Lo speciale Isole (Canarie, Lampedusa e Lesbo) sul numero Geografie di Q Code Magazine è illustrato dalle foto di Luca Musso che in questo reportage tra note di campo e immagini, racconta l’invisibile e come anche i corpi dei migranti vengano celati al racconto nelle isole greche.

Ma i viaggi non avevano fine.
Le loro anime si confusero con i remi e gli scalmi
con la figura austera della prora
con la scia del timone
con l’acqua che frangeva il loro volto.
I compagni morirono a uno a uno,
con gli occhi bassi. I loro remi
indicano il luogo dove dormono, sulla riva. 

Nessuno li ricorda. Giustizia.

(Ghiorgos Seferis, Mithistòrima IV Argonauti, Crocetti 2017, trad. N. Crocetti)

I versi magnifici di Ghiorgos Seferis non raccontano la tragedia di oggi, delle migrazioni di massa. E però la forza evocativa della poesia, fuori del tempo e delle circostanze, consente forse l’accostamento. Là, gli Argonauti, il cui ricordo la giustizia sembra dover cancellare. Qui, le moltitudini che affrontano viaggi altrettanto tragici alla disperata ricerca non di un vello d’oro ma di una vita degna o, più spesso, della sola sopravvivenza. E dei quali, al contrario, la mancanza di giustizia impedisce non solo il ricordo ma la visibilità.

A metà febbraio parto per fotografare le tracce lasciate dagli Argonauti invisibili che, dopo viaggi interminabili nel tempo e nello spazio, salpano dalle coste dell’Africa e dell’Asia per raggiungere l’Europa. Una sezione del numero del Q Code Magazine (Geografie) è infatti dedicata a coloro che, durante il viaggio, rimangono impigliati tra le isole spagnole, italiane e greche. Scelgo le ultime, ed in particolare le cinque isole tra Dodecaneso e Nord Egeo dove il governo ha aperto o progetta di aprire i nuovi ΚΕΔΝ (Strutture Chiuse e Controllate delle Isole) con i fondi dell’unione europea.

Le isole sono un luogo concentrazionario naturale: circondate dal mare, dimensioni più o meno contenute, accessi controllabili facilmente. Unico problema il turismo, che non deve essere disturbato.
Ed ecco allora che i centri sorgono in posizioni strategiche: le aree più inaccessibili di luoghi già di per sé isolati. 

Foto di Luca Musso

Difficile raggiungere a piedi qualsiasi agglomerato “umano”. Servizi pubblici quasi inesistenti. Ti muovi solo se riesci a procurarti una bicicletta o affidandoti agli operatori delle organizzazioni, internazionali o locali, che provano a rendere meno mostruosa una detenzione ingiustificata ed ipocrita.

I centri non sono segreti, anzi: il governo greco li esibisce con orgoglio. Perciò lo scopo non sarà “rubare” qualche scatto alle strutture di detenzione per dimostrarne l’esistenza o le condizioni (ma qualche foto l’ho fatta, sperando di coglierne l’atmosfera allucinata e distopica): cercherò invece i segni del passaggio di queste esistenze costrette all’invisibilità.

La Vatha

Come tutti i tassisti del mondo Michàlis ha voglia di chiacchierare e così, al termine del breve tragitto da Agìa Marìna a Lakkì, lui saprà che sono venuto qui per fare fotografie, che cerco tracce del passaggio dei migranti. Io invece saprò che di migranti, a Leros, ne sono rimasti ben pochi. Una ventina. Li hanno portati via quasi tutti. Come mai, chiedo? Perché non li vogliamo, risponde serafico Michàlis.

Di scenari simili (benché non così eclatanti), sentirò poi anche sulle altre isole. Diversamente da quanto mi aspettavo alla partenza, quindi, niente centri di detenzione stipati e blocco ad oltranza dei profughi sulle isole. I centri sono diffusi, in Grecia, anche in terraferma. E tutti, pare, dedicati all’isolamento di chi vi è costretto.

foto di Luca Musso – CLICCA SULLA FOTO PER UN APPROFONDIMENTO

A Leros ho trovato la Vatha. È ormeggiata a Lepida, presso il vecchio hotspot. La nave cisterna, partita dalla Turchia e diretta in Italia, è stata intercettata alla fine di ottobre 2021 a sette miglia dalla costa orientale di Creta con 382 persone ammassate sottocoperta, chiuse a respirare i miasmi del gasolio e dei propri escrementi.

