Dalla moda al sociale, la fotografia di Simona Filippini

Dopo il fotografo tedesco Boris Eldagsen con il quale abbiamo affrontato temi attuali come l’AI e le immagini con essa generate, torniamo in Italia per occuparci di fotografia al femminile incontrando Simona Filippini, fotografa romana di grande esperienza, finalista al premio Terna, che sarà in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 27 Settembre al 15 Ottobre. Di prossima uscita con un bel prodotto editoriale, esito di un incarico condiviso con i colleghi Yvonne De Rosa e Alfredo Corrao, da parte della Società Energred, sulla documentazione fotografica nel Comune di Villetta Barrea durante il ripristino della centrale idroelettrica.

Partiamo da un po’ di storia: quando hai iniziato a praticare la fotografia?

Ho iniziato verso i venti anni. Mi sono iscritta all’Istituto Superiore di Fotografia ed ho frequentato per due anni e poi sono stata dai 23 anni ai 27 in Francia dove ho lavorato come assistente di Paolo Roversi, poi ho cominciato a lavorare come fotografa freelance facendo avanti e indietro con l’Italia. Poi nel 1993 sono andata a Palermo per sei mesi per seguire tutte le cerimonie di commemorazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio; vendevo le foto in Francia e scattavo a Palermo. Ho cominciato come assistente di Paolo Roversi perché erano gli anni in cui la moda era forse l’aspetto della fotografia più effervescente: io mi ero innamorata delle sue luci, delle sue sfumature di colore però poi dopo l’esperienza di due anni ho capito che ero più interessata ai ritratti e al reportage. 

Il rapporto con la fotografia c’era anche nella tua famiglia o è stata una cosa tua personale? 

C’era, in modo molto forte, perché vengo da una famiglia, dalla parte di mio padre, dove i miei nonni sono stati pionieri della pubblicità esterna e hanno fondato nel 1948 una società che realizzava grandi insegne luminose partendo da zero: non era il loro mestiere e si sono inventati questa azienda che in pochi anni è diventata leader in Italia.

Insegna Martini dell’azienda familiare

C’era quindi la mania della fotografia, mio padre era maniaco della fotografia… C’era sempre in giro in casa la macchina fotografica, non solo: addirittura la prima volta in assoluto in cui io ho fotografato è stato all’età di dieci anni all’Isola del Giglio, nel 1976. Freda e Ventura, i terroristi imputati per la strage di Piazza Fontana, vennero mandati in soggiorno obbligato là e ci fu un evento pazzesco: i gigliesi ostruirono l’ingresso del porto al traghetto facendo una cordata di barche; allora io, che avevo dieci anni esatti, era il 28 agosto 1976, ero sul molo con mio padre e ho scattato una foto. Probabilmente la mia grande passione, la voglia di trovarmi nei posti dove succedono le cose si è scatenata anche da quello. Successivamente mia madre e mio padre hanno divorziato e quindi mio padre che non era molto avvezzo a stare con noi figli, ad un certo momento si inventò questa abitudine di portarci in giro a fotografare; io ero adolescente, i miei fratelli un po’ più piccoli e ci portava ad Ostia con le macchine fotografiche. La mia passione per la fotografia viene da là.

Isola del Giglio_Agosto 1976 Freda e VenturaCA©Simona Filippini

Invece per quanto riguarda la parte formativa dell’Istituto Superiore di Fotografia e un po’ in generale, ci sono stati maestri in questi campo o che magari senti tali per la tua formazione, provenienti anche da altre arti? Quali sono stati i tuoi maestri?

Sicuramente devo ringraziare una bravissima professoressa di storia dell’arte delle medie, la . Poi ho finito il liceo classico, mi ero iscritta a lettere e per una serie di questioni ho abbandonato e mi sono laureata recentemente a cinquant’anni. L’Istituto Superiore di Fotografia era una scuola molto diversa da quelle che possiamo vedere oggi, era molto concentrata sulla fotografia professionale, molto still-life pubblicitario, moda e non c’era l’attenzione che c’è oggi invece alla scoperta del talento e del linguaggio di ogni fotografo. Si faceva poco reportage quindi io ad un certo momento ho deciso di non finire i tre anni, di farne due e di andare a Parigi perché sentivo che questo tipo di formazione mi stava un po’ stretta. Premetto che dal punto di vista pratico era una scuola perfetta perché ho imparato in quella fase a fare tutto: tutto quello che riguardava la tecnica. È stata una formazione molto completa, meno sullo sguardo di ogni fotografo.

