Oggi Arance, domani pietre

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Betlemme. Al muro, trecento metri più a nord, i ragazzi stavano tirando grappoli di molotov e sciami di pietre contro le garitte, come tutti i venerdì da un mese a quella parte. Noi, che eravamo dentro una macelleria in Hebron road, sentivamo i tonfi sordi dei lacrimogeni che l’esercito israeliano sparava ad altezza uomo sussultando a ogni colpo.

Le strade, invece, erano piene di gente che entrava e usciva dai negozi di generi alimentari come se quello che stava succedendo a pochi metri da loro non esistesse. I ragazzini che arrivavano correndo con le kefiah strette sulla bocca, e si fermavano a farsi ripulire gli occhi pieni di lacrime dagli amici assiepati sul marciapiedi, ricevevano dai passanti la stessa scarsa attenzione che si presta alle foto di famiglia in salotto quando gli si passa davanti per andare in cucina a bere un bicchier d’acqua.

Era il quarto venerdì di proteste impegnative a cui assistevo ma, invece di farci il callo, sentivo i nervi che si tendevano in maniera ossessiva ogni volta che un rumore violento catturava la mia attenzione.

La settimana precedente un amico si era dovuto rifugiare in quella stessa macelleria, scappando dai soldati che in risposta ai lanci di pietre avevano deciso di inseguire i riottosi per il paese sparando candelotti a destra e a manca; lui se l’era cavata con qualche conato di vomito e un bel po’ di bruciore agli occhi, un ragazzino di Bayt Jala, invece, aveva avuto la testa spaccata da una manganellata e la chiazza di sangue che avevo visto sul marciapiede qualche ora dopo si era presto trasformata da ricordo in monito.

Faceva caldo e non mi ero portato la sciarpa, perciò le mie narici si erano irritate; l’odore acre della benzina bruciata, portato dal fumo nero spinto dal vento, sembrava rimanere appiccicato addosso.

Tutto brucia da questa parte della barricata, brucia il liquido delle bottiglie molotov quando si infrangono sugli otto metri di cemento che oscurano il cielo, brucia la spazzatura nei campi resi aridi dall’endemica mancanza d’acqua, brucia la pelle dei pastori cotta dal sole impietoso, bruciano gli occhi urticati dai gas dell’esercito israeliano, brucia il senso di sconfitta e la sensazione di impotenza, brucia l’insoddisfazione verso la propria classe politica, brucia la rabbia degli occupati.

Vivere di fianco al muro non è una cosa banale. Quando il governo israeliano presentò il progetto della fortificazione si affrettò a dire che uno degli obiettivi del programma di costruzione – oltre a quello di difendersi dagli attentati – era quello di ridurre le interruzioni alle vite ordinarie dei palestinesi, date dalla proliferazione eccessiva dei punti di controllo. 

Proprio così, per far meglio accettare l’idea di un muro di 730 km che avrebbe diviso le due entità territoriali, si provò a puntare sul fatto che dal 1967, all’indomani dell’occupazione dei Territori palestinesi da parte dello stato di Israele, la mobilità dei cittadini era limitata da un estenuante numero di posti di blocco. Il nuovo sistema di separazione, con pochi e tecnologici accessi, avrebbe migliorato la situazione si diceva.


Lo stato dei fatti, invece, ci racconta che, da quando la barriera è stata tirata su mangiandosi un tratto considerevole oltre il confine israeliano, un numero consistente di palestinesi è costretto a vivere in aree completamente circondate, tra il muro e la linea verde (il confine stabilito con l’armistizio del 1949, che mise fine alla guerra arabo-israeliana del 1948).

Perciò, da vent’anni, i palestinesi sono costretti ogni giorno a doversi confrontare con un sistema difensivo che, oltre alla palizzata di cemento, comprende porte corrazzate, un fossato che raggiunge i 4 metri di profondità, una strada che gli corre intorno fatta di sabbia liscia per permettere il rilevamento di impronte, torrette per i cecchini, telecamere e sistemi di rilevazione termica. L’installazione è poi finemente decorata con parabordi di filo spinato speciale che ne adornano il perimetro.

Le infrastrutture però non sono tutto, le forze di difesa israeliane (IDF) considerano zona chiusa la parte della Cisgiordania che si trova fra la linea verde e il muro e per questo gli arabi di Palestina non solo sono obbligati a sottostare a un confusionario sistema di permessi rilasciati dalle autorità israeliane per potersi muovere, ma sono di fatto impossibilitati a risiedervi. Tutto questo mentre i cittadini israeliani – e i turisti – possono tranquillamente rimanere nella zona chiusa, circolarvi liberamente ed uscirne senza avere bisogno di permessi. 

