In Occidente ne siamo assuefatti. La consumiamo da spettatori e spettatrici, convinti di conoscerne ragioni e implicazioni, sfumature e soluzioni, provando a stare dalla parte dei giusti – ma comodamente seduti a casa o nei talk-show. Da un paio di mesi a questa parte, però, la guerra è ritornata prepotentemente sul suolo europeo. La respiriamo in tv, sui social, ovunque.
La guerra, è bene ricordarlo, non ha mai smesso di esistere. Conflitti, dispute di ogni genere, hanno preceduto l’invasione russa in Ucraina, e continuano a spargere sangue e dolore nel mondo intero. In Europa, soltanto 30 anni fa si consumava una delle pagine più drammatiche della storia del continente, a pochi km da Venezia, Trieste, Vienna: nei Balcani. Ma che cos’è davvero la guerra? Ce lo siamo mai chiesto?
Noi lo abbiamo fatto intervistando Vedran Maslic, attualmente ufficiale delle Forze armate australiane, di origini bosniache, che ha deciso di trovare delle risposte, di colmare un divario nel modo in cui percepiamo e intendiamo la guerra e le sue vere conseguenze. Maslic porta avanti, da un anno ormai, un podcast chiamato “The Voices of War” (Le Voci della Guerra, ndr).
Vedran, la prima cosa che mi viene in mente di chiederti è: cos’è la guerra per te?
Si potrebbe facilmente rispondere a questa domanda con la citazione di Carl von Clausewitz: “La guerra non è altro che l’estensione della politica con altri mezzi”. Ma, avendo toccato con mano la guerra in Bosnia nei primi anni ’90, gli anni della mia infanzia, penso che la guerra sia molto più di una riflessione filosofica, indipendentemente da quanto accurata o utile possa essere. La guerra, per coloro che sono costretti a viverla, è viscerale, cruda e universale. La guerra, se vista attraverso gli occhi di coloro che ne sono toccati, è una forma densa e concentrata di immensa e quasi sempre inutile sofferenza. Perdere un genitore, un fratello, una sorella, uno zio o, peggio ancora, una figlia in guerra è profondamente triste, se non altro per il semplice fatto che era quasi sicuramente evitabile. Da una parte Clausewitz ha indubbiamente ragione. Tuttavia, sono convinto che la guerra sia un fallimento, piuttosto che un’estensione, della politica. Se la soluzione a qualsiasi dei nostri problemi sta nel massacrarsi a vicenda, allora la guerra è semplicemente un fallimento della nostra immaginazione collettiva nel trovare risultati creativi e produttivi per tutti e tutte. È vero che la guerra abbia indubbiamente avuto una funzione protettiva per i gruppi sociali nel corso dell’evoluzione umana. Oggi però abbiamo altri mezzi. La guerra deve diventare un retaggio del passato. Ci sono abbastanza risorse, innovazione e creatività nel mondo tali da assicurare un presente e un futuro prospero per tutte e tutti. Dobbiamo solo rompere le nostre catene mentali dalla paura dell’altro che, alla fine, è alla base della geopolitica e delle relazioni internazionali.
Quali sono i motivi che ti hanno spinto a dare vita al tuo progetto, “The Voices of War”?
La mia prima esperienza di guerra è stata durante l’assedio di Sarajevo in Bosnia ed Erzegovina dove, a dieci anni, il mondo che conoscevo è andato in pezzi. Come tante e tanti, ho dovuto lasciare il Paese e sono diventato rifugiato in Germania e, quattro anni dopo, un immigrato in Australia. In seguito, mi sono arruolato nell’esercito australiano e, dopo aver servito in Afghanistan e Timor Leste, ho visto di nuovo l’impatto della guerra – questa volta come partecipante in uniforme. Da allora, sono tornato in Bosnia dove ho avviato un progetto di sviluppo comunitario senza scopo di lucro, ho studiato e insegnato nell’ambito della comunicazione interpersonale e interculturale in Svezia, ho lavorato nella ricostruzione post conflitti violenti in Iraq e ora, tornato nell’esercito, tengo corsi sulla comunicazione interpersonale e interculturale.
Nel corso degli anni, mi sono reso conto che la maggior parte dei decisori e di coloro che commentano la guerra non ne hanno una reale comprensione. Proprio come le nostre narrazioni sociali, i loro punti di vista sulla guerra sono di solito molto semplici, asettici e raramente tengono conto dei suoi veri orrori e della sua abietta disumanità.
