Al centro di Generi, il primo numero del trimestrale di geopoetica di Q Code, c’è il portfolio fotografico di Melissa Ianniello: “My girl is a boy”. Un progetto fotografico, la storia di Davide, ragazzo trans, nella cornice di una storia d’amore che viene meno. Leonardo Brogioni ha intervistato la fotografa: pubblichiamo di seguito l’intervista completa.

In un recente intervento hai detto che “questo progetto fotografico parla di un ragazzo trans nella cornice di una storia d’amore che viene meno, quella tra me (ragazza e attivista lesbica) e Davide (ragazzo e attivista trans)“, ci racconti meglio la genesi del lavoro e questa cornice in cui si é sviluppato?

Eravamo all’inizio del primo lockdown da Covid-19. Io e Davide eravamo appena andati a convivere. Tutto era come fermo, immobile – hai presente la sensazione, no? L’abbiamo vissuta tutti. Dunque, cercavo disperatamente di tenere attivo il cervello. Avevo bisogno di fare, di produrre. Come fotografa, mi risultava naturale prendere in mano la macchina fotografica. Avevo solo bisogno di un tema: quel che sapevo per certo è che non volevo fare un lavoro sul Covid: semplicemente, non mi interessava raccontarlo. E fu così che successe: una sera, Davide mi comunicò che avrebbe iniziato ad assumere testosterone. Lì per lì, lo ammetto, rimasi spiazzata. Sapevo di stare con un ragazzo trans, sapevo che Davide, pur avendo il corpo di una persona di sesso femminile, si percepiva e autodeterminava come uomo. E, d’altra parte, io come tale lo guardavo e rispettavo. Fin dal principio, fin da quando ci presentammo la prima volta e al suo “piacere, Davide” io registrai esattamente “questa persona è un lui e si chiama Davide”. Tuttavia… tuttavia, ammetto, quando Davide mi ha comunicato la sua decisione in merito al testosterone io sono rimasta spiazzata. Sono un’attivista lesbica, all’epoca innamorata di un ragazzo trans, attivista LGBTQIA+ anche lui, e proprio perché entrambi provenienti dagli ambienti dell’attivismo politico, parlavamo spesso, anche tra noi, di tanti temi riguardanti il mondo LGBTQIA+. Spesso alcuni temi toccavano la nostra coppia più da vicino e tra questi c’era, sicuramente, il tema della transizione. Probabilmente il motivo per cui lì per lì rimasi spiazzata fu che nei primi mesi della nostra relazione Davide affermò diverse volte che non avrebbe fatto uso di ormoni. Ci si può infatti autodeterminare come persone trans anche al di fuori della medicalizzazione, e questo lo rivendicavamo anche a livello politico. Non so ben dire perché avessi paura – perché di questo si trattava – dell’assunzione di ormoni… probabilmente, temevo un suo allontanamento. Probabilmente, temevo ciò che in parte è realmente accaduto in questa storia… Ad ogni modo, dallo spaesamento iniziale è arrivata, quasi immediata, la reazione: “desidero accompagnarti, e fotografarti”, dove era implicito “sono la tua compagna, scelgo di stare al tuo fianco, desidero accompagnarti in questo percorso e vorrei fotografarti nel mentre”.

“My Girl is a Boy” nasce quindi come tributo al percorso che il mio compagno di allora aveva deciso di intraprendere. Non solo: “My Girl is a Boy” vuole essere un racconto sul tema (quello della transizione) essenzialmente psicologico.

In molti hanno già dedicato numerose fotografie alla tematica trans, spesso con sguardo morboso verso interventi chirurgici e fisicità pre e post operazioni. A me non è mai interessato fare del voyeurismo sul mio compagno di allora, su Davide. Io volevo semplicemente restituire le sue emozioni, il suo processo nonché percorso psicologico. Mi Interessava mostrare questo e, nel mentre, accompagnarlo. 

Spesso tu parli di potenza dell’amore, di identità, di società che fatica a riconoscere la vera identità di una persona, arrivando a parlare apertamente di transfobia. In tutto questo che importanza ha e ha avuto la fotografia? Il gesto dello scatto e la disponibilità del soggetto derivano dal bisogno di comunicare pubblicamente e dalla voglia di conservare la memoria? Sono elementi che fanno parte delle motivazioni che ti/vi hanno portato a iniziare questo progetto e a continuarlo anche dopo che il vostro rapporto è finito? Lo chiedo perché la potenza di My Girl is a Boy sta nel fatto che riguarda la vostra intimità, è un lavoro intimo, tanto che tu dici “ho visto Davide scoprirsi, riconoscersi, prendere posizione su se stesso“. C’è stato un momento – immagino – in cui avete parlato dell’opportunità di rendere pubblica la vostra intimità?