Questo sguardo si è formato più tardi a Parigi? 

Assolutamente, a Roma negli anni ’86-88 c’era forse una sola galleria che esponeva la fotografia, all’Istituto Superiore di Fotografia non c’era una biblioteca, quindi io sono arrivata a Parigi e lì nello studio di Paolo Roversi c’era una parete intera, anzi due, piene di libri. A Parigi ho visitato tantissime mostre fotografiche, c’era già una cultura relativa alla fotografia che non è minimamente paragonabile.

Ci puoi raccontare come è avvenuto il trasferimento a Parigi? Come hai scelto Roversi? Come avvenne questo passaggio?

Mi ero innamorata delle sue fotografie, delle sue sfumature, di questa poesia, di questa capacità di cogliere ogni nuance dei colori e questa relazione con le modelle che io attraverso le fotografie che lui realizzava intuivo. Poi dopo, lavorando con lui, ne ho avuto proprio la prova e quindi alla fine del secondo anno della scuola sono andata in vacanza con delle amiche e ho incontrato una persona che mi ha detto: «Io conosco Paolo Roversi», ed io: «Ti prego organizzami un incontro». Sono quindi andata a Ravenna per incontrarlo, lui molto generosamente ha accettato di incontrarmi e poi mi ha salutata dicendo: «Se vieni a Parigi passa a trovarmi a studio». A settembre sono quindi andata a Parigi e ho cominciato a chiamarlo tutti i giorni. Lui mi diceva «Guarda che io ce l’ho l’assistente, non mi serve, ti ringrazio molto». Alla fine dopo un mese e mezzo, mi ha detto: «Matteo, l’assistente, non sta bene, se puoi venire tu…», e io mi sono precipitata. 

Paolo Roversi e Isabella Rossellini, set Lancome 1, Parigi 1990 ©Simona Filippini

Parlavi già francese? 

No, a scuola avevo studiato l’inglese e me la cavicchiavo. Per fortuna ho molta facilità con le lingue, nell’arco di tre mesi ho raggiunto l’autonomia linguistica col francese. Dopo quattro anni addirittura mi prendevano per marsigliese perché capivano che ero qualcuna che veniva da sud, era molto divertente. Ero una ragazzina di ventitré anni e lì era una sorpresa continua: un giorno suonava la porta ed era Linda Evangelista, il giorno dopo era Eva Herzigova che l’ho vista quando aveva diciott’anni, stupenda, una ragazzina timidissima. Un giorno entrava Isabella Rossellini, il giorno dopo Bianca Jagger… Chiaramente facevo tutto, montavo i fondi, allestivo le luci, apparecchiavo, sparecchiavo e  lavavo i piatti, cosa che trovavo e trovo terapeutica.

Come avevi intercettato il lavoro di Roversi?

Soprattutto dai redazionali di moda. All’epoca non c’era una grande editoria legata alla fotografia se non quelle riviste che erano quasi più “maschili”, nel senso che c’erano sempre donne nude in copertina. L’Istituto Superiore di Fotografia ci spingeva molto in quella direzione perché erano gli anni ‘80 e i giornali di settore erano tanti, c’era la possibilità di fare advertising e fashion. Se uno diceva “voglio fare reportage” sembrava strano, soprattutto se era una donna.

Tra le tante donne che hai fotografato c’è anche Jane Birkin, recentemente scomparsa: ci vuoi raccontare qualcosa di quello shooting? Un ricordo? Come si poneva davanti all’obiettivo? 

In quell’anno lì, credo fosse l’89, mi ero messa in testa di andare a Cannes. Mi sono portata dietro la Mamiya 6×7 che è una macchina di medio formato dove si guarda a pozzetto; mi piazzo lì a Cannes dalla mattina alla sera per una settimana e fotografo una serie di persone: Raymon Depardon, Sandrine Bonnaire, Valeria Golino, Gianni Amelio, I fratelli Taviani, facendo tipo la “paparazza” solo con la Mamiya. 