È questa lacuna nella nostra comprensione collettiva della guerra che ha motivato la nascita di The Voices Of Ware ne sostiene la sua filosofia: mostrare il vero costo della guerra, attraverso le voci di coloro che l’hanno vissuta. Parlo con operatori per lo sviluppo, soldati, rifugiati, negoziatori, accademici, medici e chiunque altro la cui vita sia stata plasmata dalla guerra, sia esso un sopravvissuto, un carnefice, un mediatore o un guaritore, con l’obiettivo di esaminare la guerra a partire dalle sue fondamenta per demistificarla e, forse in maniera ancor più importante, screditarla. Voglio togliere il velo sotto al quale si nasconde l’enorme scala della sofferenza umana causata dalla guerra confrontandomi con coloro che sono professionalmente coinvolti con essa – siano essi sostenitori o accusatori – e con coloro che semplicemente la osservano e la giudicano da lontano attraverso i media tradizionali e i social. Facendo questo spero di smuovere, anche se di poco, la nostra tendenza collettiva a vedere la guerra come una soluzione alle tante sfide a livello locale, regionale e globale.
Finora il 2022 ha quasi esclusivamente gravitato intorno all’invasione russa dell’Ucraina, generando un conflitto che ha riportato la guerra in Europa 30 anni dopo le guerre balcaniche. Solo pochi mesi prima, però, c’era stata l’ennesima crisi politica e sociale in Afghanistan. Potremmo dire che, in realtà, dalla fine della Seconda guerra mondiale il mondo non ha mai conosciuto un vero periodo di pace, considerati gli innumerevoli conflitti a “bassa intensità” che si susseguono da allora. Cosa ne pensi di tutto ciò e del conflitto russo-ucraino? E perché gli esseri umani tendono così facilmente a ricorrere alla guerra e alle armi piuttosto che al dialogo, alla cooperazione, alla comprensione reciproca?
La vita mi ha insegnato che la patina di civiltà e di pace di cui godiamo è fondamentalmente fragile. In tempi di crisi – qualsiasi crisi – i leader politici spesso usano semplici narrazioni concepite per incolpare e instillare la paura dell’altro. Mentre le circostanze e la definizione dell’altro variano da contesto a contesto, la ricetta sembra essere sempre la stessa: incolpare un altro gruppo sociale (ad esempio, ebrei, musulmani, talebani, l’Occidente, ISIS, NATO, cinesi, nazisti, ecc.) per qualsiasi torto subito e utilizzare la crisi per impostare la propria agenda. L’attuale conflitto in Ucraina segue lo stesso copione. Se da un lato il presidente Putin può cercare di giustificare – e persino credere – che invadere l’Ucraina sia un modo per proteggere il popolo russo dai “nazisti” nel governo ucraino o dall’espansione della NATO, dall’altro queste sono solo narrazioni costruite per promuovere il suo potere e la sua influenza. Soprattutto, nessuna di queste narrazioni giustifica l’uso della forza militare, specialmente non contro i civili.
Purtroppo, mentre la Russia è ovviamente la nazione belligerante in questo caso, altri leader regionali e globali hanno avuto, e continuano ad avere, un ruolo da giocare. Non voglio sminuire la colpa del presidente Putin per l’aggressione in corso, ma dobbiamo capire ed esplorare come siamo arrivati a questo punto. Credo che lo stesso sfruttamento del bisogno (umano) di definire il proprio gruppo in contrapposizione con altri gruppi, come dicevo prima, sia stato parte integrante del processo che ha portato alla situazione attuale. L’interesse egoistico dei leader, anche di decenni fa, ha portato all’attuale deterioramento delle relazioni. Ogni gruppo che si fonda sulla differenza del “noi” e “loro”, l’in-group e l’out-group/gli esclusi (o, insomma, definiteli come volete) ha lottato per un vantaggio sulla scacchiera geopolitica senza rendersi conto che la cooperazione e il dialogo sono il modo più efficace per tutti di prosperare. Mentre l’Ucraina è un esempio attuale, so che non è l’unico – e certamente non l’ultimo – di questa follia.
Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina. Cosa provi al riguardo?
Il primo pensiero che mi viene in mente è che oggi, a 30 anni dall’inizio di quella guerra, la Bosnia-Erzegovina rimane divisa e in uno stato perpetuo di “pace fredda”. I leader politici all’interno del Paese fanno ancora affidamento su leve etnocentriche per definire gli in-group e out-group al fine di mantenere il potere. Per questo motivo, purtroppo, la minaccia di tornare a uno stato di guerra non è mai lontana dalla superficie.
Esiste una sorta di legame tra il tuo passato di bambino rifugiato durante le guerre balcaniche e la tua carriera nell’esercito australiano?
Sì, assolutamente. Anche se, a dire il vero, ho sempre avuto un’attrazione verso l’uniforme. Già all’età di tre anni mi presentavo a chiunque incontrassi come “il soldato” Vedran Maslic, alzando la mano nel miglior saluto che potessi fare a quell’età. In altre parole, ho sempre nutrito un profondo senso di rispetto per coloro che sono disposti a sacrificarsi per proteggere gli altri.
Detto questo, e ne parlo spesso nel podcast, sono quanto di più vicino a un pacifista si possa essere, pur indossando un’uniforme. Non mi illudo che le nazioni abbiano ancora bisogno di un modo per difendersi da forze maligne sia interne che internazionali, ma il mio servizio è sempre stato accompagnato e sostenuto da un impegno ad aiutare chi ne ha bisogno, piuttosto che da qualsiasi desiderio o volontà di “combattere” le guerre. Questo orientamento è stato indubbiamente plasmato dalla mia esperienza di guerra in Bosnia, nonché dall’aiuto dei soldati stranieri che abbiamo incontrato mentre fuggivamo da Sarajevo.