Sai, io, attivista lesbica, lui, attivista trans: per noi è risultato assolutamente naturale intendere questo progetto, fin da principio, anche in termini politici. Sapevamo che c’era del potenziale e che, per tirarlo fuori, avremmo dovuto mettere in gioco la nostra intimità: seppur con dei limiti, abbiamo scelto di farlo. Parlo di limiti nel senso che io, per esempio, dopo che ci siamo lasciati avrei voluto continuare a scattare e portare avanti il lavoro. Davide, invece, non se l’è sentita. Di conseguenza, ho dovuto far terminare “My Girl is a Boy” col materiale che avevo. Ciò detto, è stata comunque un’esperienza meravigliosa e molto intensa quella che ci ha portato a rendere pubblico il lavoro.

Sentivamo che, nonostante la rottura tra noi, “My Girl is a Boy” conteneva un messaggio politicamente potente che andava divulgato. In fin dei conti, questo lavoro parla dell’importanza del riuscire a essere se stessə. Dell’amore, per se stessə, che ci porta a interrogarci, a scoprirci, a ritrovarci, a preservarci. E di tante altre cose.

Diversi sono i piani di lettura – si va dal crollo delle etichette (io, lesbica, lui, uomo trans, innamoratə? Si direbbe a Roma “Ma che davero?”) alla messa in discussione della società stessa (quella società stessa che, transfobica, vorrebbe Davide una ragazza per il solo fatto che, anagraficamente, Davide non risulta uomo) alla messa in discussione, non da meno, del concetto dell’amore romantico canonicamente inteso: quel completarsi a vicenda, quel raggiungere la felicità solo se insieme – in sostanza, quella dipendenza affettiva. Molte e molti oggi mettono in discussione il concetto di “amore romantico” storicamente e/o canonicamente inteso a favore di rapporti amorosi più liberi e libertari, costruiti a partire da una percezione diversa e slegata del sé. Non per questo amori autoreferenziali. “My Girl is a Boy” ci svela un tipo di questo amore, di amore per se stessə. Certo, nella storia che racconto qualcosa va perso – io vengo meno, Davide mi lascia – ma questo non vuol dire niente: ovviamente “My Girl is a Boy” è solo un esempio e non vuole essere una banalizzazione né una generalizzazione: bisogna cogliere il messaggio della storia specifica, in questo caso. Eravamo entrambə consapevoli dell’importanza di questo messaggio ma in realtà fin dall’inizio del progetto, fin da quando ho iniziato a scattare, è risultato chiaro a entrambə che queste foto sarebbero poi divenute pubbliche e, con esse, anche parte della nostra storia. La parte difficile è stata quando, essendoci lasciatə, dovevamo decidere quanto e cosa far uscire della nostra storia. Lì è stato doloroso, oltre che difficile. Una rottura resta tale e, per quanta riconciliazione possa esserci, dei pezzi si perdono. Ciò nonostante ce l’abbiamo infine fatta: abbiamo trovato una sintesi e, in qualche modo, un accordo. Ad ogni modo, io devo tantissimo a Davide perché ha, fin dal primo momento, creduto in me. Neanche una volta ha esitato mentre lo inquadravo col mio obiettivo. Sicuramente, sì, c’era la volontà, nonché il bisogno, di conservare la memoria. Un lavoro del genere lo fai anche per conservare la memoria, sì. Lo fai per ricordare a te stesso (Davide) da dove arrivi, lo fai per ricordare a te stessa (io) chi eri in quel dato momento della vostra relazione, lo fai per ricordare a entrambə, in un futuro, chi siete statə (insieme), come eravate innamoratə e, non da meno, come avete smesso di amarvi. Ma lo fai anche per memoria storica. Per parlare di un corpo e di un animo che stanno mutando – il testosterone. Insomma, il tema della memoria è importante.

Davide ti lascia – cito le tue parole – perché ha capito che “prima di tutto deve concentrarsi su di sé“,questo concetto dell’amore per sé stessi è centrale nel progetto e merita un approfondimento, in quanto non lo intendi banalmente con il luogo comune “se non stai bene con te stesso non puoi amare qualcun altro” ma vai oltre, ovvero?