Il Checkpoint 300, che unisce Gerusalemme a Betlemme, e che quel giorno si trovava a non più di 400 mt da me, fa parte di questa particolare organizzazione del territorio e, sebbene non ci dica tutto su quello che, da taluni, è chiamato il regime dei checkpoint, è tuttavia illustrativo di una situazione peculiare.

Ogni tanto mi capitava di attraversalo dalla parte inversa, e questo succedeva ogni qual volta dovevo rientrare a Betlemme da Tel Aviv, poco meno di ottanta chilometri inframezzati da continui check point, talmente ripetitivi da divenire routine: posto di blocco in mezzo all’autostrada, due militari con più voglia di controllare i messaggi Whatsapp sul cellulare che di sincerarsi delle reali intenzioni di chi circola sulla strada e una procedura che si ripeteva sempre uguale a sé stessa.

Macchina che si ferma, finestrino aperto, bocca del mitra nell’abitacolo, testa del militare che si sporge a guardare dentro, un paio di mani che passano dei documenti, un altro paio di mani che li prendono, qualche parola detta tra i denti e i minuti che se ne andavano, assieme alla speranza di arrivare in Cisgiordania col bus.

Quando riuscivo a procurarmi una macchina, infatti, era sempre una macchina israeliana e quella doveva restare a Gerusalemme anche se, passate le dieci di sera, non c’era mezzo pubblico, né taxi, che potesse portarmi al di là del muro; perciò ero costretto a rientrare a piedi attraverso il Chekpoint 300, mettendomi in fila con tutti gli altri, stretto nell’imbuto che si formava di fronte al primo blocco di tornelli.

Per passare dall’altra parte ci sono tre tunnel situati l’uno accanto all’altro, uno è la corsia umanitaria che, in orari specifici, può essere utilizzata da gruppi selezionati (donne, bambini e anziani) per evitare la pressione delle grandi folle ammassate nella corsia principale, gli altri due sono riservati alla gente comune.

Là, i tornelli sono realizzati con bracci in acciaio che sono circa 20–25 cm più corti rispetto ai bracci comunemente usati in Israele, in modo che possano facilmente premere contro il corpo dei pendolari, creando un malsano intreccio tra anime e materia. Dall’imbuto si poteva passare soltanto uno per volta, per questo si formava spesso una lunga coda che avanzava lentamente sotto l’occhio vigile dei soldati dell’IDF che, dall’alto, sorvegliavano tutti con i Galil d’ordinanza spianati. 

Quella sera in Hebron road di fucili d’assalto non se ne vedevano, ma quegli stessi soldati non si fecero remore a sparare candelotti ad altezza d’uomo contro gruppi di adolescenti il cui esponente più maturo avrà avuto non più di diciassette anni. 

Io, nonostante la voglia di capire quando e come tutto quel trambusto sarebbe finito, decisi che di gas ne avevo respirato abbastanza e, non appena il fumo si diradò a sufficienza, me ne andai. Casa mia si trovava esattamente dietro la Basilica della Natività, per arrivarci si doveva attraversare Manger Square e poi girare a sinistra, scendendo un ripido blocco di scale.


Quando imbruniva, la piazza era spesso silente, con le luci verdi del minareto a fronteggiare la croce cristiana della basilica, anch’essa accesa, ma illuminata di bianco. Negli ultimi tempi i tavolini del bar gestito dalla Custodia francescana di Terra santa erano vuoti, in momenti di calma pellegrini e avventori si assiepano in giardino sorseggiando qualche bevanda e godendosi lo spettacolo della chiesa senza la calura del giorno ma, da quando la tensione era iniziata a salire, non si vedeva più nessuno. Quella sera, però, un nutrito gruppo di bambini vocianti spezzava il solito mortorio, nell’aria infatti si potevano sentire alte grida di festa che seguivano tonfi mollicci di cui era difficile comprendere la provenienza.

Avvicinandomi capii: una decina ragazzini si avvicendava nell’uso di una singola, ma ben costruita, frombola di pelle, a turno uno di loro la caricava con una grossa arancia e un altro provava a colpire il muro della basilica 100 mt più a nord; quando qualcuno ci riusciva tutto quanto il gruppo esplodeva in urla di gioia. Ecco spiegati i tonfi mollicci.

Tra loro riconobbi Mohamed, il figlio seienne del panettiere di fronte casa, correndo venne da me e, col poco bagaglio di arabo che avevo acquisito nel corso di anno, riuscii soltanto a comprendere: “Oggi arance, domani pietre”.

Dario Nincheri

Archeologo, ha vissuto a Betlemme e in Galizia. Ha collaborato con Nena news, Slow news, Rolling Stone Italia, Arab Pop e Irpimedia. Nel 2020 ha pubblicato "Al-Hurryya - الحرية - Storie d'amore, di guerra e di anarchia" per Eretica edizioni.

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