Bianco e nero?

Tutto negativo bianco e nero.

Jane Birkin, Cannes 1989©Simona Filippini

Questa è la linea che avevi con Paolo Roversi?

No, Paolo era tutto polaroid colore. Questa è proprio una cosa mia perché mi ero messa in testa di fare una serie di ritratti di personaggi anche per vincere un po’ la paura di trovarsi davanti alla persona famosa. Alla fine, oggi, ho una carrellata di personaggi abbastanza importanti tra cui per esempio Fellini da cui sono andata insieme alla giornalista Marilisa Trombetta (giornalista del Tg2 che si occupava solo di cinema all’epoca) che mi ha detto: «Vuoi venire con me mentre intervisto Fellini?», «Guarda io vorrei tanto fotografarlo», «Provaci, lui è forastico». A Roma quel giorno sono arrivata sempre con Mamiya e ho chiesto «Maestro la posso fotografare?», e lui molto scontroso, «Va be’, una foto» e io dico «Guardi, lì c’è l’edera se si può mettere là», «Ah, vuoi fotografare me o l’edera?». Mi terrorizzò!

Federico Fellini, Roma 1989©Simona Filippini

Per tornare a Jane Birkin l’ho trovata lì a Cannes in un ristorante. Sono entrata e semplicemente ho domandato: «Madame, scusi posso farle qualche foto?», e lei che non era neanche truccata con questa maglietta semplicissima, ha accettato. La sequenza è di sei fotografie soltanto: la cosa bella della Mamiya è proprio questa, negativo b/n e il rullino 6×7, tu hai 10 scatti. Non come adesso che in digitale fai 6000 foto. Era un ottimo esercizio sia dal punto di vista della rapidità di esecuzione, sia dal punto di vista del relazionarsi con persone giganti, e lei si è fatta fotografare molto sorridente e molto fresca.

Che effetto ti ha fatto in queste ore ripensare a quello scatto

Quando tu cominci ad avere un certo archivio, una certa età e mano a mano le persone muoiono questo fa tristezza perché poi con lei non è che c’è stata una relazione. È stato molto scioccante l’altro giorno quando ho appreso della sua morte anche perché era forse più di altri una donna che, pur mostrandosi sempre con grande naturalezza, tutti noi continuavamo a percepire  giovane.

Che cosa ti ha fatto poi tornare a Roma e non andare magari altrove? Che direzione ha preso la tua fotografia in quel momento?

Nel ‘92, quando uccidono Falcone e Borsellino, mi dico: «L’anno prossimo vado per fotografare le commemorazioni della loro morte», e così ho fatto. Poi che succede? Succede che quando vivi quattro anni in un paese straniero, dopo quattro anni devi prendere una decisione o tu decidi di vivere lì o torni indietro. I tempi erano maturi per fare una scelta. Io sono tornata in vacanza e mi sono innamorata di un italiano che poi è diventato mio marito. 

Manifestazione di fronte all’aula bunker, Palermo 1993©Simona Filippini

Potremmo dire: la morte e l’amore ti hanno riportato in Italia? 

Si, un po’. Oggi penso molto a questi ragazzi che vanno fuori a studiare. Penso ai miei lavori sui migranti. Ho dei documenti sui cui c’è scritto: “Emigrata in Francia”. Chiaramente io non mi sentivo un’emigrata per niente, rispetto all’idea che abbiamo noi oggi dei migranti, però effettivamente non è una cosa scontata vivere, lavorare in un Paese che non è il tuo, dove la cultura non ti appartiene, dove ti mancheranno tantissime cose, ti mancheranno sempre le sfumature. Diverse cose mi hanno fatto dire: «Torno in Italia». Lavorativamente tornare a Roma non è stato facile. Ho avuto due figli e anche lì non è una cosa scontata partire per i reportage perché mentre un fotografo maschio  più o meno continua a fare la vita che faceva prima, l’attività di una fotografa/mamma, in un paese totalmente privo di welfare, è molto molto limitata.

Via Prenestina, 2001©Simona Filippini

Con quale tipo di supporto fotografico preferisci lavorare? 

