Pregate per lei: Anna Achmatova, e per tutte le donne consumatesi nelle ore di strazio e di attesa fuori da una prigione. Krestý, si chiamava, Le croci, il carcere di Leningrado dove il regime rinchiudeva gli oppositori politici, anche presunti: e a torto. E davanti alle cui sbarre si snodarono per anni le immense file dei congiunti degli imputati in attesa delle sentenze, irrigiditi dal freddo, coi volti distorti dall’orrore, in piedi per ore, a volte giorni, tutti curvi sui pacchi di viveri che aspettavano di consegnare all’ingresso. In quei pacchi, insieme ai 15 rubli per il mantenimento dei detenuti, stava riposta la speranza di intere famiglie: e se un pacco veniva respinto, ciò significava che l’imputato era stato fucilato.

Tra quelle donne in fila, Anna Achmatova, che a Requiem affidò il racconto di questa angoscia, la cronaca dei mesi di vuoto in attesa di una sentenza, l’eco sorda del tonfo con cui dovette risuonare la condanna.

Nei terribili anni della «ežòvšĉina» ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
- Ma lei può descrivere questo?
E io dissi:
- Posso.
Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.

(In luogo di Prefazione, 1° aprile 1957, Leningrado)

Erano, appunto, gli anni della «ežòvšĉina»1, della persecuzione insensata e indiscriminata dei dirigenti e dei civili, volta a reprimere ogni minaccia di opposizione. In quegli anni, una serie di clamorosi processi sommari permise a Stalin di irrobustire il suo potere di controllo, finendo per scatenare un effetto domino di stritolamento sul popolo russo: un arresto provocava altri arresti, una delazione nuove delazioni. Per non finire denunciati, si denunciava.

Non ci si fidava dei vicini, si cominciò a sospettare di tutti: convinti comunisti e innocenti avulsi dalla politica, senza distinzione, finivano confusamente nella morsa della macchina repressiva stalinista. Era un regime basato sul terrore che, nel nome di un ideale di liberazione dell’uomo – il comunismo –, riprese i metodi dell’oppressione zarista, peggiorandoli: neanche per un momento si esitò a ricorrere all’eliminazione fisica di massa per servire le esigenze del partito.

A questo proposito, nel suo pamphlet sul realismo socialista, Andrej Sinjavskij – l’ennesimo dei prigionieri politici sovietici, tra coloro che sopravvissero all’esperienza dei gulag – scriveva: «Perché scomparissero per sempre le prigioni, abbiamo costruito nuove prigioni. Perché cadessero le frontiere tra gli stati, ci siamo circondati di una muraglia cinese. Perché il lavoro divenisse in futuro un riposo e un piacere, abbiamo introdotto i lavori forzati. Perché non si spendesse più neppure una goccia di sangue, abbiamo ucciso, ucciso senza tregua».

Ciò accadde allorché a sorridere / era solo chi è morto – lieto della pace. / E, appendice inutile, si sbatteva / Leningrado intorno alle sue carceri. / E allorché, impazzite di tormento, / condannate ormai andavano le schiere / e breve canzone di distacco / cantavano i fischi delle locomotive. / Stelle di morte incombevano su noi / e innocente la Russia si torceva / sotto sanguinosi stivali / e copertoni di nere marúsi².

(Introduzione)

Tra la schiera degli oppressi, la macchina del terrore colpì anche l’unico figlio della celebre poeta – non amava farsi definire poetessa, Achmatova, pur senza rinunciare, per questo, alla sua identità femminile: LevGumilëv, figlio del primo marito Nikolàj, il quale era stato fucilato per aver preso parte ad attività controrivoluzionaria nel 1921. Colpevole del peso di un cognome, Lev finì in una delle liste dei sospetti oppositori, e nel ’38 arrestato, dando inizio al calvario della madre – che fu una e tutte le madri insieme, una e tutte le mogli, le vedove, le figlie – «Maddalena si disperava e singhiozzava, / il discepolo prediletto era impietrito, / e là dove in silenzio stava la Madre / nessuno osava neppure volgere lo sguardo»3 – cantando così la sua angoscia.

Ti hanno portato via all’alba, / io ti venivo dietro, come a un funerale / … / Come le mogli degli strelizzi, ululerò / sotto le torri del Cremlino.

