La raccomandazione paternalistica del ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, che ha detto, in merito al 25 aprile di quest’anno, che «tutte le cerimonie sono consentite naturalmente, tenuto conto del contesto e quindi con la sobrietà che la circostanza impone a ciascuno», raccontano bene la realtà italiana. Una realtà – quantomeno politica-istituzionale – che legge il 25 aprile come una giornata di concerti e non come una festa, la Festa della Liberazione. Se questo è raccapricciante a livello storico, lo è ancora di più a livello politico, in quello che rimane e rimarrà. Uno Stato laico si inchina a una religione con meschini obiettivi politici e con un chiaro fastidio per una data fondativa della nostra Repubblica.
Sono passati ottant’anni dal 25 aprile del 1945. La fine della guerra, la Liberazione. E se è vero che in questi ottant’anni le guerre in tutto mondo si sono susseguite senza sosta – guerre che senza l’aggettivo “mondiale” evidentemente non creano scalpore, se non quando si alza il prezzo della benzina o della farina – ricordare quella liberazione, quella fine, è ancora necessario.
È necessario ricordare quella che, in Italia, fu una guerra civile: una guerra patriottica, civile e di classe. Lo storico Claudio Pavone, che per primo parlò proprio di “guerra civile”, scriveva così: «Nelle situazioni di normalità non è necessario prendere continuamente posizione a favore del sistema. Ma la necessità di esplicitamente consentire, o dissentire, diventa impellente quando il sistema scricchiola». E quanti suoni di scricchiolii abbiamo sentito in questi mesi, in questi anni. Quanto lo abbiamo sentito in una Costituzione continuamente messa alla prova, attaccata. In quella Repubblica fondata sul lavoro che ora è per lo più lavoro sfruttato, povero, e per fortuna ci sono i referendum che ci ricordano che abbiamo ancora possibilità di cambiare le cose. In quella sicurezza declinata unicamente in ottica repressiva, con un ddl fatto passare a decreto, superando le logiche democratiche in cui ancora dovremmo vivere.
Un sistema democratico in cui però il dissenso non trova più spazio, non lo trovano la protesta, il conflitto.
Lo stesso che ci ricordano le storie di partigiane e partigiani. Per questo oggi c’è bisogno più che mai di tornare alle ‘scelte’, nella nostra quotidianità. Schierarsi, agire. Il mito dell’eroica partigiana o partigiano è una costruzione pericolosa, perché allontana da noi quella che fu la scelta coraggiosa di scegliere nella propria drammatica quotidianità. Anche noi oggi, in un contesto certo diverso, ma spesso ingannevole e che ci ha resi sempre più soli, abbiamo bisogno di scegliere, di attuare una nostra Liberazione.
Ecco, forse, semplicemente, è una bella occasione il 25 aprile tornare a sentire forte le storie di chi quella lotta partigiana l’ha vissuta, le voci di chi ha scelto, negli Appennini, sulla Linea Gotica, nelle piazze e nelle strade. E ricordarsi che quella “Repubblica nata dalla Resistenza” non è autosufficiente e immune, che i requisiti essenziali di un sistema democratico non bastano da soli a definire la qualità di quel sistema, che quel sistema deve entrare anche e soprattutto ai margini. E per farlo, come abbiamo detto, c’è bisogno di scelte e a volte anche di conflitto, di tensione con il potere e con quella che viene definita “normalità”.