A me piace molto sperimentare tutto, ovviamente lavoro con il digitale adesso, anche se ho fatto molta fatica perché il digitale è arrivato nei primi anni 2000 ed era proprio il momento in cui io ero ai “domiciliari” (come dico io) con due bambini abbastanza piccoli. Quando sono riemersa da questa situazione mi sono resa conto che la pellicola quasi non esisteva più e che bisognava imparare questo nuovo sistema: l’ho detestato all’inizio e ancora oggi nutro qualche riserva. Mi sembra sempre di non aver realizzato delle fotografie, quando ho il negativo sono più tranquilla. Ho lavorato con la polaroid, col 35mm, ho lavorato col banco ottico, un po’ con tutto. Da Paolo Roversi si lavorava solo col banco ottico 20×25. Lui all’epoca lavorava solo con questa macchina fotografica che si chiama Deadorf, una fonder spettacolare… usavamo polaroid 20×25 cm che oggi non esistono più. 

Dovendo immaginare di partire domani per un viaggio quale macchina metteresti in valigia?

Se la possedessi metterei solo una Laica Q2, una mirror less di estrema qualità. In studio invece sono felice di continuare con la Mamiya, con il negativo. Se no mi porterei una Nikon FM con negativo b/n, se dovessi partire per un viaggio mio e non per uno commissionato.

Durante la pandemia hai realizzato un progetto molto bello che ha coinvolto anche i tuoi cari e che pubblicavi con una cadenza regolare su Facebook: ti andrebbe di raccontare che cos’è fotografare persone che appartengono alla nostra intimità?

Abbiamo vissuto un’esperienza al limite in quei mesi. Io ho fotografato i miei figli quando erano più piccoli, facendo dei progetti su di loro, però non avevo questo sguardo rivolto verso di noi così come hanno oggi molte delle fotografe donne, non avevo quest’attenzione all’autoritratto. Nel caso del Covid mi sono sentita fortunata in un certo senso a vivere quell’esperienza e di viverla tutti e quattro insieme, perché poteva succedere che ci trovassimo distanti. E ho detto loro: «Facciamo questa sfida che dobbiamo fare un ritratto di famiglia al giorno, magari qualche giorno non vi va ed io la risolvo in un’altra maniera però l’idea è questa: ci state?». Dopo un po’ l’hanno presa come un gioco e devo dire ci sono stati, i miei figli sono molto buffi, molto simpatici, e anche mio marito è stato al gioco. Dei giorni succedeva che magari la fotografia mi veniva subito perché avevo un’intuizione, un’idea o una luce; certi giorni invece magari arrivava la sera e ancora questa foto non era stata realizzata e allora le persone che ormai mi seguivano sui social carinamente mi mandavano i messaggi: «Che è successo? Come mai ancora non hai pubblicato? State male?». Adesso molti mi hanno detto: «Ma ancora non hai fatto un libro, una fanzine…». Io sono un po’ lenta in queste cose, poi subito finita la pandemia ne sono stati pubblicati tanti di questi progetti e quindi ho rinunciato, ma magari prima o poi farò qualcosa.

Family at Home_53 lockdown Day_Rome_02_05_20©Simona Filippini

Tu sei anche un’insegnante da molto tempo: cosa significa per te farlo e in che modo si concilia o si scontra col tuo lavoro più artistico? Cosa pensi di dare, di aver dato e di ricevere nel rapporto coi tuoi allievi?

Io ho bisogno di tutte le dimensioni, mi piace avere diverse dimensioni nella mia vita. Insegnare è stata una cosa alla quale ho iniziato a pensare nel 2007, dopo aver finito un progetto a Napoli. Mi ero molto legata al quartiere Forcella, e quindi sono andata a parlare con la dirigente scolastica e le ho detto: «Se vuoi torno l’anno prossimo un giorno a settimana» ed è nata questa esperienza. Quello con i bambini non è proprio insegnamento: già all’epoca, ma adesso sempre di più, questi ragazzini imparano quasi prima ad inquadrare il mondo che a parlare. Siamo di fronte a delle generazioni che sempre più si stanno spostando sul visuale ed hanno un modo di concepire e fruire del mondo totalmente diverso da quello che avevamo noi. Tu non devi dire ad un bambino come fare una fotografia perché semmai è lui che ti insegna qualcosa dal punto di vista creativo, che ti mostra un punto di vista diverso, quindi è estremamente stimolante.

