In occasione delle Quattro giornate di Napoli, la resistenza del popolo napoletano contro la violenza nazifascista porta a riflettere sul concetto di pace nel difficile contesto geopolitico in cui stiamo vivendo.

Non è vero che Napoli si è liberata in quattro giorni.

Quattro giornate. C’è una fermata della metropolitana Linea 1 a Napoli con questo nome, al Vomero. Da bambina, prima di conoscerne la storia, mi chiedevo cosa fossero quelle “Quattro giornate”. 

Tutti dicono che sono quattro perché, se dovessimo tenere numericamente in considerazione i giorni che rappresentarono l’apice dei combattimenti e che portarono alla definitiva cacciata dell’esercito tedesco dalla città, tra il 27 e il 30 ottobre 1943 ebbero luogo le Quattro giornate di Napoli, in cui la città si liberò combattendo strenuamente. E ogni anno Napoli commemora e rende onore ai caduti e a chi ha preso parte alla liberazione della città. In realtà, le rappresaglie e i combattimenti iniziarono mesi prima. Più o meno silenziosamente, potremmo dire però anche tutto il 1943 fu l’anno in cui le organizzazioni iniziarono il cammino che portò alla liberazione.

Pochi sanno che Napoli è stata la prima città in Europa a essersi liberata dai nazifascisti, spontaneamente. Non liberata da un intervento esterno, né per un destino inconsapevole.

Napoli fu liberata da uomini, donne, bambini che scelsero di non sottostare alla violenza e ferocia dell’esercito tedesco, che costringeva la popolazione a subire ogni sorta di sopruso e barbarie.

Un esempio è quello del marinaio Andrea Mansi.

Il 12  settembre 1943 l’evento che incendiò la rivolta popolare aveva un nome e un cognome: Andrea Mansi, 24 anni, marinaio. La sua figura, rimasta a lungo senza nome, è l’emblema della ferocia e dell’annichilimento a cui può giungere l’essere umano. Andrea Mansi era un marinaio, originario di una frazione di Ravello, un paesino della costiera amalfitana. Il giorno in cui fu proclamato lo stato d’assedio della città da parte dell’esercito tedesco, non aveva sentito la radio ed era ignaro di ciò che accadeva. Era un marinaio con la sua uniforme, in strada. Fu fermato mentre rientrava a casa in bicicletta e fu giustiziato sul posto, sulle scale dell’Università Federico II di Napoli, come atto dimostrativo, con gli occhi dei propri concittadini puntati addosso, mentre sentivano le ultime grida di terrore e la sorpresa sul suo volto. Quei suoi concittadini, furono costretti ad applaudire in ginocchio per non essere mitragliati sul posto. Ogni anno, durante le quattro giornate, l’università affigge una ghirlanda di fiori per onorare la sua memoria e quella di tutti i partigiani e le partigiane che hanno sacrificato la propria vita per la liberazione.

Ghirlanda per Andrea Mansi e i caduti delle Quattro Giornate, Università Federico II, Napoli

I protagonisti della resistenza napoletana/partenopea

Dai bambini agli adolescenti, tutti iniziarono a ribellarsi con azioni di resistenza. Come i giovanissimi studenti del liceo classico Sannazaro, guidati dal professore comunista Antonino Tarsia, che insieme ai partigiani furono tra i primi ad iniziare le operazioni di lotta contro i soldati tedeschi. Moltissimi morirono durante i combattimenti. O come il napoletano Salvo d’Acquisto, 22 anni, vice-brigadiere che andò contro l’ordine prestabilito immolandosi per salvare 23 vittime innocenti. Il 23 settembre del 1943, infatti, furono eseguiti dei rastrellamenti e catturati 23 uomini e un bambino, scelti a caso dai nazisti fra gli abitanti di un quartiere di Palidoro, con le accuse di tradimento e spionaggio. D’Acquisto decise di autodenunciarsi per salvarli dalle fucilazioni. A lui è stata data una delle due medaglie d’oro al valore, insieme alla medaglia d’oro alla resistenza data all’intera città di Napoli.

E, come spesso accade, alle lotte di liberazione partecipano anche combattenti e partigiani di altri Paesi, secondo un principio di “solidarietà internazionale” nella lotta contro il nazi-fascismo. Uno degli stranieri spesso non ricordato fu Federico Zvab, patriota originario di Kazlje, Istria, famoso antifascista che prese parte anche alla guerra civile spagnola. Dopo la vittoria di Franco, fuggì in Francia, dove però fu rinchiuso in un campo di prigionia con altri 15.000 reduci e poi, tramite un accordo franco-italiano, consegnato alle truppe fasciste. Fu deportato a Ventotene e torturato così pesantemente da essere trasferito all’ospedale degli Incurabili a Napoli nel 1943. Fu proprio nella città partenopea che Zvab entrò in contatto con le fila cittadine della resistenza e prese parte, con coraggio, alle quattro giornate di Napoli. Uno dei partigiani stranieri che spesso non viene ricordato degnamente nella narrazione delle giornate di liberazione.

