché aiuta a capire come siamo arrivati qui, come ha ricordato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres dichiarando che l’attacco di Hamas in Israele «non è accaduto in un vuoto, il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione»

Ma guardare alla storia e al contesto della questione israelo-palestinese è fondamentale anche perchè le narrazioni storiche delle due parti, profondamente conflittuali e incompatibili, sono estremamente attuali. La storia e la memoria sono infatti centrali all’identità collettiva dei due popoli: da un lato, l’identità collettiva e la narrazione storica israeliana sono fortemente legate alla storia di antisemitismo e discriminazioni vissute dal popolo ebraico e alla tragedia dell’Olocauso; dall’altro, quelle palestinesi sono centrate sull’esperienza del colonialismo e sulla tragedia della Nakba (l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi in seguito alla creazione dello Stato di Israele). Questi eventi storici sono onnipresenti nei discorsi dei politici, anche in quelli di queste ultima settimane, a conferma di come il contesto storico non possa essere trascurato nel trattare gli eventi attuali.

La questione della memoria è inoltre cruciale per capire la posizione degli stati europei e occidentali  nei confronti di Israele e della Palestina, e per analizzare la narrazione politica e mediatica di queste ultime settimane. Sia i politici che i media di molti paesi occidentali si sono infatti schierati fermamente con Israele, rifiutandosi di spingere per un cessate il fuoco anche di fronte a enormi violazioni del diritto internazionale e a crimini di guerra israeliani a Gaza. In alcuni paesi europei, inoltre, le manifestazioni in solidarietà con il popolo palestinese sono state cancellate e criminalizzate. È una posizione che ha le sue radici nella storia europea di discriminazioni e persecuzioni del popolo ebraico, ma anche in una visione colonialista dell’”altro” rispetto all’occidente. 

Abbiamo parlato di queste questioni con Nadim Khoury, professore di origine palestinese alla Inland Norway University. Nel suo percorso di ricerca, Khoury si è concentrato sulla rilevanza della memoria e sul ruolo delle narrazioni nel contesto dell’occupazione israeliana della Palestina. Khoury è tra gli autori del libro “Olocausto e Nakba: narrazioni tra storia e trauma” sulla centralità dell’Olocausto e della Nakba (l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi in seguito alla creazione dello Stato di Israele) per l’identità collettiva rispettivamente israeliana e palestinese.

Perché è importante parlare di memoria e di narrazioni storiche nella questione israelo-palestinese?

«Come studioso che si occupa di memoria, sono sorpreso da quanto la storia, la memoria e le narrazioni storiche sono usate e mobilitate su larga scala in questi giorni. Dal lato israeliano si è iniziato subito il 7 ottobre a parlare di Olocausto, di come non ci siano stati così tante vittime ebree in un giorno dall’Olocausto. Dal lato palestinese si paragona quello che sta succedendo a Gaza alla Nakba. L’Olocausto e la Nakba sono le due tragedie fondative intorno alle quali si sono create le narrazioni collettive di israeliani e palestinesi. Riferirsi all’Olocausto e alla Nakba significa implicare una questione esistenziale, che mette in discussione l’esistenza stessa di uno dei due popoli, e sottolineare l’emergenza della situazione».

Che cosa ci dice questo sull’importanza delle narrazioni? 

«Quella tra Israele e Palestina è sempre stata una guerra di narrazioni. È sempre stata una guerra di ascolti in cui le due parti si contendono il consenso dell’opinione pubblica e cercano di convincere le persone della propria narrazione. E per questo, la questione israelo-palestinese va oltre le appartenenze nazionali per arrivare a quelle religiose e alle identità collettive fuori dai confini di Israele e Palestina. Per esempio, per il mondo arabo la causa palestinese è un simbolo cruciale al centro della loro storica lotta contro colonialismo e imperialismo, e questo sta emergendo adesso, la popolazione del mondo arabo si sta riunendo intorno alla causa palestinese».

Come si posiziona il mondo occidentale in questa guerra di narrazioni?

«In Europa e in America, la narrazione israeliana ha molta più risonanza rispetto alla narrazione palestinese, per una serie di ragioni. Il motivo principale è che la tragedia dell’Olocausto, che è centrale nella narrazione israeliana, tocca profondamente la coscienza storica degli europei e chiama in causa i paesi europei che hanno compiuto il genocidio del popolo ebraico. Poi c’è un aspetto culturale e religioso, il forte legame tra ebraismo e cristianesimo. E infine c’è il fatto che alcune popolazioni vengono viste come più civilizzate e altre come meno civilizzate: il sionismo è un progetto occidentale, costruito su valori occidentali, e il popolo israeliano viene quindi visto dall’occidente come più civilizzato; i palestinesi invece vengono visti come un popolo meno civilizzato, meno evoluto, inferiore. Questi pregiudizi inconsci, queste storie profondamente radicate che in quanto esseri umani abbiamo su noi stessi fanno in modo che alcune persone siano più ricettive, più sensibili ad alcune narrazioni rispetto che ad altre. Come una radio che riesce a collegarsi a una stazione piuttosto che ad un’altra».

Quali sono le conseguenze? 

«Le narrazioni giocano un ruolo importante nel modo in cui consideriamo e attribuiamo valore alle vite umane, così come nel modo in cui concepiamo le soluzioni politiche. Quello a cui stiamo assistendo al momento è un sostegno diretto e incondizionato [dell’Occidente] a Israele, che ha il via libera per commettere atrocità di massa, una cecità incondizionata dell’occidente nei confronti delle azioni di Israele, e questo è estremamente spaventoso. Il fatto che la narrazione Occidentale sia sbilanciata verso il punto di vista israeliano porta l’Occidente a giudicare le atrocità di massa commesse da Israele in modo diverso da quelle commesse dai palestinesi, a vedere la violenza israeliana come violenza giustificata e civilizzata da parte di un esercito contro la violenza ingiustificata e selvaggia dei barbari. E per quanto la violenza sia sempre violenza, il modo in cui interpretiamo e giudichiamo la violenza dipende dalle nostre narrazioni e dai nostri pregiudizi, che ci portano a vedere alcune manifestazioni di violenza come più civilizzate e altre come meno civilizzate. E la tragedia è che non esiste una bussola morale che ci aiuti a vedere la violenza allo stesso modo e a contare i morti allo stesso modo».

E quali sono invece le conseguenze sul dibattito pubblico occidentale ? 

«Quello che è particolarmente preoccupante al momento è anche il fatto che molte persone vengano messe a tacere e che la narrazione palestinese venga criminalizzata, e questo è uno sviluppo preoccupante che non avevo immaginato. In questi giorni è davvero difficile parlare della situazione cercando di contestualizzare e fornire un’analisi storica che sia anche critica nei confronti di Israele».