Paranoie e servizi segreti

Il governo ostenta i centri modello ma fa di tutto perché il passaggio delle persone resti invisibile. Anche con comportamenti che non sembra esagerato considerare paranoici. 

Sempre a Leros, decido di andare a cercare tracce di passaggio nel vecchio hotspot, che si trovava nella struttura dell’ospedale psichiatrico italiano del periodo fascista. Provo a entrare, mi bloccano. Dopo qualche trattativa, rimbalzato tra due o tre uffici, fingendo di essere lì per l’architettura italiana dell’epoca, ottengo un permesso per l’indomani. Ma accompagnato dalla security dell’autorità ospedaliera, e niente foto. Una volta dentro, strappo il consenso per qualche fotografia. Con il divieto assoluto di riprendere alcuni edifici. Scambio altre due parole e qualche sorriso con chi mi scorta e riesco a fotografare dei murales su un edificio vietato.

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All’improvviso, scesi dal nuovo centro distante qualche centinaio di metri e che ci sovrasta, sbucano due addetti alla sicurezza che, dopo aver identificato sia me che i colleghi (con i quali nasce una discussione…), mi costringono a mostrare e cancellare le foto “proibite”. Mi aveva avvertito Nikita, isolano radicato ed introdotto, al quale avevo chiesto se tramite qualche conoscenza potesse agevolarmi l’accesso e che dopo un paio di giorni mi aveva consigliato di lasciar perdere, prospettando preoccupato la presenza di μυστικόι αστυνομικόι sull’isola. I servizi segreti sull’isola? Paura paranoica per un paio di murales che vengono fotografati? Incredibile, ma tristemente vero. Si può al riguardo leggere quel che racconta il giornalista Stavros Malichudis: i servizi segreti in allerta per i disegni fatti da piccoli profughi (e per i giornalisti che se ne occupano). 

Qambar

A Lesbo mi danno le coordinate di un angolo di terra dove vengono sepolti i profughi quando muoiono. A qualche centinaio di metri dal cimitero ”ufficiale” di un piccolo villaggio nella parte sud occidentale dell’isola. Ci metto non poco a trovarlo percorrendo sentieri sterrati in mezzo agli uliveti chiusi da reti. Attraverso un buco nella rete e lo trovo: una radura in mezzo agli ulivi. Ci sono tombe di vario tipo, più o meno “finite”. In qualche caso anche solo una lapide, in qualche altro una gettata di cemento. Forse verrà completata dopo. Mentre mi aggiro tra gli ulivi e le lapidi sento dei rumori e vedo arrivare un uomo con due bambini. Ha i tratti del viso vagamente orientali ma io, che non mi aspettavo di incontrare qualcuno, gli chiedo in greco se è il cimitero dei profughi. Lui non capisce e mi sorride gentile scuotendo la testa.

foto di Luca Musso

Mi sento uno stupido. I bambini si rincorrono, lui posa lo zaino, tira fuori un libro (mi immagino sia il Corano) e si siede accanto ad una tomba a pregare. Dopo un po’ gli chiedo se posso fare qualche foto. Indico la macchina fotografica, lui e i bambini. No problem, mi risponde con un sorriso lento, triste e accogliente. In quel no problem e in quel sorriso c’è tutto. Tutto insieme: la polvere dell’Asia e le onde dell’Egeo, la fatica, il dolore, la preoccupazione per i figli, la serenità della preghiera. C’era anche, mi è parso, una sfumatura di piacevole sorpresa per questo sciocco che gli si è rivolto in greco e si interessa a lui e ai suoi figli. Quando esco dall’uliveto-cimitero riattraversando il buco nella recinzione mi rendo conto che l’incontro mi ha molto scosso emotivamente. Saprò, poi, che Qambar viene dall’Afghanistan, è di etnia Hazara e ha perso la moglie, morta qui a Lesbo, pochi mesi prima.