La guerra in Ucraina sta sollevando ulteriori timori che riguardano altri Paesi come la Moldavia, la Georgia e quelli nei Balcani occidentali, specialmente la Bosnia. Quest’ultima pare essere divisa circa la possibilità di entrare nella NATO, mentre l’influenza della Russia nella regione continua ad essere forte. Qual è la tua opinione al riguardo?
Questa è una domanda enorme e non mi sento sufficientemente qualificato per rispondere. Tuttavia, quello che posso dire è che la Bosnia-Erzegovina rimane un Paese instabile, vulnerabile alla disinformazione. Sfortunatamente, la Bosnia-Erzegovina non è l’unico luogo suscettibile a tali influenze negative – lo siamo tutti. Quindi penso che, piuttosto che concentrarsi su un singolo Paese, dobbiamo guardare a soluzioni globali per il modo in cui consumiamo le informazioni. Continuiamo a permettere alle aziende private, seguite dai mezzi di informazione tradizionali o via social media, di degradare le democrazie attraverso modelli di business mal incentivati, alimentati da algoritmi che espongono le linee di faglia sociali e che contribuiscono a clickbait sensazionali. Questo, come esploro spesso nel podcast, è un fattore chiave che contribuisce alle continue divisioni locali, regionali e globali che stiamo vivendo.
Ogniqualvolta ci ritroviamo a consumare notizie relative a guerre e conflitti di ogni genere, donne, bambini e anziani sono rappresentati come la parte vulnerabile. Le nostre società sono state – lo sono tuttora – storicamente e prevalentemente patriarcali. Qual è secondo te il ruolo che le donne hanno avuto nel contesto della guerra, e tutto ciò che con essa ha a che fare, considerato che sono (sempre) stati gli uomini a farla? Se le donne avessero più possibilità di gestire i conflitti e, più in generale, il potere e gli aspetti decisionali, cosa succederebbe?
Temo di non essere la persona più qualificata a trattare una questione così delicata e piena di sfumature. Tuttavia, una cosa che mi preme dire, e posso dirla con certezza, è che la pace senza le donne al tavolo è statisticamente destinata al fallimento. Qui, naturalmente, mi riferisco alla ricerca condotta a seguito della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza, secondo la quale la partecipazione delle donne alla risoluzione dei conflitti aumenta la probabilità di un “accordo di pace che dura almeno due anni del 20%, e del 35% la probabilità di un accordo di pace che dura 15 anni”.
Hai cominciato con il tuo podcast ormai un anno fa. Hai parlato, intervistato, condiviso pensieri e opinioni con tanti ospiti. È cambiata la tua percezione del concetto di guerra? Cosa hai imparato e, allo stesso modo, disimparato sulla guerra?
Finora ho intervistato più di 50 ospiti, che hanno tutti una sola cosa in comune: l’esperienza della guerra. Le loro esperienze differiscono per forma e intensità, e sono stato in grado di individuare tre lezioni chiave dalle mie interviste.
La prima è che, in realtà e in fin dei conti, non ci sono vincitori in guerra. Indipendentemente dalle circostanze che fanno da cornice ad un conflitto, nessuna persona esce immutata da una guerra. Gli odori, il rumore, le scene e i traumi che inevitabilmente accompagnano la guerra lasciano spesso cicatrici incurabili su coloro che ne sono testimoni. Indipendentemente da quanto ben preparati e addestrati si possa essere per la guerra, ci sono pochissimi, se non nessuno, che possono andarci più e più volte senza sperimentare qualche forma di danno morale, psicologico o fisico.
La seconda lezione è che gli interessi apparentemente prevalgono sempre sui valori. Quello che intendo è che mentre gli individui e le nazioni possono sposare i secondi, le loro azioni e decisioni sono guidate dai primi. Questo porta al dilemma che ho discusso in precedenza, cioè che perseguire solo gli interessi del mio “in-group” pone inevitabilmente le relazioni con gli altri come un gioco a somma zero. In altre parole, perché io vinca, qualcuno deve perdere. Questa disposizione egoistica, credo, è un fattore chiave che contribuisce a molte delle nostre dispute e incomprensioni globali. L’ultima lezione è che la pace si costruisce pezzo dopo pezzo. Proprio come le guerre hanno le loro cause a monte, lo stesso vale per la pace. E sono le piccole e spesso invisibili azioni quotidiane delle persone che generano lo slancio e la massa necessari per l’emergere della pace. È vero che tutte le guerre finiscono, ma parlando con i miei ospiti sono arrivato alla conclusione, forse ovvia, che è l’accumulo e l’effetto combinato di innumerevoli piccole azioni che alla fine supereranno le forze che muovono la guerra e che porteranno alla pace.