Diciassette mesi che grido, / ti chiamo a casa. / Mi gettavo ai piedi del boia, / figlio mio e mio terrore. / Tutto s’è confuso per sempre, / e non riesco a capire / ora chi sia belva e chi uomo, / e se a lungo attenderò l’esecuzione.

Questa donna è malata,/ questa donna è sola,/ il marito nella tomba, il figlio in prigione./ Pregate per me.

La domanda che la madre-poeta si pose, come ebbe a scrivere nell’introdurre Requiem il direttore dell’Istituto italiano di Cultura a Mosca Adriano Dell’Asta, fu «la domanda radicale che non si chiede più soltanto chi sia l’uomo, ma si chiede addirittura se sia ancora possibile parlare dell’uomo nella particolare condizione storica che si è creata». In questo senso il mondo dal quale nasce la raccolta è un mondo nel quale sembra impossibile ogni domanda, ogni ragione, ogni parola – tanto più se poetica. 

Eppure è proprio attraverso la poesia che si snoda la resistenza di un popolo: ciascuno col proprio mezzo. I russi, ad esempio, avevano il samizdat. È una parola che, letteralmente, significa «autopubblicazione», ma nel senso specifico della circolazione dei libri altrui. Più che pubblicarli da sé, samizdat voleva dire copiarli, batterli a macchina in più copie usando la carta carbone. Decine, centinaia di testi che non erano pubblicabili sotto regime, ma che la gente leggeva lo stesso: copiandoli e passandoseli di nascosto.

Anna Achmatova scrisse Requiem dentro un appartamento sulla Fontanka, dove temeva che le spie la controllassero attraverso microfoni nascosti. Le poesie le scriveva così: s’interrompeva nel mezzo del discorso, prendeva un pezzetto di carta e una matita, diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo – per sviare ogni sospetto di essere spiata –, rivolta a un’amica, riempiva il foglietto convulsamente e glielo porgeva.

Questa, in silenzio, imprimeva i versi nella memoria, poi restituiva il foglio, che finiva bruciato in un posacenere, nascosto da un’altra frase insensata. Un rito splendido, ma doloroso. Pare incredibile, ma fu questa la forza della poesia in Unione Sovietica, al punto che un carcerato in un campo di lavoro avrebbe poi trascritto alcune tra le poesie della Achmatova che ricordava a memoria su un pezzo di corteccia di betulla, passandole agli altri prigionieri come monito alla resistenza. 

Ma la resistenza, dall’altra parte delle grate, invecchia, impazzisce, infossa i volti, turba i sorrisi un tempo distesi.

Ho appreso come s’infossino i volti, / come di sotto alle palpebre s’affacci la paura, / come dure pagine di scrittura cuneiforme / il dolore tracci sulle guance, / come i riccioli da cinerei e neri / d’un tratto si facciano d’argento, / il sorriso appassisca sulle labbra rassegnate, / e in un ghigno arido tremi lo spavento. / E non per me sola prego, / ma per tutti coloro che erano con me, laggiù, / nel freddo spietato, nell’afa di luglio, / sotto la rossa muraglia abbacinata.

(Epilogo)

Sono quelli delle donne, mogli e madri, straziate dall’attesa a Krestý: è a loro che viene dedicato il poema.

«Avrei voluto chiamare tutte per nome, / ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare. / Per loro ho intessuto un’ampia coltre / di povere parole, che ho inteso da loro. / Di loro mi rammento sempre e in ogni dove, / di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò, / e se mi chiuderanno la bocca tormentata / con cui grida un popolo di cento milioni, / che esse mi commemorino allo stesso modo / alla vigilia del suffragio». Per continuare, poi: «E se un giorno in questo paese / pensassero di erigermi un monumento, / accontento ad esser celebrata, / ma solo a condizione di non porlo / né accanto al mare dov’io nacqui: / col mare l’ultimo legame è reciso, / né nel giardino dello zar presso il desiato ceppo, / dove l’ombra sconsolata mi cerca, / ma qui, dove stetti per trecento ore / e dove non mi aprirono il chiavistello».

E oggi, dove un tempo sorgevano Le croci, nella Leningrado divenuta San Pietroburgo, là si erge il suo monumento: pietrificata nell’angoscia della madre a cui viene strappato il figlio, s’ode ancora la sua voce.

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Note:

  1. «Ežòvšĉina», cioè «periodo, regime di Ežòv», è termine spregiativo coniato dal nome del capo della polizia Ežòv.
  2. Nome con cui vengono chiamati i furgoni della polizia.
  3. La crocifissione