Con Qambar vorrei poter parlare a lungo.

Respingimenti

Arrivo a Lesbo il 7 marzo. Qualche giorno prima, la mattina del 1 marzo, sulla spiaggia di Epano Skala sono stati trovati i corpi di sette persone. Νon indossano salvagenti e addosso non hanno né telefoni né documenti, due cose da cui chi vive in viaggio, o in fuga, non si separa mai. Non si trova neppure la barca. Le autorità pongono forti restrizioni (parentela diretta, costoso esame del DNA) per chi intende effettuare il riconoscimento dei corpi. Il sospetto è che siano vittime di un respingimento illegale finito nel peggiore dei modi.

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Cosa troverò, su questi ciottoli battuti dal mare,  che mi parli dell’ultimo approdo di sette persone che molto probabilmente sono state intercettate, private dei loro oggetti più importanti e forse ributtati in mare più o meno lontani dalla costa turca dalla quale erano partiti pieni di speranza? Niente e tutto. Su quel tratto di costa trovo scarpe, ciabatte, indumenti strappati, un metronomo. Oggetti che possono essere appartenuti a chi è appena stato portato via senza vita, oppure a qualcuno delle migliaia di vivi che attraversano terre e mari fuggendo dalla miseria, da una guerra o dalla persecuzione e poi vengono chiusi in un centro in attesa che una burocrazia soffocante e disumana decida se possono proseguire il viaggio e provare finalmente a vivere. Non posso saperlo. E allora decido che il segno del passaggio è il luogo stesso, questa spiaggia di ciottoli grigi, a ridosso di capannoni e ciminiere, sovrastata oggi da un cielo di piombo.

I respingimenti illegali ultimamente si moltiplicano. I migranti che arrivano sulle isole lo sanno, e sono terrorizzati. Devono riuscire a raggiungere i centri, a essere identificati, o anche solo semplicemente ad essere visti, prima che la polizia, spesso senza divise o contrassegni, i volti coperti dai passamontagna, li intercetti e li rigetti in mare, come se lo sbarco non fosse mai avvenuto. Alcune zone sono utilizzate dai profughi per nascondersi nella vegetazione, non appena arrivati.

Nella foto qui sotto, la zona di Samos teatro dell’eclatante testimonianza dell’europarlamentare  Cornelia Ernst: all’inizio di novembre del 2021, mentre era in corso  sull’isola un incontro con una delegazione della commissione LIBE, si è recata sul posto con l’avvocato Dimìtris Choùlis (che aveva ricevuto una segnalazione), trovando cinque persone di origine somala nascoste nei boschi. 

foto di Luca Musso – CLICCA PER UN APPROFONDIMENTO

La polizia, presente nell’area in forma più o meno ufficiale, è stata costretta a prendere in carico e registrare le persone che, altrimenti, sarebbero state probabilmente ricacciate in mare senza che del loro arrivo si avesse alcuna notizia. 

Attualmente il peggior timore degli invisibili è che il loro sbarco sia, esso stesso, invisibile.

Rouddy

Rouddy è un incontro di speranza. Musicista, lui stesso richiedente asilo, organizza corsi di musica e di canto per i bambini del campo, a Mytilini di Lesbo. All’interno dei locali dell’associazione locale Συνύπαρξη, un nome meraviglioso che significa Coesistenza, ha ricavato un piccolo studio di registrazione. L’ho conosciuto per caso Rouddy, non l’ho cercato. Ma poi mi rendo conto che lo avevo già incontrato poco prima, leggendo. Di lui si parla infatti in “des îles”, un bellissimo libro di Marie Cosnay, un po’ reportage, un po’ diario, un po’ poesia, che consiglio senz’altro (purtroppo al momento non mi risulta sia stato tradotto in italiano). 

foto di Luca Musso

Rouddy compone, suona, organizza concerti. Non è (più) invisibile. Ma gli anni dell’invisibilità e della paura lasciano il segno e Rouddy mi ha detto che nonostante tutte le sue attività, nonostante la musica, nonostante la vita che ora, forse, può cominciare ad immaginare (e lui immagina una vita al servizio degli altri, di chi si trova ad affrontare le stesse difficoltà che anche lui ha dovuto affrontare), l’unico posto dove si sente al sicuro -dove si sente fisicamente al sicuro- sono i locali dell’associazione, nei quali infatti passa la maggior parte del tempo.