Targa commemorativa per Federico Zvab

E poi ci sono le donne della resistenza. Sono così tante che le pagine di nomi e cognomi sarebbero numerose. Una delle più celebri è Maddalena Cerasuolo, che partecipò agli scontri armati contro i soldati tedeschi in difesa del Ponte della Sanità con i partigiani dei rioni Materdei e Stella, cercando di preservare un importante punto di accesso alla città, importante anche perché rappresentava uno dei canali di alimentazione dell’acquedotto napoletano. Le donne della resistenza napoletana usavano fucili, molotov e le armi che trovavano o che riuscivano grezzamente ad assemblare, per frenare l’avanzata del nemico.

Un’altra donna resistente fu Maria Bakunin, figlia del noto anarchico russo, professoressa di Chimica all’ Università di Napoli Federico II e zia del famoso matematico Renato Caccioppoli. Il 12 settembre del ’43, durante alcuni scontri a via Mezzocannone, i soldati tedeschi entrarono nell’università Federico II e la incendiarono, con lo scopo di distruggerne anche la biblioteca all’interno. Bakunin, ferma all’entrata della facoltà, con le fiamme dietro di lei, si sedette a braccia conserte sui gradini, sfidando i soldati tedeschi che infatti batterono in ritirata.

Gli scugnizzi

Scugnizzo è un termine che ormai è entrato nel gergo anche italiano, nonostante sia nato nel dialetto e nella tradizione napoletana. La Treccani lo definisce il “monello napoletano, con le sue caratteristiche di ragazzo astuto e intelligente, disposto ad «arrangiarsi» con espedienti anche scarsamente onesti”. Il termine, tra le numerose interpretazioni, potrebbe derivare dal latino “excuneare”, rompere, con riferimento alla rottura dello strummolo, il nome gergale per definire in napoletano il gioco della trottola.

Gli scugnizzi furono protagonisti fondamentali delle quattro giornate di Napoli. Il 3 ottobre 2023 nel quartiere Materdei a Napoli una piazza, senza nome da anni, avrà finalmente un’identità: sarà intitolata a Carmine Mosilli, 10 anni, scugnizzo che prese parte alle quattro giornate, a costo della sua vita. Lui, come Gennarino Capuozzo, Renato Grimaldi, e tanti altri avevano pochi anni quando decisero di fronteggiare l’esercito tedesco e morire fucilati in difesa della propria città. Questi bambini erano abituati a stare sempre in strada, tra bombardamenti e rifugi sotterranei. A vederne le foto d’epoca, con gli elmetti e i fucili, a sentirne pronunciare a voce alta i nomi e i cognomi, seguiti dall’età, non si può non sentire un brivido di sdegno e commozione. Renato Grimaldi, 13 anni. Roberto Iannuzzi, 15 anni. Gennarino Capuozzo, 12 ann
Sui loro atti di morte si legge: “Caduto nelle lotte di liberazione”.

Oggi a Napoli, a pochi passi da quella piazza senza nome, c’è la Fondazione Casa dello Scugnizzo, nel quartiere Materdei, una fondazione multifunzionale di assistenza sociale che si occupa di assistenza minorile, donne, anziani ed immigrati.

Fondazione Casa dello Scugnizzo, Materdei, Napoli

Pace e resistenza

Alle quattro di pomeriggio dell’ultimo giorno di settembre del 2023 il sole è ancora forte. Sembra strano che la città sia ancora ostaggio del calore, eppure è così. È il 30 settembre, l’ultima delle quattro giornate di Napoli. Il silenzio di fronte a queste storie è assordante, nonostante di rumori in strada ce ne siano tanti.
Tutte le storie narrate sono state protagoniste di una camminata per la pace, organizzata dal cantautore napoletano Antonio Prestieri, in arte “Maldestro”.

L’intento è proprio quello di riflettere sul passato e anche sul presente, in un momento in cui la pace sembra un concetto così lontano, tristemente astratto. Pace come assenza di conflitto, come sviluppo degno di un popolo nei propri processi sociali, politici ed economici. In un momento così complesso dal punto di vista geopolitico, la pace ad alcuni fa mestamente sorridere. Chi la professa e ne parla spesso viene deriso.  La commemorazione della resistenza delle quattro giornate di Napoli, sentire le storie di quei bambini, di quelle donne e dei giovani studenti, di quegli uomini che lottando con qualsiasi mezzo in proprio potere, ci riporta a riflettere sulla parola pace. Gli scugnizzi che sono morti a pochi anni durante la resistenza non hanno mai sperimentato la pace. Nati in guerra, morti che la guerra era ancora in corso, morti per resistere e liberarsi da quella guerra.

Oggi siamo assuefatti allo stato di guerra. Ci sembra quasi la normalità, purché sia lontana da noi. Eppure le guerre sono lì, a poche centinaia di chilometri da noi. Resistenza quindi nel senso di resistere per esistere, per dare un senso alla propria vita. Cercando un futuro degno e socialmente giusto.

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Le camicie danzano bianche al vento, con gli spari di cannone e i fucili lontani, in sottofondo. È la performance teatrale “in-visibili”, a cura della regista Marina Rippa, che si è svolta al Complesso San Domenico Maggiore.

Camicie bianche che danzano come se dentro non ci fosse aria, ma come se i corpi di chi ha lottato per quella causa, per quella lotta di liberazione, siano ancora lì, a vivere e guardarci. E a chiederci di non dimenticare questo passato.

Performance teatrale “In-visibili”, 29 settembre 2023, Complesso San Domenico Maggiore