Con l’associazione Camera 21 che ho fondato nel 2008 realizzo dei percorsi di educazione all’immagine dedicati ai ragazzini già della 5a elementare ma soprattutto delle medie e anche del liceo; al liceo facendo anche dei percorsi legati alla storia e all’apprendimento della storia attraverso la fotografia, perché loro memorizzano molto più facilmente e sono più interessati al fatto storico se glielo contestualizzi con delle immagini fotografiche e anche io imparo tantissimo perché il gap tra noi è enorme con l’accelerazione che noi abbiamo vissuto in questi anni rispetto alla produzione di immagini rispetto alle fiction, al cinema.

Tu fai parte dell’Associazione delle Fotografe Italiane: perché c’è bisogno che le fotografe donne italiane si associno? Cosa dovrebbero fare le donne nella fotografia e soprattutto cosa la fotografia può fare per le donne?

Io ne faccio parte, benché sia molto impegnativo lavorare a progetti condivisi, perché ritengo che ancora oggi ci sia una grande difficoltà da parte delle donne ad accedere a determinate professioni, a determinati premi e incarichi. Insomma, è complicato e soprattutto c’è ancora molto da fare sulla rappresentazione delle donne, su come si rappresenta il corpo delle donne, su come noi donne vogliamo essere rappresentate, della libertà che possono avere le donne nel mostrarsi esattamente come sono perché è ancora oggi un tabù. C’è ancora un grandissimo lavoro da fare molto molto importante. Non è vero che queste cose sono state risolte o acquisite; è sotto gli occhi di tutti quello che sta succedendo in termini di femminicidi, in termini di rispetto del corpo anche delle studentesse a scuola. Abbiamo realizzato un progetto nel 2010, come associazione Camera21, che si chiamava “Femminile plurale” dove abbiamo allestito un set fotografico alla Casa Internazionale delle Donne, io  Eva Tomei e Sveva Bellucci e abbiamo mandato un invito su internet indirizzato alle donne di tutte le età a venire a fotografare la parte nuda del proprio corpo che ognuna preferiva di sé. E questo è stato fatto come una staffetta: la madre fotografava la figlia, l’amica fotografava l’altra amica con il nostro supporto. Fondo bianco, quindi fotografie semplicissime, per mostrare che se non parte da noi questa volontà di mostrarci così come siamo, se noi siamo le prime che in qualche modo ci creiamo il problema dell’aspetto fisico, del difetto ecc ecc. Questo è già un argomento di cui si parla molto di più oggi.

Air Terminal Ostiense, 2000©Simona Filippini

C’è quindi un aspetto sociale, culturale ed etico importante rispetto a questa cosa?

C’è soprattutto un aspetto che riguarda la rappresentazione delle donne che hanno più difficoltà di noi ad essere rappresentate. Quindi per esempio sono state organizzate delle mostre fotografiche di fotografe afghane piuttosto che altre attività che non parlano di noi ma di culture dove le donne hanno ancora meno libertà rispetto alle italiane di oggi.

Per tornare di nuovo al tuo passaggio dalla Francia all’Italia, è sbagliato dire che la tua fotografia e quello che stavi vivendo era più indirizzato verso un altro tipo di tematiche che invece hai capito essere più forti, (vedi appunto il tuo racconto sulla morte di Falcone e Borsellino e quindi che in modo più semplicistico chiamiamo una fotografia sociale) sei andata poi a costruire maggiormente? Forse per poterlo fare dovevi usare l’italiano?

Questo senz’altro è successo ma la lingua ad un certo punto non è stata più un problema per me. Io mi sono dedicata ad un’impostazione più sociale della fotografia perché innanzitutto mi sono resa conto che l’ambiente della moda non era il mio ambiente. Mi interessa la fotografia che mi fa conoscere delle storie, che mi fa conoscere le persone, che mi fa capire le cose e quindi a 26-27 anni con l’esperienza di Palermo mi sono resa conto che era più quel tipo di fotografia di cui mi volevo occupare; probabilmente ancora oggi è questo.