La speranza e il disincanto

Elona è una persona speciale. Dolce e determinata al tempo stesso, è una volontaria di Operazione Colomba. L’ho incontrata a Lesbo ed è stata preziosa. Nei pochi giorni passati insieme mi ha socchiuso la porta delle esistenze di alcuni degli invisibili, rivelandole con tocco delicato per come sono: intense e vivide per quanto difficili e dolorose. Elona mi ha portato, sul lungomare a nord di Mytilini, a vedere la statua della Μικρασιάτισσα Μάνα (micrasiàtissa màna, la madre dell’Asia Minore). Rappresenta appunto una mamma con tre bambini; in cammino o, meglio, in arrivo. È dedicata ai profughi greci dell’Asia minore che all’inizio del secolo scorso, in un esodo che sconvolse la società greca, passarono con trasferimenti forzati dalla Turchia alla Grecia. Una tragedia per milioni di persone, raccontata anche in “Ματωμένα χώματα” (“Addio Anatolia”, Crocetti Editore, 2022) di Didò Sotirìu.

La statua è lì dal 1984 ed stata quindi poi inevitabilmente accostata ai flussi migratori che hanno interessato Lesbo negli anni più recenti. 

Un messaggio di speranza ed un simbolo dell’accoglienza? 

Un’icona, quindi, che dovrebbe contrastare le nefandezze dei campi di detenzione e dei respingimenti, della criminalizzazione dei migranti e di chi li difende? 

No, risponderebbe probabilmente Toula, responsabile di Offene Arme a Chios, la quale al riguardo non si fa troppe illusioni e mi dice: guarda come abbiamo trattato i nostri all’inizio del ‘900… perché dovremmo aspettarci che ora i Greci trattino meglio gli stranieri?

foto di Luca Musso

A Chios il mio viaggio finisce. Conosco bene quest’isola e l’ultimo giorno, in attesa di imbarcarmi, vado a passeggiare nel castro da dove, lungo i bastioni a Nord, la Turchia è molto vicina. Il castro di Chio mi appare allora come il simbolo di una “Fortezza Europa” che difende ottusamente se stessa dai migranti e li affronta come se fossero un problema di ordine pubblico, senza curarsi delle cause profonde del fenomeno e trovare soluzioni di respiro più lungo.

Torno a casa con delle fotografie che non hanno il tempo della cronaca incalzante. Non lo cercavo. Mi sembra invece che le immagini siano attraversate da tre tempi diversi: un tempo lungo, il tempo della terra greca che scorre nel mito ma in cui, purtroppo, alle volte le vite si interrompono; un tempo più rapido, cangiante, il tempo della rete, perché molti luoghi, oggetti e persone fotografate sono comunque collegate a fatti che occupano, proprio in queste settimane, lo spazio dell’informazione e della comunicazione; e ci vedo infine un tempo sospeso, il tempo dei migranti, dei profughi, dei richiedenti asilo. 

Un tempo, quest’ultimo, che ci permettiamo di rubare solo perché fame, paura o la speranza di una vita migliore spingono ad attraversare senza documenti gli stessi confini che armi e denaro superano invece impunemente.


Yahya, cinque anni, è partito dall’Afghanistan ed è morto durante lo sbarco su un’isola dell’Egeo. L’epitaffio sulla sua piccola tomba è una denuncia che non può e non deve essere ignorata:

“NON E’ STATO IL MARE, NON E’ STATO IL VENTO, MA LA POLITICA E LA PAURA”

foto di Luca Musso