Guerra in Siria, lotta ai curdi e respingimento dei migranti: la campagna elettorale di Erdoğan

“Erdoğan è il mio presidente”. Aisha è seduta nel salotto di casa sua e annuncia questa frase ad alta voce. “Ha fatto tanto per noi siriani.” Si guarda intorno, poi chiede: “Non è così?”. 

Abbassa la voce, e continua: “Bombarda la Siria e non ci vuole qui, non sono molto fortunata in fatto di presidenti”. Scherza quasi sussurrando, indica le case dei vicini di casa e avvicina l’indice alla bocca, facendo segno di non parlare più. Lei e i suoi tre figli vivono in una città di confine in provincia di Gaziantep, a sud della Turchia. Sono arrivati nel 2011, poco dopo lo scoppio della guerra in Siria e l’inizio delle violenze nella loro città, Aleppo. “I miei figli parlano benissimo il turco e si sono inseriti a scuola, il più grande ha completato qui elementari e superiori e tra poco inizia l’università. Abbiamo la cittadinanza turca, ma le barriere contro di noi sono forti. Ogni volta che succede qualcosa si punta il dito contro i ‘siriani’, a volte ho paura”.

L’atmosfera nella Turchia a confine con la Siria è tesa, più del solito. I controlli della polizia per le strade sono aumentati e mantengono la violenza di sempre nel controllare i documenti dei passanti. Per le vie principali si scorgono spesso carri armati e militari turchi diretti al confine. 

La Turchia sta ormai da anni attraversando una forte crisi economico-sociale e la situazione economica non è riuscita a riprendersi dall’inflazione e la dilagante povertà: lo scorso anno la lira turca è crollata del 40% rispetto al valore del dollaro. È un contesto fragile, che traballa in vista delle elezioni presidenziali che si terranno a giugno 2023. Tra i temi che hanno sempre funzionato nella propaganda elettorale di Erdoğan, ci sono le campagne anti-curde e il rientro in patria dei profughi siriani, che in Turchia sono oltre 3 milioni e 700 mila. Per cui qui, al sud della Turchia, terra con una forte presenza di turchi di nazionalità curda e al confine con la Siria, si gioca una partita della campagna elettorale di Erdoğan.

Queste settimane sono state particolarmente calde in Turchia, con degli avvenimenti simbolici. 

Domenica 13 novembre, una bomba esplode nella famosa via Istiklal a Istanbul. Le vittime dichiarate sono 87, di cui 6 morti e 81 feriti. Subito dopo, il governo turco impone il divieto di condividere immagini dell’esplosione e dei momenti successivi e blocca in tutto il paese l’accesso alle piattaforme Instagram, Twitter, Facebook e YouTube fino al mattino successivo. Per dieci ore la comunicazione in Turchia viene censurata e limitata alle informazioni ufficialmente trasmesse dai canali governativi. 

Il giorno successivo, lunedì 14, il governo turco rincuora i cittadini affermando di avere già identificato il colpevole e svelato il complotto: una donna siriana di nazionalità curda ha provocato l’attentato in nome della guerrilla curda di Kobane, portata avanti dal gruppo armato YPG, ramo siriano del PKK. Poco dopo viene annunciato l’arresto dei suoi aiutanti e dei trafficanti che le hanno permesso di arrivare illegalmente in territorio turco. Il gruppo YPG ha subito smentito di essere responsabile dell’attentato ma, nonostante ciò, la Turchia dichiara di essere pronta a far pagare per quanto successo. Detto, fatto: pochi giorni dopo l’esercito turco bersaglia il nord della Siria, nelle zone a maggioranza curda, bombardando le città a nord di Aleppo, Ayn Isa, Kobani, Mambij, Qamishli e la zona del governatorato di Al-Hasaka. 

Lunedì 21 novembre, un missile proveniente dalla Siria supera il confine turco e colpisce Karkamish, piccola cittadina turca poco fuori Gaziantep. Il ministro degli Interni Suleyman annuncia tre vittime, e che il colpo è da attribuirsi al gruppo YPG/PKK. Pochi giorni dopo, i gruppi armati curdi lanciano dei missili nelle zone del nord della Siria sotto il controllo dell’esercito turco e di Ahrar al-Shams, milizie in guerra contro il regime siriano. La risposta turca non si fa attendere: un’altra manciata di razzi sui territori curdi e il 25 novembre l’esercito turco si schiera al confine, oltrepassandolo.

Nella settimana successiva ai fatti di via Istiklal l’esercito turco ha rafforzato la propria presenza nella guerra in Siria, bombardando sistematicamente le città sotto il controllo dei gruppi militari curdi, per “neutralizzare” la guerrilla curda. Rafforzato, la sua presenza, non iniziato: queste operazioni militari, infatti, sono state intense per tutto l’autunno, da quando Erdoğan ha ottenuto il lasciapassare di Putin per ricominciare a bombardare il nord della Siria, con l’obiettivo di colpire i gruppi curdi. Settimanalmente, le agenzie di stampa turche pubblicano i successi di tali operazioni in Siria e quelle nel nord dell’Iraq, numerando i “terroristi” neutralizzati. Non c’è menzione degli attacchi collaterali ai civili: le bombe cadono su centri abitati, eppure non ci sono riferimenti rispetto ai numeri delle vittime. 

Rispetto all’attentato di via Istiklal, si direbbe che ad Ankara servisse proprio un attentato per mano curda: così, può rafforzare la propria presenza militare in Siria, in una zona che gli interessa controllare, avendo adesso la giustificazione ufficiale per farlo. E mantenendosi popolare di fronte agli elettori turchi.

Di fianco a queste campagne militari in Siria, la tensione sociale interna sta crescendo. Sono popolari i discorsi e gli episodi razzisti verso i siriani, migrati in Turchia a causa della guerra. 

“Da quando si dice che a fare l’attentato a Istanbul è stata una donna siriana, la situazione è peggiorata”, racconta Aisha. “Sento discorsi che la gente fa ad alta voce per strada, dicendo che c’era da aspettarselo, che hanno scelto di accogliere i siriani e questo è stato ciò che hanno ottenuto”. Con il crescere dell’agitazione sociale, la polizia aumenta la violenza nei confronti della comunità migrante ai confini. Human Rights Watch ha denunciato la deportazione indiscriminata di centinaia di siriani, che vivevano legalmente in Turchia e hanno subito violenza da parte delle forze dell’ordine turche e il rimpatrio forzato. La stessa sorte, riporta ancora Human Rights Watch, sta toccando a tanti afghani, respinti all’arrivo o deportati dopo anni di permanenza in Turchia.

In preparazione alle elezioni di marzo 2023 sembra che i punti di forza del presidente Erdoğan riguardino la guerra a nord della Siria, accompagnata da narrative anticurde, e l’allontanamento dei migranti dal territorio turco, senza cura del pericolo che potrebbero affrontare nei paesi d’origine.

“Fino alle elezioni”, sospira Aisha, “non ci sarà pace per noi siriani e per la Siria”.