Khaled le braccia le ha talmente esili che quando tenta di cingermi il ventre l’estremità di una mano arriva appena a sfiorare l’estremità, distesa, dell’altra. Ha sette anni e statura minuta, parla un arabo lento e vivace sicché io lo comprenda, e di mestiere, quando non è seduto tra i banchi di una delle scuole informali che i rifugiati chiamano markaz,  centri, yabiya’ il-wrud: vende rose. È uno dei tanti bambini siriani che affollano le strade di Beirut per chiedere l’elemosina, abituati come sono per inerzia a portare la mano alla bocca come a chiedere da mangiare. Ce ne sono di libanesi, anche, soprattutto di Tripoli e ‘Akkar, a conferma che la povertà non guarda nazionalità né origine né documenti né stato legale.

Khaled è siriano di Aleppo perché così gli hanno detto i suoi genitori, e perché è povero nessuno lo sa. Della Siria e di Aleppo, nelle giornate della sua vita spinosa, non può altro che sentire il nome e l’eco di glorie passate. Di quando la Siria era grande e le rose se ne stavano tranquille nei giardini e le scuole si chiamavano madrasa come quella celebre di Al-Halawiya e la notte si dormiva nei letti, mica per strada, profumati di porpora e seta. E invece Khaled è nato povero e ha l’aria di non lavarsi da giorni, di dormire per strada e di non andare né a scuola né al centro perché oggi è martedì mattina e lui è qui tutto saltellante che vende rose per strada. E che colpa ne ha se il suo desiderio è il denaro. Quando mi chiede che forma abbia una banconota da cinquanta euro e sembra deluso della mia blanda risposta «bas waraqa» – soltanto carta -; quando invece gli indico il-bahar wsshames, il mare e il sole, shuf issama’, guarda il cielo, quanto bello è, e lui deciso ba’rif ba’rif bas keef lawnha, lo so lo so ma che colore hanno, e io le stelle?, e lui no i khamseen euro; quando gli chiedo shu bithobb t’amel ma’ il-masari, che cosa ci faresti col denaro, e la sola risposta possibile è akel: cibo; e io ayy akel, falafel?, e lui la la no no – pausa – si inumidisce il labbro superiore su cui tra qualche anno spunterà una leggera peluria – halwayat. Dolciumi.

Mi immobilizza la consapevolezza ritrovata che infondo è un bambino. E gli sorrido senza trovare parole in risposta. Mi fermo che quasi piango, e il gesto lo compie lui. Sicché il nostro abbraccio si snoda in questa forma: Khaled, piccolissimo, con il mazzo di rose stretto sotto un’ascella, ancorato al mio tronco come alla corteccia di un albero secolare, che si sforza di stringerlo, e resta così; ed io, con l’impressione straniera e nuova di enormità, imbarazzata nel tentativo fallito di ricambiare, che non trovando il suo corpo, arrivandomi appena al bacino, finisco per danzare col vuoto.

La crisi del Libano la comprendi dai lunghi e nevrotici viaggi in taxi. Incastrati nel traffico rovente di Beirut, in cui ogni ora è di punta e pare non esista gradualità nel passaggio dal giorno alla notte: sole d’agosto – sipario – buio pesto e minaccioso. Qui che il trasporto pubblico se l’è inghiottito la guerra civile, ad eccezione dei furgoncini sovraffollati che si ammassano attorno al disordine di rotonde che credono stazioni – Cola per il Sud e Dawra per il Nord; che il prezzo di una tratta è triplicato rispetto al principio di gennaio: centocinquantamila lire libanesi per il posto scomodo di un taxi collettivo. Li chiamano service e due mesi fa una banconota da cinquantamila bastava a portarti da Hamra a Karantina, da Dahieh a Gemmayzeh. Con l’aumento vertiginoso del prezzo del dollaro – oggi uno a centoseimila – talmente rapido e inatteso che nessuno si spiega il perché, così presi come sono dalla nevrosi quotidiana di racimolare pezzi di carta senza più valore, aggiornare di continuo i prezzi della merce, svenarsi alle sette del mattino per contrattare l’equivalente di poche decine di centesimi. Con cui permettersi un pasto.