Capaci_Manifestazione_Maggio 1993©Simona Filippini

Ma la destinazione finale di questi lavori al tempo e quelli di oggi erano i giornali, era la cronaca oppure un’altra?

All’epoca la destinazione finale erano sicuramente alcune riviste, premesso però che io contemporaneamente producevo una mole importantissima di lavoro professionale. Ho fotografato per anni per la Compagnie des Wagon-lits e tutti i servizi sui treni, ho fotografato per anni insegne luminose, ho lavorato per l’Arca Camper SPA, per cui ho fotografato camper per dieci anni. Avevo due figli e non potevo andare in giro a fare reportage e guadagnare zero (perché all’epoca già si guadagnava poco), facevo i book e ritraevo le persone; questa è stata la parte fondamentale del mio lavoro professionale che mi ha sempre divertito tantissimo, che ha sempre nutrito la parte più investigativa, più di fotografia sociale, più di progetti personali (se vogliamo chiamiamoli artistici). Io penso che tutto abbia funzionato come vasi comunicanti, tutto è servito a tutto in qualche maniera.

Un lavoro per te particolarmente importante che ci consigli di andare a vedere?

Un progetto al quale sto ripensando perché ne vorrei creare una versione “2” si chiama “Di lei, donne globali raccontano”. È un progetto realizzato nel 2008 o 2009 dove ho dato le macchine fotografiche a dieci donne che provenivano da paese extracomunitari e che lavoravano presso famiglie italiane e che, col consenso delle famiglie stesse, per tre mesi hanno fotografato il quotidiano all’interno di quelle case. Questo è un lavoro molto molto lungo, con uno spostamento del punto di vista: noi abbiamo nelle nostre case, nelle nostre famiglie, persone che vengono dall’Africa, dall’India, dal Bangladesh, dall’Ucraina e però non consentiamo a queste persone di raccontarci. Siamo sempre noi che portiamo avanti la narrazione delle persone straniere, dei migranti; ancora oggi abbiamo un problema grande col diritto di cittadinanza nel nostro paese. Ho voluto creare questa situazione in cui il punto di vista fosse totalmente ribaltato nell’intimità di una vita di famiglia. Per esempio: noi facciamo un viaggio in Africa o in India e da fotografi o da persone munite di cellulare fotografiamo le persone, i bambini e poi mettiamo queste foto su internet oppure ce le incorniciamo e le mettiamo a casa assolutamente non rispettando il diritto di questa persona che è stata fotografata a conoscere la destinazione di questa fotografia.  C’è quindi tutto un discorso sullo sguardo verso l’altro, su come approcciare all’altro, di come questo sguardo possa essere reciproco. Di questo progetto vorrei farne una seconda edizione perché con queste signore sono rimasta in contatto, sono passati oltre dieci anni, quindi loro hanno cambiato la loro vita; alcune hanno cambiato mestiere e mi piacerebbe continuare la narrazione più sulle loro vite personali, su come si sentono ormai residenti da tanti anni in Italia: come vivono questa evoluzione della loro vita in Italia?

Un progetto come questo pensi di poterlo fare in totale autonomia o senti di aver bisogno di una struttura, di un’associazione o di bandi per poterlo realizzare?

Sicuramente ho bisogno di soldi perché voglio farne un libro.

Dove sta andando la fotografia contemporanea secondo te e dove sta andando Simona Filippini?

Non lo so, non ne ho idea. Se vogliamo accennare al discorso dell’intelligenza artificiale che è il grande argomento di oggi, per me non è fotografia perché non è qualcosa che viene realizzata grazie ad un dispositivo fotografico. La fotografia per me resta qualcosa che si realizza anche con un cellulare, però con uno strumento capace di catturare la luce e l’I.A. non fa questo. È arte se vogliamo, ma non fotografia.
Dove sto andando io? Io sto andando sempre più verso progetti legati a determinati territori dove si possa veramente interagire con le persone, dove la fotografia possa avere un ruolo anche di utilità rispetto ai destinatari. Mi piace lavorare con le comunità di ragazzi, con le comunità di adolescenti per far sì che lo strumento fotografico possa essere una cosa utile a loro per capire delle cose di loro stessi, capire delle cose del mondo. Sempre più poi sono attratta dall’analogico, nel senso che fotografo in pellicola forse perché questo futuro mi spaventa e quindi faccio un passo indietro e torno alla domanda… Non lo so cosa sta succedendo. Fotografo in pellicola e faccio fotografare in pellicola anche i miei studenti e devo dire che loro si entusiasmano rispetto a questo, quando entrano in camera oscura impazziscono di gioia perché è veramente una dimensione di mistero, di magia. Quando appare l’immagine, i ragazzi di tutte le età percepiscono questa magia. E mi sento di dire che questa è la mia fotografia. Una fotografia che possa essere utile con dei piccoli interventi nei territori dove c’è bisogno, presso delle comunità che non hanno facilità ad accedere a certe informazioni.