Non mi piace quella retorica, che peraltro trovo assai pericolosa, del “se non ami te stessə non puoi amare qualcun altrə”. La trovo sbagliata, scorretta e, non da meno, dequalificante. Prendiamo ad esempio il caso di chi soffra di depressione: sono numerose le persone a soffrirne; vuoi forse dirmi che tuttə coloro che ne soffrono e che, per ovvie ragioni, tendono ad amare meno se stessə in un dato periodo della loro vita, non siano in grado di amare qualcun altro? Non vedi che è una retorica sbagliata e crudele? Io credo fermamente che, anche qualora ci si trovi, per determinate circostanze o situazioni, ad amare poco o nulla se stessə, si sia sempre e comunque in grado di donare amore. Non è vero che sa donare amore soltanto chi è perfettamente in equilibrio con se stessə. Ora, quel che intendo dire in “My Girl is a Boy” è che talvolta abbiamo bisogno di concentrarci su di noi, indipendentemente da tutto il resto. Quando ho iniziato a scattare “My Girl is a Boy” Davide mi amava. Quando ho prodotto le ultime foto di “My Girl is a Boy”  Davide mi guardava… ma con occhi diversi. Qualcosa stava cambiando. Qualcosa stava finendo. Davide aveva dovuto – o voluto, ma questo poco importa – interrogarsi su se stesso, mettere in discussione se stesso, interagire con se stesso. Un rapporto unilaterale, verso se stesso. Io ormai ero fuori, ero esclusa. Talvolta, per andare avanti, per andare alla ricerca profonda di noi, abbiamo bisogno di escludere qualcuno – anche coloro che pure amiamo o abbiamo amato. È questo che cerco di raccontare in “My Girl is a Boy”. Ci sono volte, in definitiva, in cui abbiamo bisogno di rimanere solə col nostro amore per noi stessə, e null’altro. Quell’amore però deve essere autentico – non già egoistico o autoreferenziale; deve proprio essere amore profondo. Ed è appunto amando noi stessə in maniera genuina e veritiera che potremo, infine, seppur con dolore, lasciar andare qualcosa – o qualcunə . Talvolta lasciar andare è necessario: talvolta il cammino va compiuto in solitaria o, quanto meno, va cominciato in solitaria. Così il cammino della transizione: l’illusione mi aveva portato a credere che avremmo percorso quel cammino insieme, io e Davide; la vita mi ha mostrato che Davide aveva bisogno di costruire quel percorso da sé e, per il momento, attraversarlo solo. Mi sono dunque fatta da parte.

A parte Q Code hai avuto difficoltà a divulgare questo progetto? Cosa bisogna fare ancora, su quali tasti bisogna battere affinché ci sia un atteggiamento non pregiudiziale sul tema dell’identità di genere?

Naturalmente sono molto felice che la vostra rivista mi abbia chiesto le fotografie e l’intervista. Un po’ dispiaciuta e amareggiata, invece, per il fatto pochi altri osino. A dire il vero, una rivista importante ci aveva provato ma poi, purtroppo, è “saltato” il numero. Questioni di spazio, di edizione, di contenuto. Insomma, non si parlava più del tema in questione. La photoeditor ci aveva sperato fino alla fine… e con lei anche io. Ma poi nulla. In realtà due belle soddisfazioni con questo lavoro finora le ho avute; non sono molte, e denuncio appunto il fatto che in Italia sia difficilissimo pubblicare, soprattutto se si parla in maniera autoriale di determinati temi, tuttavia sì, due belle soddisfazioni le ho avute. La prima: di recente le riviste Babelmed e MedFeminiswiya, due magazine online di giornalismo indipendente che coinvolgono professionistə delle due rive del Mediterraneo, in francese, inglese, arabo e italiano, hanno dedicato un articolo con annessa intervista alla sottoscritta per “My Girl is a Boy”, ovviamente pubblicando anche alcune delle fotografie. Sono molto felice di questa collaborazione, andata in porto grazie al lavoro svolto insieme alla giornalista Federica Araco, soprattutto perché ha fatto sì che “My Girl is a Boy” andasse all’estero per la prima volta e, nello specifico, vi andasse in un contesto intersezionale e femminista come quello delle due riviste in questione. La seconda, non meno importante, “My Girl is a Boy” è stato selezionato per il programma ufficiale del festival “Roma Fotografia” e, nello specifico, è stato proiettato per 20 giorni presso Palazzo Merulana a Roma, una vera e propria video installazione.