Uno specchio visibile della crisi libanese sono i ragazzini per strada che non chiedono soldi, ma cibo e avanzi di cibo; i marpioni che non domandano l’età ma la cittadinanza, essendo il matrimonio con straniere l’unico mezzo per evadere; i portafogli che si imbottiscono perché la moneta vale di meno – e tutto costa di più. E i tassisti che invece che farti domande parlano e parlano e ancora parlano soltanto di sé. Non importa che tu non li capisca. Il prezzo di venti litri di benzina è salito di sessantaquattromila lire, e tu a contrattare quelle poche decine di centesimi che per la classe media divenuta povera equivalgono a un pasto proprio non ce la fai.

E allora accade che mentre sei in un service e stabilisci che il prezzo di una corsa da Shatila a Manara è di centocinquantamila e non si discute; e l’autista non ti chiede di dove sei né se sei sposata né s’interessa che tu parli o provi a parlare o boccheggi appena qualche parola nella sua lingua, talmente è preso dalla nenia cantilenante del wadi‘e il-iqtisadi sa‘eb sa‘eb – la situazione economica è difficile è difficile.

E di tutte le persone a cui l’uomo al volante che dice di chiamarsi Monther e di essere iracheno, a tutte le persone in piedi per strada e prese da chissacché a cui Monther ripete lamentoso taxi taxi e quelle rispondono senza parlare, ma con un cenno deciso della testa, lo scatto del mento verso l’alto e lo sguardo sprezzante, poi lo schiocco rumoroso della lingua dietro l’arcata dentale superiore: «ntz»; accade, nel caos routinario di Beirut sotto al sole, che una vecchia signora con un fazzoletto bianco male annodato al collo accetti invece il passaggio, annunci «Cola» come sua destinazione limitandosi a un paio di battute blande e gentili, che non contratti il prezzo e quando giunta alla rotonda di macchine e van incastrati l’una sull’altro che qui chiamano stazione-dei-bus anche se di bus non ce ne sono, accade che la donna infazzolettata di bianco porga a Monther con la barba incolta e il colletto della camicia bucherellato una logora banconota da ventimila lire: l’equivalente di ventitré centesimi. Sicchè Munther ride nervoso domandando alla donna nel fazzoletto che d’improvviso si è fatta minuscola e indifesa che cosa voglia insinuare con quel gesto. Wen sakne, barra? Ma dove vivi, all’estero? E la donna-fazzoletto minuscola e furba mente affermando che il prezzo fosse stato stabilito, e mi tira in ballo elemosinando qualche forma di supporto o forse banale solidarietà femminile, solidarietà di clienti, solidarietà di chi racimola mucchi straboccanti di banconote svalutate e paga, porgendole con un impacciatissimo tfaddal, prego. Me ne tiro fuori con il mio sono-straniera-non-parlo-arabo ben sillabato per chiarire la mia estraneità. E allora succede che la risata dell’uomo si spegne in un gesto di rabbia e cecità che sempre mi verrà da associare alla folle folle crisi dell’economia libanese: una misera banconota afferrata alle due estremità coi polpastrelli decisi e tremanti insieme, tirate una in su, una in giù, poi ripiegata più volte nella ripetizione meccanica del gesto – l’umiliazione – lo strappo – il pentimento, forse, al pensiero del pasto sacrificato della classe media che è scomparsa per diventare povera e mendicante. E l’atto furioso di gettare quell’oltraggio a pezzetti fuori dal finestrino a cui decine di altre bocche distratte e sofferenti ripetono «ntz», e Munther che ha allungato il tragitto per niente, che ci ha rimesso di salute di benzina e di integrità; e mentre mi accompagna a Manara non parla più di sé, né chiede di marito o figli o nazionalità e passaporto, non si complimenta dell’arabo che accenno appena a parlare, né scimmiotta qualche frase stereotipata in italiano. Ripete, soltanto, lo sguardo perso nella strada affollata, ya haram ya haram ya haram. Peccato peccato peccato.