Corso di fotografia CARA2017©Camera21

Quando la fotografia è nata ha permesso alla gente comune, alla borghesia, di avere una traccia di esistenza perché avere un ritratto pittorico in casa se lo potevano permettere in poche persone e spesso non si conosceva il volto dei propri nonni, visto che si moriva in età giovanissima: oggi siamo in un’epoca opposta rispetto a questo e il diritto all’immagine ce l’abbiamo tutti ma manca qualcosa (anche se i nativi digitali hanno una maggiore consapevolezza di poter inquadrare): qual è il salto che secondo te dovremmo fare? Una maggiore visione sociale? Aldilà del materiale…

Il materiale secondo me non è secondario ma anche darci più tempo di capire le immagini perché secondo me questo è il grande tema: siamo circondati da miliardi di immagini al giorno, ma poi vanno capite. Lo vedo con i miei ragazzi dello IED, dove insegno Storia della Fotografia e Storia della Fotografia di Moda, sono studenti universitari. Li  metto davanti ad un’immagine e li costringo a ragionare: «Perché è stata scattata? Da chi è stata scattata? Perché è stata pubblicata? Perché quella e non un’altra?». Già porsi queste domande davanti a un’immagine ci consente di prendere una distanza critica rispetto al documento; già fare questo secondo me, con i ragazzi di oggi e anche noi stessi, mi sembrerebbe un compito interessante. Io forse, oggi, la fotografia la osservo più da fruitrice che da produttrice di immagini.

Puoi raccontarci della tua foto mancata?  

La foto mancata è questa scena cui ho assistito quando ero assistente nello studio di Paolo Roversi a Parigi, si doveva realizzare un’immagine di moda e arriva questa modella, musa di Paolo che si chiama Kirsten Owen,  ha i capelli lunghi, biondi e sento che Paolo confabula col parrucchiere e con la stylist e insomma cominciano a pensare che per questo abbigliamento che lei avrebbe dovuto indossare sarebbe stata perfetta con i capelli cortissimi e sento che le vogliono parlare per domandarle se fosse possibile tagliarle i capelli e alla fine, in questo studio bellissimo a Parigi, dove entrava una luce laterale, col parquet per terra, c’era lei seduta al centro col parrucchiere che le girava attorno per tagliarle i capelli; lei era stupenda ma tutta la situazione lo era, sembrava molto ovattata. Io avevo più o meno la sua stessa età ed ero molto in empatia con tutte le modelle che arrivavano a studio perché eravamo pressoché coetanee, ed io avrei voluto fotografare il momento molto intenso durante il taglio di capelli, però non potevo perché in qualità di assistente non me la sentivo anche se qualche bella foto l’avevo scattata.

L’avresti fatta in bianco e nero questa foto? Le avresti chiesto di guardarti in macchina o nello specchio?

Forse l’avrei fatta a colori perché l’ho vista a colori e quindi l’avrei scattata così e forse avrei semplicemente documentato questa cosa come avveniva come se io fossi quasi assente, perché c’era proprio un’alchimia con lei, che vedevo sofferente per questa scelta e questo parrucchiere che le girava intorno, anche con un carico di responsabilità. Vivevo la scena come se fossi davanti ai gesti di una suora che prende i voti, come nel film Therese del 1986 di Alain Cavalier.

Simona Filippini, Parigi 1991©Paolo Roversi

Di Filippo Trojano con Riccardi Abati, Laura Altobelli, Patrizia Buffone, Dario De Biaggio, Giuliana Pizzuti.