Vorrei poter dire che sia facile, vorrei poter dire che i pregiudizi e i tabù non esistono, ma purtroppo non è così. La mia esperienza spesso mi mostra che per una rivista che vuole il lavoro, nove lo scartano perché il tema è scomodo o comunque difficile da inserire e/o giustificare. Giustificare, esatto.

A maggior ragione che mi occupo della tematica trans da una prospettiva leggermente insolita: come dicevo poc’anzi, non punto l’accento sul corpo, sulla transizione dal punto di vista fisico, sull’irreversibilità degli interventi ecc, ma sul processo nonché percorso psicologico. Credo che ci sia ancora bisogno di lottare, e tanto, affinché esperienze di vita altre, come quelle trans, possano essere legittimate, riconosciute, supportate e rispettate. Consideriamo quanto appena avvenuto col DDL ZAN, ad esempio: il suo vergognoso affossamento mostra quale abietta e meschina classe politica ci governa – la società, ne sono sicura, era già pronta ad accogliere la legge in questione. Legge, peraltro, basilare – come attivista, e come tante altre attivistə, rivendico molto più della legge Zan. Avremmo bisogno di leggi che ci tutelino a 360 gradi e non come una minoranza. Non siamo a un safari allo zoo. Quanto al tema specifico dell’identità di genere, probabilmente se istituissimo nelle scuole insegnamenti specifici quali quelli dei gender studies e queer studies, il personale scolastico in primis sarebbe obbligato a formarsi e, di conseguenza, a dover saper formare lə studentə. Lə studentə, a loro volta, potrebbero formare i propri genitori. Si creerebbe un meraviglioso circolo virtuoso. Utopia? Forse. Ma sicuramente, quel che intendo dire, è che bisogna partire dalla scuola, da una riforma sostanziale del sistema scolastico. Lə studentə sono spugne che assorbono, loro sono prontə; le nuove generazioni si stanno dimostrando estremamente fluide, aperte, pronte alla messa in gioco e in discussione. Il problema, allora, sono le generazioni precedenti. Riformare le scuole, sì, ma per insegnare primariamente al personale scolastico. Vanno riformati i talk show, i programmi radio, le trame dei film. Va ripensato il sistema. A monte. Se ciascunə, nel suo campo, facesse il suo, forse, allora, potremmo farcela… se ciascunə si occupasse di educare alle differenze nel proprio campo, saremmo già un passo avanti. 

My Girl is a Boy è anche una video installazione, vero?

“My Girl is a Boy” non nasce come video installazione ma lo è stata. Quando da “Roma Fotografia” mi hanno contattata per propormi di inserire il lavoro nel programma ufficiale del festival, avendo io accettato mi hanno chiesto di produrre una video installazione del lavoro contenente anche un mio video introduttivo al lavoro, in quanto sarebbe stata in questo modo proiettata nel prestigioso Palazzo Merulana, a Roma. Chiaramente per me è stato motivo di orgoglio – accanto a me, sul mio stesso piano, c’era esposto De Chirico! Non capita mica tutti i giorni di star sullo stesso piano di De Chirico! Ovviamente sto scherzando. Ma resta la soddisfazione. Quindi in pratica nel mese di settembre, per 20 giorni, “My Girl is a Boy” è stato esposto come video proiezione. Sicuramente ha avuto il suo impatto, a maggior ragione del video introduttivo in cui a parlare ero io, e sono grata a “Roma Fotografia” per avermi dato questa opportunità, ma a dirla tutta credo che quella video non sia la forma migliore di “My Girl is a Boy”. E’ un lavoro troppo intimista e circoscritto, troppe poche immagini: lo visualizzo come altro tipo di installazione – magari una camera da letto con le fotografie attaccate sui e/o inserite all’interno dei mobili. Immagino “My Girl is a Boy” come un’installazione in cui lo spettatore possa soffermarsi per minuti interi su ciascuna fotografia e non sia costretto, invece, a guardarla secondo i tempi dettati da un montaggio video. Chissà, magari in futuro arriverà anche questa installazione.

Il portfolio fotografico è all’interno del primo numero di Q Code a tema Generi: lo potete trovare in questi posti.

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